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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È IL TESTO DEL "TIMEO" ...

Lezione N.: 
24

Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 1-2-3 aprile 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È IL TESTO DEL "TIMEO" ...

     Il ventiquattresimo itinerario del nostro viaggio si svolge a ridosso del tempo pasquale che rievoca, nella liturgia cristiana, il processo, la passione, la morte e la resurrezione di Gesù di Nazareth. In analogia con questo avvenimento già dalla scorsa settimana abbiamo cominciato a raccontare – a grandi linee e in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quel fatto importante che, per la storia della cultura, è stato il processo e la morte di Socrate. Ricordiamoci che i Padri della Chiesa greca – forse avremo modo di studiarne il pensiero in futuro – hanno considerato Socrate come un "precursore" nella storia della salvezza.

     La Scuola, come abbiamo già detto, ha proposto il racconto del processo e della morte di Socrate in funzione propedeutica in modo che, poi, ciascuna e ciascuno di noi – volendo – possa leggere e venire più agevolmente a contatto con i testi che su questo avvenimento, così significativo nella Storia del Pensiero Umano, sono stati prodotti da molte autrici e da molti autori nel corso dei secoli.

     Sappiamo che Platone ha dedicato al processo e alla morte di Socrate quattro dialoghi dai quali, liberamente, abbiamo preso spunto per costruire il nostro racconto. Questi quattro dialoghi sono: Eutifrone, dove incontriamo il filosofo, ancora libero, che si reca in tribunale per conoscere le accuse che gli sono state mosse da Meleto; l’Apologia di Socrate, che descrive le varie fasi del processo; il Critone, che racconta la visita in carcere del suo più caro amico il quale cerca di fare un estremo tentativo per salvarlo e il Fedone che racconta gli ultimi istanti di vita di Socrate e riporta il celebre discorso sull’immortalità dell’anima.

     La Scuola, di queste opere – che possiamo trovare facilmente in biblioteca – consiglia ancora una volta la lettura, perché adesso tutte noi e tutti noi possediamo qualche competenza e qualche strumento in più per avvicinarci a questi testi che non sono immediatamente fruibili senza il supporto dell’alfabetizzazione culturale e funzionale.

     La settimana scorsa ci siamo lasciati nel momento in cui, nella cella di Socrate, è entrato l’erborista con in mano la tazza contenente la pozione di cicuta. Sappiamo già che Socrate si rivolge a lui con queste parole: «Tu, o buon erborista, che di queste cose te ne intendi, dimmi, come mi devo comportare, che cosa si deve fare in simili circostanze?». Socrate afferma che fino all’ultimo c’è sempre qualcosa da imparare, afferma che il diritto-dovere all’apprendimento ci accompagna fino alla fine allargandoci la vita. Questo personaggio (di cui non conosciamo neppure il nome) ha dei consigli da dare a Socrate ma prima di far parlare l’erborista – noi vogliamo allungare la vita a Socrate secondo la volontà di Critone – prima di far parlare l’erborista dobbiamo dedicarci ad una riflessione tornando ancora sulla corsia dell’affresco rinascimentale intitolato La Scuola di Atene. Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo potuto constatare che Socrate, mentre attende l’esecuzione della sentenza, nei suoi discorsi – soprattutto in quelli incentrati sul tema dell’immortalità dell’anima – quando cita il concetto della divinità fa riferimento alla figura del dio Apollo.

     Questa figura mitica – la figura del dio Apollo – ha senza dubbio (molto più che la figura di Zeus) un ruolo importante nella teologia che è stata elaborata dalla sapienza poetica orfico-dionisiaca. Sappiamo che il mitico cantore Orfeo è il figlio di Apollo e della ninfa Calliope quindi la figura di Apollo sta "in principio" alla cultura orfico-dionisiaca. Orfeo è un personaggio che canta, con la sua bella voce (Calliope), le caratteristiche di Apollo, le virtù di Apollo. Orfeo canta per invitare gli esseri umani a far tesoro delle qualità di Apollo e a praticare le sue virtù. Anche per questo motivo non è casuale il fatto che l’immagine di Apollo sia costantemente presente nella Storia dell’Arte e della cultura, ed è quindi ovvio che questa immagine la si trovi raffigurata in una delle due nicchie che sovrastano La Scuola di Atene.

     Abbiamo detto che la figura di Apollo richiama determinate caratteristiche. Che cosa rappresenta, che cosa contiene – nell’ambito della Storia del Pensiero Umano – il simbolo di Apollo? La risposta ci viene anche data dalla filologia, dalla valenza che hanno le parole: che cosa significano le parole " apo-olon", da cui deriva il nome Apollo? "Olon", in greco, significa funesto, dannoso, tenebroso. Voi sapete che, in greco, il prefisso "apo", ha la funzione di capovolgere il significato della parola che segue, quindi il prefisso "apo" capovolge il significato di "olon" che significa funesto, dannoso, tenebroso. E qual è, allora, il contrario di dannoso, di funesto, di tenebroso, qual è il contrario del danno, il contrario del buio, il contrario della morte? Il termine "Apo-olon" significa quindi: vantaggio, risarcimento, dono, guarigione, vita, luce, musica, profezia, medicina, ma anche punizione, nel senso di una giusta, di una chiara, di una doverosa punizione. Ecco quali sono i significati del nome "Apollo": questi significati diventano anche caratteristiche divine nel momento in cui questo nome comincia a rappresentare la figura di un dio. Il nome di Apollo viene accompagnato spesso da un secondo nome: Febo, il Febo Apollo. Questo secondo nome è un rafforzativo e febos Febos, in greco, significa: la luce del sole, il raggio di sole, lo splendore. Quando la persona si rivolge al Febo Apollo compie un gesto in cui chiede, in cui auspica di potersi chiarire le idee: Apollo-Apo-olon è quindi il simbolo della ragione, dell’equilibrio, dell’armonia, dell’euritmia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In quale occasione e su quale argomento o su quale avvenimento, ultimamente, hai avuto la possibilità di chiarirti le idee (di celebrare un rito apollineo)?Scrivi quattro righe in proposito

I simboli di Apollo – secondo la tradizione mitica – sono: l’arco con le frecce, la cetra, il cigno, il lupo, l’olivo, la palma e l’alloro Tu quale di questi simboli preferisci?

Scrivilo

     E adesso, per chiarirci le idee, osserviamo ancora la statua di Apollo che, dalla sua nicchia, sovrasta il palcoscenico de La Scuola di Atene. Dobbiamo dire che tutte le divinità Olimpiche vengono solitamente raffigurate tenendo conto della cosiddetta "struttura bipolare" che si manifesta nella religione orfico-dionisiaca. Gli dèi hanno un piede nel territorio divino ma l’altro piede è ben collocato nel territorio umano e così ogni divinità, in virtù di questo dualismo, di solito è caratterizzata da più simboli. I simboli di Apollo, come abbiamo detto, sono: l’arco con le frecce, la cetra, il cigno, il lupo, l’olivo, la palma e l’alloro. Questi simboli umani, accostati alla figura di Apollo, finiscono per assumere caratteristiche divine. Due di questi simboli apollinei sono preminenti: l’arco con le frecce e la cetra. Qui, ne La Scuola di Atene, troviamo però un Apollo senza frecce: compare solamente la cetra, e sembra che il gruppo di studio – formato da Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante e Raffaello – abbia voluto dare rilievo esclusivamente alla musica cioè al concetto (divino, in senso pitagorico) dell’armonia. Diciamo che è molto significativa questa scelta soprattutto se si pensa al committente, a Giulio II, che usa in abbondanza le frecce di Apollo che, ai suoi tempi, sono già diventate palle di cannone. Che cosa dobbiamo pensare: che, approvando la scelta di spogliare Apollo delle sue armi (dell’elemento più terreno), Giulio II voglia ribadire che il suo essere guerrafondaio è solo una scelta imposta dalle circostanze, è solo una necessità contingente?

     L’immagine di Apollo costruita da Raffaello è considerata, intanto, un capolavoro del chiaroscuro, e poi il senso che ha questa immagine è quello di creare il "tutto armonico". Che cosa significa questa affermazione? Significa che La Scuola di Atene è una di quelle opere (forse la più importante) che rielabora la cultura orfico-dionisiaca e crea quella che viene chiamata la "linea apollinea" della filosofia greca. I tre grandi capiscuola – Pitagora, Socrate e Platone – che troviamo al centro dei tre gruppi fondamentali sulla parte destra dell’affresco sono strettamente legati ad Apollo cioè al concetto dell’euritmia. Per quanto riguarda Pitagora, Diogene Laerzio – nella sua opera intitolata Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi, che conosciamo – dice testualmente: "Sembra che Pitagora ebbe un comportamento così grave e dignitoso, che i suoi discepoli credettero che fosse Apollo venuto dagli Iperborei".

     Per quanto riguarda Socrate possiamo dire che il suo rapporto con la figura di Apollo è veramente stretto. Se sfogliate le pagine – e la Scuola vi consiglia di farlo – del dialogo di Platone intitolato Apologia di Socrate potete leggere "il responso dell’oracolo di Apollo a Delfi" dove Socrate viene proclamato il più sapiente tra gli esseri umani e, con questa affermazione, ha inizio la sua missione. E qual è la missione di Socrate? La missione di Socrate è quella di stimolare (come un tafano fremente) tutte le persone che incontra a "fare ricerche (a fare luce)", perché "una vita senza ricerche (senza la luce della sapienza) – afferma Socrate – non è degna per la persona umana di essere vissuta".

     Nel dialogo intitolato il Fedone – di cui si è parlato spesso e che la Scuola vi invita a leggere – Platone scrive che, prima di morire, Socrate compone un Inno ad Apollo. Per giunta sappiamo – attraverso il dialogo intitolato Critone, di cui la Scuola consiglia la lettura – che Socrate è stato condannato proprio nel giorno in cui è partita da Atene alla volta dell’isola di Delo, dove c’è il Santuario di Apollo, la Nave votiva che portava al tempio le offerte degli Ateniesi in ricordo dell’impresa di Teseo, e sappiamo anche che mentre la Nave sacra era a Delo non si eseguivano ad Atene condanne capitali e così Socrate, grazie ad Apollo, usufruisce di un mese di vita in più.

     Nel dialogo il Fedone – stavamo dicendo –, uno dei brani più famosi e di più alto spessore letterario è l’Inno ad Apollo che s’intitola Il canto dei cigni, un discorso in cui Socrate paragona le sue ultime parole sul tema dell’immortalità al canto dei cigni. I cigni – secondo la tradizione – sono uccelli bellissimi proprio perché sacri ad Apollo e, quando sentono che stanno per morire, i cigni si esibiscono nel loro canto più gioioso e più bello. «Io non sono – dice Socrate – molto da meno dei cigni i quali, quando sentono che devono morire, pur cantando anche prima, in quel momento cantano tuttavia i loro canti più lunghi e più belli, pieni di gioia, perché stanno per andarsene presso quel dio del quale sono ministri. Invece gli esseri umani, per la paura che hanno della morte, dicono menzogne persino sui cigni, e sostengono che essi, cantando il loro canto di morte, cantano per dolore. Io credo che i cigni, poiché sono cari ad Apollo, sono indovini, e, avendo la visione dei beni dell’Ade, nel giorno della loro morte cantano e si rallegrano, più che nel tempo passato. Ora anch’io mi ritengo compagno dei cigni nel loro servizio, e ritengo di aver avuto dal dio lo stesso dono e quindi perché devo andarmene da questa vita più tristemente di loro?». La Scuola vi invita a sfogliare le pagine del testo del Fedone – dove ogni paragrafo ha un titolo – e, dopo aver trovato Il canto dei cigni, consiglia di leggere per intero questo Inno ad Apollo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Dove hai visto i cigni l’ultima volta?Scrivi quattro righe in proposito

     Anche Platone naturalmente è strettamente collegato alla figura di Apollo e Diogene Laerzio nella sua Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi scrive alcuni dati significativi: leggiamoli.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Secondo la Cronologia di Apollodoro di Atene, un’opera scritta intorno al 120 a.C., Platone è nato nello stesso giorno in cui gli abitanti di Delo dicono che sia nato Apollo – il settimo giorno del mese di Targelione (maggio-giugno) – e ne celebrano la nascita Se Febo-Apollo non avesse dato la vita a Platone nell’Ellade, come avrebbe potuto curare con le Lettere le anime delle persone? Suo figlio Asclepio è il medico del corpo mentre il medico dell’anima immortale è Platone.

     Quindi – secondo la tradizione orfica – Febo-Apollo ha generato il medico Asclepio (un personaggio che abbiamo già incontrato) e il filosofo Platone: l’uno perché si dedichi alla cura del corpo, l’altro perché si dedichi alla cura dell’anima. Quindi Pitagora, Socrate e Platone, secondo la tradizione orfica, sono figli di Apollo. E nell’affresco de La Scuola di Atene questi personaggi risultano figli di un "Apollo-armonico" che dalla sua nicchia li sovrasta.

     E ora puntiamo la nostra attenzione al centro dell’affresco: tutti i quadri e le figure che abbiamo preso in considerazione e studiato fino ad ora sono sistemate in modo che ci sia una logica e questa logica – questo crescendo logico – conduce alle due figure centrali dell’affresco che si stagliano sullo sfondo luminoso del cielo.

     Queste due figure, nel loro atteggiamento simbolico con cui Raffaello le presenta – guidato dal gruppo di studio che lo orienta nel suo lavoro –, sono diventate, nel corso dei secoli (insieme alla Gioconda di Leonardo), le immagini più famose nella storia della rappresentazione grafica. E allora osserviamo la celebre figura di Platone: l’attenzione di tutte le osservatrici e gli osservatori si è sempre concentrata sulla metafora pittorica della mano destra alzata, con l’indice puntato verso il cielo. Il cielo è la sede di ogni principio ideale, e qui si vuole esprimere senz’altro, in maniera sublime, il messaggio metafisico di Platone, fondato sulla trascendenza e certamente Platone è il grande codificatore del mondo soprasensibile. Questa figura, con la mano sinistra, tiene un testo: quale libro ha in mano Platone? Qui non ci sono dubbi perché il titolo di questo libro è ben visibile: Platone tiene in mano il testo del dialogo intitolato Timeo.

     La prima cosa che dobbiamo chiederci – siccome non è stato Platone a scegliere –, la prima cosa che ci dobbiamo domandare, per onestà intellettuale, è: chissà se Platone avrebbe voluto tenere in mano proprio questo testo o – se avesse potuto scegliere –quale dialogo avrebbe messo in evidenza in questa vetrina, in questa finestra sul mondo della cultura? È questa una domanda alla quale non è facile dare una risposta. Perché il gruppo di studio – Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante e Raffaello – hanno scelto proprio questo dialogo? A questa domanda, invece, non è difficile rispondere perché il Timeo è stato sicuramente il dialogo più letto e più studiato di Platone nel corso del Medioevo e nel periodo dell’Umanesimo, quindi quello più influente.

     A questo proposito dobbiamo pensare che fino alla metà del XII secolo (fino al 1150) il Timeo era l’unico dialogo di Platone che si conoscesse integralmente in Occidente: il resto dei dialoghi di Platone entra, in ordine sparso, nei circuiti delle studiose e degli studiosi attraverso le ricerche degli intellettuali (arabi, ebrei, cristiani e laici) della Scuola di Toledo, di Averroè, di Abelardo, di Alberto Magno, di Tommaso d’Aquino ma questi personaggi (dei quali, se capiterà l’occasione, ne studieremo il pensiero in futuro) erano considerati molto pericolosi da chi deteneva il potere politico e religioso proprio perché volevano allargare il loro orizzonte culturale attraverso la cultura orfica e quindi, questi intellettuali studiavano le opere della sapienza poetica greca (soprattutto di Platone e di Aristotele) di nascosto. Di conseguenza durante tutto il Medioevo, per un tempo abbastanza lungo (per circa 350 anni), ufficialmente il pensiero di Platone fu rappresentato dal testo del Timeo.

     Il dialogo di Platone intitolato Timeo è quasi un trattato e contiene la sintesi più densa del pensiero cosmologico greco, le domande fondamentali alle quali il Timeo vuole rispondere: come sono fatti il mondo, la natura, l’Essere umano, l’anima, l’Universo? Il Timeo è una delle ultime opere scritte da Platone e i protagonisti di questo dialogo sono: il solito Socrate, Crizia, uno dei Trenta Tiranni, Ermocrate, famoso generale siracusano e Timeo di Locri, che compare solo in questo dialogo e c’è chi pensa che questo personaggio non sia mai esistito ma sia una figura inventata da Platone. Il personaggio di Timeo viene etichettato come un "pitagorico", e a lui Platone fa pronunciare il "grande discorso Cosmologico": questo discorso è diviso in quattro parti e si presenta come un vero e proprio trattato di didattica. In questo discorso Platone, per bocca di Timeo di Locri, afferma che il Demiurgo (sappiamo che, in greco, la parola "demiurgo" significa "vasaio", significa "artigiano"), ossia l’Artefice divino, che, impastando insieme le Idee (il mondo intelligibile) e la Materia, produce tutte le cose. Da questa mirabile opera del Demiurgo scaturiscono la bellezza e l’unità del Cosmo, derivano la generazione e la struttura dell’anima, vengono creati il tempo, i pianeti e le stelle, gli animali e gli Esseri umani. In questo dialogo – come possiamo capire – si alza davvero il dito verso il cielo: un cielo non solo inteso come il mondo dell’Intelligenza, come il mondo delle Idee ma anche come il trono su cui sta seduto un dio creatore. Il famoso Discorso sul Demiurgo – che appare come un "dio creatore" o, come lo chiama Platone, un "Fattore", "Padre di questo Universo", "Artefice del Mondo Creato" – assimila il pensiero di Platone a quello dei Padri della Chiesa. È evidente, quindi, che il dito di Platone puntato verso il cielo trasforma questo territorio in un simbolo divino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tu – come fa Platone ne La Scuola di Atene – hai mai puntato il dito verso qualcosa per indicarne la validità, l’utilità, la bontà, il pregio ? …

Basta una frase per rispondere…

     Se scorriamo il testo del Timeo possiamo leggere, a questo proposito molte affermazioni significative:

LEGERE MULTUM….

 Platone, Timeo

 L’Universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause. Il Fattore e il Padre di questo Universo è molto difficile trovarlo, e, trovatolo, è impossibile parlarne a tutti. Il Fattore dell’Universo era buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo, dunque, ben lontano dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui. E chi ammettesse questo principio della generazione del mondo come principale, accettandolo da persone sagge, l’ammetterebbe assai rettamente. Infatti l’Artefice dell’Universo, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e non stava mai in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo, di fare se non ciò che è bellissimo.

     Leggendo anche solo questo frammento dal testo del Timeo si può sentire la risonanza dei racconti delle Cosmogonie antiche, delle grandi narrazioni della creazione dell’Universo. Si sente nel Timeo l’eco dei grandi racconti della creazione del Mondo così come viene narrata dal libro della Genesi (abbiamo studiato lo scorso anno questo argomento) e questo fatto ha attirato molto l’attenzione delle lettrici e dei lettori dell’Occidente nel periodo del Medioevo, e degli intellettuali agli inizi (intorno all’anno Mille) del cosiddetto movimento culturale della Scolastica. Poi il movimento della Scolastica (speriamo di potercene occupare in futuro) comincia a studiare sistematicamente tutto Platone nella sua complessità, una complessità che emerge anche nel testo del Timeo.

     Platone – e questo è un altro elemento che determina la sua grandezza – scrive sempre con uno stile ipotetico, interlocutorio, problematico: non dice mai: le cose sono così, la scrittura di Platone non ha la caratteristica di essere "sacra". Platone afferma: "Sono io che penso che l’Artefice divino potrebbe fare questi ragionamenti" e, facendo questa riflessione, si capisce che l’Artefice diventa, per Platone, un Fattore che si presenta non come un dispensatore di dogmi ma come un proponente di dialogo, un interlocutore. Dobbiamo tener presente anche che nel Timeo Platone presenta una Cosmologia (la forma dell’Universo) con caratteristiche di tipo non esclusivamente teologico ma anche di tipo matematico e scientifico.

     Nel Timeo Platone coltiva l’idea che il Demiurgo crea usando i triangoli regolari e i cinque solidi geometrici regolari che formano le strutture atomiche dei corpi fisici. Gli atomi della terra hanno la struttura del cubo, di un poliedro a 6 facce. Gli atomi del fuoco hanno la struttura del tetraedro, di una piramide a base triangolare con 4 facce. Gli atomi dell’aria hanno la struttura dell’ottaedro, di un poliedro con 8 facce. Gli atomi dell’acqua hanno la struttura dell’icosaedro, poliedro con 20 facce. E il dodecaedro, un poliedro a 12 facce, è la struttura di cui il Demiurgo si serve per ornare il disegno dell’Universo. Queste strutture, che abbiamo descritto a parole, noi le possiamo vedere realizzate perché le ha disegnate Leonardo da Vinci per il matematico Luca Pacioli che le ha pubblicate sulla sua opera intitolata De divina proportione del 1498, stampata a Venezia nel 1509.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il disegno di queste strutture geometriche si può osservare facendo una ricerca o sull’enciclopedia o in biblioteca o sulla rete

     La comparsa di Leonardo da Vinci sul percorso del nostro itinerario è consequenziale al fatto che il volto di Platone ne La Scuola di Atene – tutti lo sanno – è il ritratto di Leonardo da Vinci. E, dopo quello che abbiamo detto, ci pare evidente che Raffaello – con il consenso dei membri del gruppo di studio – abbia fatto questa scelta.

     E invece, su questa questione – sull’immagine del volto di Platone ne La Scuola di Atene – c’è una polemica in corso, c’è una discussione che dura da sempre. Come mai Raffaello rappresenta Platone con il volto di Leonardo da Vinci quando ha a disposizione molte statue antiche che rappresentano il volto di Platone? Naturalmente una rappresentazione non di com’era in realtà, ma di come era immaginato idealmente. Molte di queste statue che rappresentano Platone erano già servite anche per rappresentare il modello dell’uomo greco, e anche per rappresentare la figura di Aristotele. Infatti, quando raffigurano il volto di Aristotele o quello di Zenone di Elea, le artiste e gli artisti prendono come modello le statue che rappresentano Platone. E poi, per giunta, Raffaello – insieme ai membri del gruppo di studio – sa (tutti lo sanno) che Leonardo da Vinci ha sempre fatto professione di aristotelismo e, probabilmente, se avesse potuto scegliere, non avrebbe accettato di buon grado di rappresentare Platone. Perché allora viene fatta questa scelta da parte di coloro – Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello – che sono gli ispiratori culturali dell’affresco de La Scuola di Atene?

     Le studiose e gli studiosi presumono che in questo caso deve aver pesato la scelta di Raffaello, condivisa dagli altri membri del gruppo di studio. Raffaello pensa che Leonardo da Vinci sia un grande pittore soprattutto perché ha teorizzato, ha descritto e ha sostenuto l’idea – ha scritto un’opera in proposito – che la pittura sia la maggiore di tutte le arti e, naturalmente, Raffaello condivide il pensiero di Leonardo e si forma su questo pensiero. Raffaello aveva assistito, a Firenze, alle famose dispute tra i due grandi del momento: Leonardo e Michelangelo e, giovanissimo, aveva parteggiato per Leonardo che difendeva e spiegava con validi argomenti il primato della pittura contro Michelangelo che sosteneva, con altrettanto accanimento, il primato della scultura. E allora la scelta di dare il volto di Leonardo da Vinci a Platone è strategica: quello che viene considerato da tutti gli Umanisti il più grande di tutti i filosofi, Platone, deve avere il volto di quello che viene considerato il maggiore tra i pittori, Leonardo.

     La cosa più buffa e singolare è che per raffigurare il volto di Aristotele – che è lì accanto, e poi lo incontreremo a tu per tu – anche Raffaello usa come modello quello delle statue che rappresentano Platone: quindi l’idea che, comunque, la figura di Platone debba dominare è abbastanza chiara ed evidente. Anche se la definizione del pensiero di Platone non è mai stata una cosa facile per vari motivi: per l’influsso di Socrate, per lo spirito da artista che condiziona Platone, per la risposta che dà a certi problemi insolubili con il racconto del mito.

     L’iter filosofico di Platone non è facile da seguire: è in continua evoluzione e i suoi dialoghi non sono catalogabili cronologicamente ed è perciò difficile ricostruire l’itinerario del pensiero platonico. Ma il grande merito di Platone – il motivo per cui ha una posizione centrale nell’affresco de La Scuola di Atene – è quello di aver nettamente distinto il mondo delle cose dal mondo dei valori. La vita umana – pensa Platone – è fatta di cose che possono essere definite sperimentalmente, però la vita umana acquista un significato solo attraverso i valori. I valori rappresentano il vero motivo per cui la vita valga la pena di essere vissuta, e i valori per Platone sono trascendenti, sono al di là delle cose ed è quindi difficilissimo raggiungerli, ma non è impossibile perché Platone avverte che i valori – quando Platone parla di "valori" si riferisce alle idee e alle forme –, pur distinti e diversi dalle cose, sono, in quanto idee e in quanto forme, presenti nelle cose stesse. Ma su questo argomento, prossimamente, dovremo fare chiarezza. Ora torniamo ad osservare l’affresco!

     Nell’affresco de La Scuola di Atene, di fianco all’immagine di Platone, schierati e compatti, ci sono cinque personaggi che danno forma al cosiddetto "quadro dei Platonici": sono persone di varie età le quali guardano tutti non il dito del Maestro, ma piuttosto il testo del Timeo che ha in mano. Chissà se Raffaello e i membri del gruppo di studio che lo assiste conoscevano il celebre aforisma di Scuola confuciana che dice: "Quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito"? Qui, tra gli ermeneuti, tra le interpreti circolava una maldicenza: sembra che solo Aristotele stia guardando il dito. Ma noi non vogliamo dilungarci su queste dispute che, nei secoli, sono sempre continuate tra neoplatonici e neoaristotelici.

     Dobbiamo occuparci d’altro: chi sono questi personaggi che affiancano Platone? Sono identificabili queste figure? Non è facile identificare queste figure se non complessivamente: questo è il quadro dei Platonici, una sintesi che rappresenta i discepoli di Platone. Perché si parla di una sintesi e qual è il problema che si pone per un’identificazione individuale di queste figure?

     Per rispondere a queste due domande dobbiamo prendere in considerazione quello che scrive il (solito) Diogene Laerzio il quale, nella sua Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi, ci fornisce un elenco dei fedeli discepoli di Platone e, in questo elenco, nomina ben ventiquattro persone (nell’affresco – che deve avere un suo equilibrio formale – in ogni quadro non c’è posto se non per un numero limitato di figure) e poi Diogene Laerzio aggiunge che dovrebbe citare molte altre persone in relazione con Platone: nell’elenco delle ventiquattro c’è anche il nome di Aristotele di Stagira.

     Si presume che non sia stato facile, quindi, per il gruppo di studio – Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello – che ha programmato il contenuto e la forma de La Scuola di Atene comporre il quadro dei Platonici. Le studiose e gli studiosi fanno delle ipotesi sulle figure che compongono questo quadro e sostengono che tra questi personaggi è difficile pensare che possano mancare i due successori di Platone nella direzione dell’Accademia.

     Questi due personaggi rappresentativi sono: Speusippo di Atene, che è nipote di Platone e che dirige l’Accademia dopo la morte del Maestro, e Senocrate di Calcedonia che succede a Speusippo. Le due figure che nel quadro dei Platonici sovrastano le altre potrebbero rappresentare questi due personaggi.

     Nell’elenco dei ventiquattro fedeli discepoli di Platone composto da Diogene Laerzio troviamo anche due donne e, questo fatto, porta a chiederci se, in generale, nell’affresco de La Scuola di Atene, sia rappresentata qualche figura femminile: ricordiamo che le donne partecipano attivamente alla Storia del Pensiero Umano e non emergono solo per ragioni di subalternità sociale, non per carenze di tipo intellettuale. Chi sono le due discepole di Platone citate da Diogene Laerzio? Le due donne discepole di Platone sono Lastenia di Mantinea e Assiotea di Fliunte la quale, specifica Diogene Laerzio, "indossava sempre abiti maschili". Le studiose e gli studiosi pensano che il personaggio in primo piano del gruppo dei Platonici abbia tutta l’aria di essere una donna: il fatto che possa essere vestita da uomo è più difficile da constatare perché qui, ne l’affresco de La Scuola di Atene, tutti gli uomini portano la sottana. Si presume che questo personaggio, dal volto, dai capelli, dall’abito, dal modo di porsi, dalle scarpe, possa essere una donna, possa essere Assiotea di Fliunte.

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Non è facile trovare notizie su Assiotea di Fliunte, prova a consultare l’enciclopedia o la rete per raccogliere qualche dato in proposito

     E ora dalla corsia moderna che attraversa lo spazio dell’affresco torniamo a camminare su quella che attraversa il territorio dell’Ellade: questa corsia antica ci riporta nella cella della prigione di Atene dove Socrate ha appena ricevuto dalle mani dell’erborista la tazza con la pozione di cicuta che lo deve portare alla morte.

     A quest’atto finale partecipano tutti i più importanti discepoli di Socrate, manca solo Platone, e pensare che sarà proprio lui, poi, a raccontare quest’atto finale, ma non solo: che cosa sarebbe Socrate nella Storia del Pensiero Umano se non avesse incontrato Platone?

     Platone racconta che Socrate – ribadendo ancora una volta che c’è sempre qualcosa da imparare, esaltando il diritto-dovere all’apprendimento – si rivolge all’erborista chiedendo: «Caro amico, tu che di queste cose te ne intendi, che cosa si deve fare in simili circostanze?». «Niente altro che bere – risponde l’erborista – e camminare su e giù per la stanza, e poi, quando comincerai a sentirti vacillare sulle gambe, sdraiati sul lettino e vedrai che il farmaco farà tutto da sé». Socrate – come è nel suo stile – chiede ancora: «Pensi che con una bevanda simile si possa brindare a qualche dio, ad Apollo (ci si possano chiarire le idee)?». «Noi – risponde l’erborista – di queste cose non ci occupiamo: ci limitiamo a pestare la pianta quel tanto che basta perché sia efficace in modo da non provocare sofferenze».

     Dopo aver detto queste parole l’erborista porge la tazza a Socrate il quale, senza esitazione, ne beve il contenuto tutto d’un fiato. Il suo è un gesto improvviso, definitivo, che sconvolge tutti i presenti, anche quelli che fino ad allora erano riusciti a non emozionarsi troppo. Critone è disperato, si alza ed esce dalla cella, mentre Apollodoro, che già da prima aveva le guance rigate di pianto, si mette a singhiozzare disperatamente; Fedone piange con il viso nascosto tra le mani. Il povero Socrate – ancora una volta – non sa che cosa fare e cerca di dare un po’ di conforto a ognuno, è lui che avrebbe bisogno di essere consolato e deve consolare quelli che ha intorno: rincorre Critone e lo riporta nella cella, accarezza i capelli di Apollodoro, abbraccia Fedone e asciuga le lacrime a Eschine. Poi, ad un certo punto, Socrate comincia a protestare: «Ho fatto andare a casa Santippe, Mirto, i miei figli, proprio per evitare scene incresciose ma voi vi state comportando peggio di quanto si sarebbero comportati loro. Siate forti e siate sereni come si addice ai filosofi, a coloro che studiano, a coloro che amano la ricerca e come si addice alle persone giuste».

     A queste parole i discepoli si vergognano un po’ e ritrovano la loro compostezza e allora Socrate ne approfitta per passeggiare avanti e indietro nella cella, come gli ha suggerito l’erborista. Dopo qualche minuto, sentendo le gambe sempre più pesanti, Socrate si sdraia sul lettino e attende con calma la fine. L’erborista gli preme con forza una gamba e gli chiede se avverte la pressione della mano, Socrate risponde di no: il veleno sta facendo il suo dovere e pian piano tutto il suo corpo perde ogni sensibilità.

     Socrate sussurra le sue ultime parole: «Ricordati, o Critone, che siamo debitori di un gallo ad Asclepio: offriglielo per mio conto, non te ne dimenticare». Queste parole di Socrate corrispondono ad una significativa affermazione, come dire: "a questo punto sono guarito". Critone lo rassicura che sarà fatto quello che chiede e aggiunge: «Non vuoi nient’altro? Hai ancora qualcosa da dirmi?» Ma Socrate, ormai, non risponde più. La morte di Socrate è un avvenimento commovente ma – a differenza della morte di Gesù di Nazareth – caratterizzato dalla serenità.

     Sono tante le opere letterarie e artistiche che si rifanno alla vita, al pensiero e alla morte di Socrate e, quindi, non è facile fare delle citazioni. Bisogna comunque compiere delle scelte e la Scuola vi invita a puntare l’attenzione su tre opere tra le meno convenzionali, e le meno facili, sull’argomento.

     Nel 1931 lo scrittore greco Kostas Varnalis (1884-1974) pubblica un’opera – una parabola satirica – intitolata Autentica Apologia di Socrate. Quest’opera è una parodia dell’Apologia di Socrate di Platone, che Varnalis trasforma in una attualissima "denuncia". I personaggi – Meleto, Anito, Licone, i cinquecento giudici popolari, Pericle, Aspasia – sono gli stessi personaggi antichi ma che agiscono in un contesto contemporaneo e la città di Atene è quella moderna di oggi. Kostas Varnalis è stato un eminente professore di filologia classica e vuole fare un’operazione di recupero della figura originaria di Socrate il quale, nel corso dei secoli, è stato "santificato", è stato "imbalsamato" e trasformato in modo che il suo atto di accusa contro una società corrotta ed ipocrita è caduto nel vuoto.

     Kostas Varnalis utilizza la dialettica socratica con tutta la sua potenzialità satirica per colpire personaggi di potere che, presenti nei governi di tutti gli Stati (siamo all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso) stanno operando per affossare la democrazia in nome dei propri interessi.

     Socrate indirizza la sua denuncia contro i suoi accusatori: contro Anito, che viene rappresentato come un ricco proprietario di concerie, ex comandante della flotta ateniese imputato dell’accusa di tradimento e poi assolto perché compra i giudici. Socrate indirizza la sua denuncia contro l’oratore Licone che, in qualità di comandante dell’esercito, abbandona al nemico – in cambio di una ricca tangente – le fortificazioni che avrebbero dovuto proteggere la città. Socrate indirizza la sua denuncia contro Meleto, lo sconosciuto poeta in cerca di notorietà, perché (pur di apparire) accetta di vendersi agli altri due accusatori come falso testimone. Socrate indirizza la sua denuncia contro sei (un campione significativo) dei suoi cinquecento giudici per smascherare la loro ipocrisia: c’è il presidente della "Lega per la difesa della morale" che accompagna di persona la moglie dai suoi amanti per poi ricattarli, c’è il sacerdote del tempio eleusino che sfrutta la sua carica per arricchirsi, ci sono i fratelli del Pireo che fanno buoni affari con la concessione statale per la compravendita del grano, c’è l’usuraio che dona altari alle chiese, c’è l’appaltatore dell’imposta statale sulle case di tolleranza che di mestiere fa il protettore. Il Socrate di Kostas Varnalis profetizza, a circa 2400 anni dalla morte, la propria "santificazione" per opera dei discendenti e degli emuli dei suoi carnefici, che hanno trasformato – interpretando Platone in modo consolatorio – la sua dottrina in uno strumento per la conservazione dello status esistente, contro cui aveva lottato tutta la vita per far primeggiare la giustizia nella polis.

     La seconda opera che citiamo s’intitola Socrate ed è un dramma sinfonico scritto dal compositore francese Erik Satie (1866-1925), su tre frammenti tratti da tre dialoghi di Platone: il Simposio, il Fedro e il Fedone. Questo dramma sinfonico è stato eseguito per la prima volta nel gennaio 1918 alla Societé Nationale di Parigi con pieno insuccesso di pubblico e di critica. Oggi, questo breve oratorio per quattro soprani e piccola orchestra (flauto, oboe, clarino, clarinetto, corno, tromba, arpa, timpani e archi), viene considerato un capolavoro.

     La terza opera che citiamo s’intitola Il Socrate immaginario e si tratta di una commedia scritta da Ferdinando Galiani (1728-1787) e da Gian Battista Lorenzi (1710-1807), musicata dal compositore Giovanni Paisiello (1740-1816) e rappresentata a Napoli nel 1775. Lo spunto, come dichiarano esplicitamente gli autori nella prefazione, viene dal Don Chisciotte di Cervantes: il protagonista di quest’opera si chiama don Tammaro, un ricco benestante, al quale la lettura degli antichi filosofi ha stravolto il cervello ed egli si crede un novello Socrate e vuol comportarsi in tutto e per tutto come il grande filosofo ateniese. Naturalmente la moglie di don Tammaro, donna Rosa, si comporta – senza saperlo – come una Santippe in piena regola (è brontolona, autoritaria, gelosa), mentre Calandrino, il suo cameriere, diventa Simma e il suo barbiere, mastro Antonio, nel gioco delle parti, diventa Platone. Intorno a questo trio – don Tammaro, Calandrino e mastro Antonio che vengono fatti muovere dagli autori con una buona inventiva estrosa e burlesca – s’intrecciano le vicende della storia: amori, avventure, contrattempi comici. Ne Il Socrate immaginario sembra che gli autori abbiano voluto, tra l’altro, prendere in giro un dotto e vanitoso avvocato napoletano, don Saverio Mattei, infatuato di grecità e socratico al cento per cento nel sopportare le bizze e gli sgarbi della sua consorte donna Giulia Capece Piscitelli.

     La musica del Paisiello è composta secondo le forme dell’opera buffa napoletana: recitativi, arie, duetti, quartetti, concertati. Ci sono delle scene di grande effetto in quest’opera come il finale del primo atto, che si svolge nella cantina dove don Tammaro è solito dare lezioni e dove, dopo l’enfatica incoronazione del maestro da parte dei discepoli, si ha l’irruzione degli altri personaggi, e tutto sfocia una grande festa poco socratica. Nel primo atto si trova un raro duetto tra due voci basse: don Tammaro e mastro Antonio cantano sui celebri versi «Sa che sa, se sa, chi sa, - Che se sa, non sa se sa: - Chi sol sa che nulla sa - Ne sa più di chi ne sa», dove il bisticcio di parole è tradotto musicalmente in una specie di canone buffonesco molto efficace e divertente. Nella decima scena del secondo atto, che ritrae la grotta dove don Tammaro va a consultare il suo demone (si gioca con tutte le parole-chiave del pensiero di Socrate), c’è il coro delle Furie (o delle Erinni), che ricorda il coro omonimo dell’Orfeo di Gluck, un’opera che era stata rappresentata a Napoli un anno prima de Il Socrate immaginario, ma Giovanni Paisiello – che aveva ascoltato con molta attenzione e ammirazione l’Orfeo di Gluck, considerato un grande maestro del melodramma – agisce di proposito facendo una tragicomica parodia del serioso coro di Gluck. Tragicomico è anche il finale del secondo atto dove viene intonata una finta marcia funebre a don Tammaro, e la commedia si chiude con un finale scherzoso, vivace e gustoso, che tende a far riflettere: il Socrate immaginario beve la famosa tazza di cicuta, che in realtà è un sonnifero, e così, dopo una bella dormita, don Tammaro si risveglia e ritorna, rinsavito, nel mondo della normalità dove deve risolvere alcuni problemi della cui esistenza non si è accorto durante la sua transitoria infatuazione: il miglior modo per imitare Socrate è quello di comportarsi da persone sagge.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

È bene essere a conoscenza dell’esistenza di queste opere: Autentica Apologia di Socrate di Kostas Varnalis che puoi cercare in biblioteca e sfogliarla, il dramma sinfonico Socrate di Erik Satie che, se capita l’occasione, puoi ascoltare e poi sarebbe utile che il teatro si ricordasse di allestire Il Socrate immaginario musicato da Giovanni Paisiello su testo di Ferdinando Galiani e di Gian Battista Lorenzi… La Scuola auspica che possano essere i Percorsi di alfabetizzazione culturale a incentivare l’attività editoriale, musicale e teatrale

     Tutto sommato la morte di Socrate – quella che ci racconta Platone – è un avvenimento caratterizzato dalla serenità: molto più cruento e drammatico è il racconto della morte di Gesù di Nazareth.

     A questo punto – anche a proposito di esecuzioni capitali ma stiamo per entrare nella settimana di passione quindi l’argomento, anche se scomodo, è calzante –, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, sul nostro itinerario si presenta un romanzo molto famoso e che penso sia stato letto (e riletto) dalla maggior parte di voi: ma l’esperienza sul terreno dell’alfabetizzazione insegna che non sempre ciò che sembra è la realtà.

     Il romanzo di cui la Scuola propone o ripropone la lettura s’intitola Il barone rampante, un testo scritto nel 1957 da Italo Calvino. Tutte noi e tutti noi conosciamo Italo Calvino (1923-1985) e in tutti i suoi libri troviamo una ricca Cronologia che mette al corrente la lettrice e il lettore sulla sua vita e le sue opere, quindi: utilizzatela. Questo romanzo, intitolato Il barone rampante, ha inizio quando il protagonista – che è un ragazzo, un adolescente di 12 anni, di nome Cosimo, figlio del barone di un immaginario paese della Liguria – stanco della vita piena di regole e di costrizioni, decide, come segno di protesta, di andare a vivere sugli alberi e di non scendere mai più. Così Cosimo Piovasco di Rondò – così si chiama il "barone rampante" – incomincia una nuova vita ricca di avventure e la sua vita e le sue avventure ci vengono raccontate da suo fratello Biagio che funge da narratore. Leggiamo l’incipit, l’inizio di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Italo Calvino, Il barone rampante (1957)

 Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come se fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: - Ho detto che non voglio e non voglio! - e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.

     Naturalmente ci troviamo di fronte ad un classico romanzo allegorico e Cosimo, progressivamente, si adatta alla vita sugli alberi, cercando di renderla più comoda possibile, sopravvivendo grazie alla caccia e vivendo molte avventure anche in relazione agli avvenimenti storici che investono la regione nella quale vive: dapprima Cosimo conosce una bambina, Violante, di cui si innamora perdutamente, ma lei parte e lui soffre molto. In seguito Cosimo lotta contro i pirati, legge molti libri diventando un filosofo conosciuto in tutta Europa, conosce anche un pericoloso brigante, Gian dei Brughi e partecipa alla sua redenzione che avviene grazie alla lettura e all’acquisizione della cultura, ma nonostante tutto questo lo vede poi anche morire sulla forca. Cosimo conosce Ottimo Massimo, il cane che gli tiene compagnia per molti anni. Un giorno Violante ritorna a casa e tra i due, che sono cresciuti, nasce un grande amore che però non dura, e quindi la ragazza riparte.

     Ora noi non possiamo raccontare la trama di questo testo perché sono molti gli avvenimenti e i personaggi che riguardano la vita di Cosimo, soprattutto – a vantaggio di chi non ha ancora letto questo romanzo – non si può raccontare il finale che corona tutta l’esistenza del "barone rampante". Cosimo ha una visione particolare della vita: secondo lui "chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria", cioè chi guarda dall’alto può vedere molte più cose e vederle meglio: con questa affermazione possiamo intuire come la vita di Cosimo sia un allegoria del suo pensiero.

     Italo Calvino – come spesso accade nelle sue opere – ci presenta un personaggio contraddittorio: all’apparenza Cosimo ha un animo molto forte e deciso, in realtà si rivela una persona molto fragile. Un aspetto molto importante del carattere di Cosimo, che lo scrittore mette bene in evidenza, è quello di voler sembrare migliore di quello che è veramente: infatti per questo ogni volta che racconta agli abitanti di Ombrosa le proprie avventure, ingigantisce enormemente i propri meriti e le proprie capacità. Questo personaggio manifesta soprattutto una ribellione e un rifiuto convinto per una realtà che impone convenzioni e rapporti non sentiti, e con questa figura l’autore vuole fare l’elogio dell’indipendenza di pensiero e la satira di una classe sociale imbalsamata, bigotta, conformista. In più Calvino vuole mettere in evidenza – e qui racconta il suo stato d’animo (questo è un tema calviniano che si ripete) – la condizione di estrema solitudine che, tutto sommato, vive ogni persona durante la sua esistenza e per fortuna ci sono la lettura e la scrittura a tenerci compagnia.

     Leggiamo alcune pagine che riguardano proprio l’importanza della lettura e della scrittura. Abbiamo detto che un giorno Cosimo entra in contatto con un terribile bandito, Gian dei Brughi e tra queste due persone nasce un significativo rapporto intellettuale: in queste pagine Calvino vuole fare l’apologia dei libri come strumento di redenzione e, questo concetto, lo troviamo anche ne La Scuola di Atene.

LEGERE MULTUM….

 Italo Calvino, Il barone rampante (195)

 Cosimo era su di un noce, un pomeriggio, e leggeva. Gli era presa da poco la nostalgia di qualche libro: stare tutto il giorno col fucile spianato ad aspettare se arriva un fringuello, alla lunga annoia.

Dunque leggeva il Gil Blas di Lesage (Ve lo ricordate questo testo e il suo autore? Lo abbiamo incontrato nel Percorso dello scorso anno), tenendo con una mano il libro e con l’altra il fucile. Ottimo Massimo, cui non piaceva che il padrone leggesse girava intorno cercando pretesti per distrarlo: abbaiando per esempio a una farfalla, per vedere se riusciva a fargli puntare il fucile.

Ed ecco, giù dalla montagna, per il sentiero, veniva correndo e ansando un uomo barbuto e malmesso, disarmato, e dietro aveva due sbirri a sciabole sguainate che gridavano: - Fermatelo! È Gian dei Brughi! L’abbiamo stanato, finalmente!

... continua la lettura ...

     In queste pagine che abbiamo letto, tratte da Il barone rampante di Italo Calvino, oltre a Cosimo e a Gian dei Brughi i protagonisti sono anche quattro libri che contengono quattro significative opere letterarie: Gil Blas di Alain-René Lesage (un’opera che abbiamo incontrato nel Percorso dello scorso anno, e con questo testo Gian dei Brughi inizia la sua carriera di lettore), Le avventure di Telemaco di François Fénelon (un’opera che Gian dei Brughi trova assai noiosa), Clarissa o Storia di una fanciulla di Samuel Richardson (un romanzo che appassiona il bandito) e La storia della vita del fu signor Jonathan Wild il Grande di Henry Fielding (un’opera che ha come protagonista un personaggio con il quale Gian dei Brughi si identifica completamente).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Prova a fare una ricerca su queste quattro opere utilizzando l’enciclopedia o la rete per conoscere di che cosa trattano o, meglio ancora, puoi cercarle in biblioteca in modo da poterle sfogliare e leggerne qualche pagina…

     Il racconto della morte di Gian dei Brughi – che è un personaggio da romanzo – risulta essere più drammatico della narrazione platonica della morte di Socrate: sovrasta, però, entrambi i racconti, per tragicità, la narrazione evangelica della morte di Gesù di Nazareth.

     Platone è assente il giorno della morte di Socrate ma sarà poi quello che darà a Socrate, al pensiero di Socrate, l’immortalità, e, probabilmente, nel procurare l’immortalità al pensiero di Socrate, Platone raggiunge l’obiettivo di procurare l’immortalità anche al suo pensiero.

     Ma chi è Platone, chi è questo personaggio che abbiamo già incontrato e citato molte volte attraverso i suoi dialoghi? Dopo la pausa pasquale, fra quindici giorni, lo incontreremo da vicino.

     La celebrazione della Pasqua – dopo gli argomenti che, questa sera, abbiamo trattato nel contesto di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura – è molto semplice: il bandito de Il barone rampante si redime attraverso la lettura e capisce che deve pagare il conto alla giustizia terrena. Questa metafora letteraria creata da Italo Calvino nella quale si mette in evidenza il valore salvifico che ha la lettura, il valore di redenzione che ha lo studio, ricorda ciò che abbiamo ripetuto altre volte in occasione della Pasqua. Ricorda ciò che ha scritto Gregorio Magno, papa dall’anno 590: Gregorio Magno nei suoi Dialoghi scrive: «Studiare è cominciare a risorgere». Da questa affermazione di Gregorio – il papa che scrive la regola di San Benedetto: prega, lavora e studia – si capisce che "studiare è un gesto pasquale" per eccellenza.

     La Scuola – il luogo dello studio – è qui, e tra quindici giorni il viaggio sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele continua…

     Buona Pasqua di "studio" a tutti…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 3, 2009