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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È IL CONTRASTO TRA L’ERISTICA E LA DIALETTICA ...

Lezione N.: 
17

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    11-12-13 febbraio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È IL CONTRASTO TRA L’ERISTICA E LA DIALETTICA ...

     L’obiettivo principale del nostro Percorso didattico è quello di favorire la conoscenza e la comprensione delle parole-chiave e delle idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Abbiamo imparato che questi tre importanti modelli culturali caratterizzano la Storia del Pensiero Umano dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500 e, quindi, l’eredità intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele è parte integrante della nostra identità culturale e la centralità di queste figure la possiamo osservare nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene, dipinta da Raffaello, a cominciare dal 1508, su ordine di papa Giulio II. Per questo motivo – e ormai lo sappiamo bene – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia moderna che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia antica che percorre il territorio orfico dell’Ellade.

     A questo punto del nostro viaggio abbiamo terminato di descrivere la prima zona dell’affresco che – come sappiamo – è formata da alcuni importanti quadri: c’è il quadro del pensiero orfico-dionisiaco con al centro il Libro delle parole degli albori, c’è il quadro del pensiero orfico-pitagorico con al centro il Libro della dottrina di Pitagora. Poi ci sono le immagini di tre figure significative: il seducente giovane vestito di bianco che rappresenta l’ideale greco della bellezza (kallas), e della bontà (agatha); lo statuario Empedocle che tiene in mano il Libro de Le purificazioni, e il poderoso Eraclito che – sul sentiero orfico dell’Ellade – abbiamo incontrato nelle ultime due settimane, il quale è stato rappresentato da Raffaello in modo monumentale, in stile michelangiolesco, mentre, seduto in atteggiamento pensoso, sta scrivendo. In questa zona dell’affresco – e lo abbiamo già ricordato più volte ma è bene ripeterlo – ci sono due oggetti che uniscono i vari quadri e i vari personaggi: questi oggetti sono il Libro e la penna; quindi, la parte da cui si comincia a leggere l’affresco de La Scuola di Atene contiene un’apologia dell’esercizio della lettura e della scrittura.

     La settimana scorsa un’apologia dell’esercizio della lettura e della scrittura l’abbiamo trovata anche nell’opera di un personaggio che assomiglia, per lo stile di vita, alla figura di Eraclito: Robert Walser. Robert Walser – lo ricordate certamente – passa gran parte della sua vita in una casa di cura, isolato dal mondo, ma non è matto: è un poeta che non sa dove andare, ma scrive e cammina (Il passeggiatore solitario è il titolo di un libretto che lo ricorda scritto dal professor W.G. Sebald), Robert Walser scrive e cammina per il gusto di scrivere e di camminare. Robert Walser è angosciato (teme di ammalarsi di una malattia mentale come è successo a sua madre) ma, scrivendo e camminando, sembra scacciare l’angoscia fuori dal suo animo per far entrare qualche cosa che assomiglia all’allegria.

     Sappiamo che la persona che ha maggiormente comunicato con Robert Walser è Carl Seelig che si è occupato delle pubblicazione dei suoi libri. Robert Walser e Carl Seelig sono stati due instancabili camminatori: Robert Walser faceva anche 80 chilometri in dieci ore e si spostava regolarmente a piedi. Di queste camminate Carl Seelig – per fortuna (come abbiamo già detto la scorsa settimana) – ha tenuto un diario che ora è stato pubblicato con il titolo di Passeggiate con Robert Walser. Robert Walser insegna a Carl Seelig – e lo insegna anche a noi – che bisogna scrivere senza alcuna finalità pratica come se la scrittura fosse una realtà festiva: un momento di vacanza, la domenica della vita. Robert Walser, infatti, ha sempre scritto (anche più di quattro righe al giorno) con la certezza di non dover dire niente, né di conturbante, né di misterioso e difatti riesce a rendere epica la normalità: questo è il suo grande merito di scrivano.

     Carl Seelig dopo la morte di Robert Walser – avvenuta, come sapete, il giorno di Natale del 1956 durante una consueta camminata nella neve – si è impegnato soprattutto nella salvaguardia del cosiddetto Paese del Lapis. Con questo titolo sono stati raccolti, dopo un lungo lavoro di decifrazione e di trascrizione, i cosiddetti "microgrammi" (come li chiamava lui) scritti da Walser: sono pagine e pagine di poesie, di prose, di testi teatrali, che gradualmente cominciano ad essere pubblicati e recentissimamente è stato pubblicato un romanzo che s’intitola Il brigante. Queste centinaia e centinaia di pagine – che formano il cosiddetto Paese del Lapis  –sono state scritte a matita, su fogli volanti, su carta di recupero, con una grafia piccolissima che, con il passar del tempo, è diventata sempre più piccola, tanto che negli ultimi fogli i caratteri rasentano il limite della visibilità (è necessaria la lente d’ingrandimento). Le tracce che Robert Walser ha lasciato sul suo cammino sono così lievi che hanno rischiato di disperdersi se non ci fosse stata la scrittura.

     Il legame di questa persona con il mondo è stato dei più labili, e qui ci viene in mente Eraclito in esilio volontario in patria: anche il manicomio per Walser – che non era matto – è una forma di esilio volontario costruito con razionale consapevolezza. Robert Walser non vuole giungere a stabilirsi da nessuna parte, non vuole disporre di qualcosa di suo, fosse pure l’oggetto più insignificante. Non ha mai avuto una casa, né mai ha abitato a lungo – a parte la casa di cura – nello stesso posto. Non ha mai posseduto un arredo suo e, quanto al guardaroba, è fornito di un abito buono e di quello per tutti i giorni. Perfino di ciò che occorre a uno scrittore nell’esercizio del proprio mestiere, non c’è praticamente nulla che egli possa dire suo. In fatto di libri non possiede nemmeno quelli scritti da lui e ciò che legge, di solito, lo prende in prestito. Anche la carta su cui scrive è di seconda mano, quella di scarto, della cucina della casa di cura: è veramente esemplare questo distacco da ogni bene materiale come se fosse un monaco laico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con discrezione ma con determinazione puoi metterti sulle tracce di Robert Walser…

In biblioteca puoi trovare i suoi racconti intitolati  La passeggiata (1919) e La rosa (1925) e i romanzi intitolati I fratelli Tanner (1906), L’assistente (1907), Jakob von Gunten (1908). Di queste opere puoi leggerne qualche pagina…

     Nello scorso itinerario abbiamo letto due pagine (il racconto di una gita in barca di notte sul lago) dal romanzo L’assistente. La storia raccontata in questo romanzo è – come tutta la produzione di Walser – di carattere autobiografico sebbene lui riesca a tenere con grande abilità le distanze dai personaggi che lo rappresentano. Walser narra in questo romanzo un episodio della sua giovinezza quando ha lavorato davvero come scrivano e aiutante presso un ingegnere meccanico ricco di fantasia, ma incapace negli affari. Il protagonista di questo romanzo si chiama Joseph Marti ed è un giovane sensibile e timido, molto incline all’introspezione. Joseph Marti viene assunto dall’ingegner Tobler e il suo interlocutore privilegiato diventa la moglie dell’ingegnere: la signora Tobler, che è la vera è propria protagonista di questo libro, una delle figure femminili più interessanti (e questo lo dice Franz Kafka) della Letteratura mitteleuropea. La signora Tobler è una "donna qualunque", infarcita di luoghi comuni borghesi (nel senso deteriore del termine), in preda all’ignoranza, tutta dedita all’esteriorità che diventa però capace di costruire un rapporto straordinario con Joseph Marti e ne prende coscienza. Fra queste due persone – sovrastate dall’ingegner Tobler che, come moltissimi uomini (sostiene Walser), non è più capace di vedere le cose semplici e belle che lo circondano e di viverne il fascino – fra Joseph Marti e la signora Tobler si stabilisce una confidenza rispettosa, senza civetteria e senza abbandoni amorosi ma produttiva dal punto di vista intellettuale e spirituale per cui questa "donna qualunque" si scopre capace di vivere emozioni mai provate prima, di avere delle intuizioni estetiche che la gratificano nell’intimo e la rendono felice e allegra.

     Se leggiamo L’assistente di Robert Walser – e le sue opere in genere – dobbiamo conoscere questa "chiave" ed utilizzarla per interpretare i dialoghi e le varie scene: anche perché la lettrice e il lettore (oggi negativamente influenzati dai palinsesti televisivi) si aspettano che si manifesti un amore carnale e invece non succede niente di tutto questo perché banalizzerebbe la riflessione sul cambiamento di mentalità che Walser vuole proporre. Robert Walser dimostra, con discrezione, che i rapporti tra le persone (soprattutto tra uomini e donne) potrebbero essere molto diversi – più produttivi culturalmente – se si uscisse dagli schemi arcaici (tutti esteriori) con i quali è ancora disegnata la società e con cui sono codificati i ruoli.

     Robert Walser è uno di quegli scrittori (insieme a Franz Kafka, Robert Musil, Elias Canetti, Walter Benjamin) che, all’inizio del ‘900, invita con i suoi racconti ad una profonda riflessione sull’importanza che ha la formazione culturale delle persone per favorire il cambiamento di mentalità nei rapporti umani che devono essere purgati dall’istinto di possesso, dalla volontà di sopraffazione e fondati sulla "confidenza rispettosa" che stimola il desiderio di vivere gradevoli emozioni dalle quali possano scaturire gesti semplici e piacevoli.

     Leggiamo – per congedarci da Robert Walser – un frammento dell’inizio del romanzo L’assistente che, come tutti i suoi scritti, sono un’apologia della scrittura intesa senza alcuna finalità pratica così come s’intende una camminata quando la meta consiste nel gesto stesso del camminare:

LEGERE MULTUM….

 Robert Walser, L’assistente (1907)

Dopo questa conversazione il superiore assegnò al dipendente il posto dove «poteva» scrivere. Si trattava di un banco da disegno un po’ troppo stretto e troppo basso, con un cassetto nel quale c’erano la cartella dei francobolli e alcuni libretti.

Il tavolino poiché non era niente di più, e nemmeno un vero e proprio banco da disegno, stava accanto a una finestra, al livello del giardino. Al di là si vedeva in fondo il grande lago e, più oltre, la sponda opposta. Tutto aveva un tono molto grigio perché continuava a piovere.

- Venga! - disse Tobler a un tratto sorridendo in un modo che a Joseph parve piuttosto sconveniente.

- Infine anche mia moglie deve pur vederla. Venga con me, la presenterò. E poi deve vedere anche la camera dove dormirà.

Lo fece salire al primo piano dove venne loro incontro una figura femminile alta e snella. Era «lei». «Una donna qualunque, - guizzò per la mente del giovane impiegato, che però aggiunse subito tra sé: - Eppure no.» La signora osservò il «nuovo» con ironia e indifferenza, senza intenzione. L’una cosa e l’altra, la freddezza e l’ironia, dovevano esserle innate.

Gli tese la mano con noncuranza, anzi persino con indolenza, ed egli la strinse inchinandosi davanti alla «signora della casa». Così la definì in segreto non già per innalzarla a qualcosa di meglio, anzi, al contrario, per mortificarla subito. Secondo lui quella donna aveva un contegno decisamente troppo altezzoso.

- Spero che qui da noi si troverà bene, - disse lei con una voce stranamente acuta, torcendo un tantino le labbra.

     Continuate voi a leggere questo romanzo, noi ora torniamo nello spazio de La Scuola di Atene e andiamo ad osservare un altro quadro collocato al di sopra di quello raffigurante il rito orfico-dionisiaco.

     In questo quadro noi possiamo notare una situazione di conflittualità perché qui incontriamo tre personaggi nettamente separati da tutti gli altri. Questi tre personaggi, a loro volta, si trovano di fronte ad una figura, appartenente al folto gruppo che si trova davanti a loro, la quale con il gesto della mano tesa, con l’espressione del volto (il volto bisogna vederlo da vicino), con l’atteggiamento risoluto, sembra stia dicendo, con decisione: "State alla larga, statevene fuori, andatevene via!". Mentre uno dei tre personaggi che si vorrebbero isolare, tende il braccio con la mano aperta e sembra voglia affermare: "Ma, ci siamo anche noi!". Questo dialogo, che avviene attraverso le braccia e le mani, esprime una situazione di disagio e i gesti che vengono fatti comunicano, a prima vista, un giudizio negativo su queste tre figure, su quello che rappresentano e anche sul loro pensiero.

     Intanto dobbiamo dire che il gioco delle "braccia protese" costruito da Raffaello in questo quadro costituisce un’altra citazione michelangiolesca perché ricorda l’immagine grandiosa della "creazione dell’Uomo" dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina, e tutte noi e tutti noi abbiamo questa icona negli occhi dove il vecchio Dio Padre e il novello Adamo protendono il braccio (e le loro mani quasi si toccano) l’uno verso l’altro: è possibile – si domandano le studiose e gli studiosi – che Raffaello, interpretando le conversazioni del gruppo di lavoro che prepara il contenuto dell’affresco, abbia anche voluto alludere al tema della "creazione" e della conseguente cacciata dal Giardino dell’Eden? E in quali termini, a proposito del tema della "creazione", può essersi svolta la discussione tra Giulio II, Bramante, Raffaello e Fedra Inghirami il quale naturalmente, da bibliotecario, ha messo senz’altro sul tavolo i testi che ritiene utili per dare spessore al contenuto che sta prendendo forma in questo quadro? Dobbiamo lasciare in sospeso, ancora, questi interrogativi perché per rispondere dobbiamo acquisire degli elementi procedendo con cautela sull’itinerario di questa sera.

     I tre personaggi raffigurati in questo quadro rappresentano il gruppo dei Sofisti e in primo piano c’è una bellissima figura a torso nudo che tiene in mano due volumi e un rotolo, quindi i protagonisti sono ancora i libri e non un Libro solo ma tanti Libri. La descrizione di questo quadro finirebbe qui se ci limitassimo ad una osservazione superficiale senza cogliere gli stimoli intellettuali che contiene. E gli stimoli intellettuali che questo quadro contiene – soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura (che rappresenta lo specifico del nostro Percorso) – contribuiscono a complicare il nostro viaggio e quindi noi dobbiamo rallentare il passo ma non dobbiamo rifuggire dalle complicazioni che la dinamica dell’apprendimento ci presenta perché la consuetudine di rimuovere tutto ciò che è considerato difficile (non sempre a ragione) o di banalizzate i temi della cultura per fini strumentali conduce al progressivo (e negli ultimi vent’anni è successo così) aumento strutturale dell’ignoranza della popolazione e del degrado cognitivo.

     Una delle affascinanti complicazioni intellettuali che ci si pone subito di fronte, osservando questo quadro, riguarda proprio la figura a torso nudo che appare in movimento e che tiene in mano due volumi e un rotolo: questa figura – secondo una corrente di pensiero, soprannominata la corrente di Fedra, che studia l’influenza che hanno avuto le opere letterarie nella realizzazione dell’affresco (soprattutto quelle di tradizione orfica messe sul tavolo dal bibliotecario Fedra Inghirami) – rappresenterebbe un personaggio che non può essere esplicitamente nominato, che non appartiene al gruppo dei Sofisti e che viene raffigurato da Raffaello come se volesse correre via, come se stesse passando oltre per andare verso il gruppo che ha di fronte. Chi è questo personaggio? Questo personaggio – secondo la corrente di Fedra – rappresenta una citazione letteraria che stimola una significativa riflessione che però non avremo il tempo di imbastire questa sera: dobbiamo preparare il terreno procedendo con circospezione.

     Abbiamo detto che questo quadro rappresenta il gruppo dei Sofisti e i Sofisti vengono visti qui secondo una tradizione che li considera negativamente: come dei "venditori" di libri, come degli "spacciatori" di parole e di idee. Questo atteggiamento negativo nei confronti dei Sofisti non può però essere generalizzato perché bisogna distinguere: è vero che c’è un indirizzo mercantilistico della sofistica, e questa tendenza si afferma prepotentemente (con il potere della persuasione pubblicitaria) ad Atene al tempo di Platone ma naturalmente questo è solo uno degli aspetti che riguardano il pensiero, piuttosto eterogeneo, derivante dalle Scuole dei Sofisti. La tradizione negativa inizia quando Platone in molti dei suoi dialoghi (attraverso il peso che ha la scrittura) utilizza la figura di Socrate che polemizza contro i Sofisti mercantilisti. Platone considera poco educativo il comportamento dei Sofisti mercantilisti e li apostrofa come "parolai" e come "incompetenti dal punto di vista del ragionamento" perché non riesce a concepire che ci si possa far pagare (e a caro prezzo) per insegnare, e non sopporta che si possano vendere le proprie opere e che si possa far commercio dei propri scritti. Naturalmente denigra anche coloro (i ricchi ignoranti) che comprano dai Sofisti mercantilisti facendosi abbindolare dalla mirabolante pubblicità con cui costoro si presentano sulla piazza come venditori di sapienza. Platone scrive più volte che "non bisogna scrivere" e questa affermazione significa che "non bisogna scrivere per mettere in vendita i propri trattati". E qui si deve chiarire questo concetto perché il pensiero di Platone è stato volutamente frainteso: Platone non denigra l’esercizio della scrittura – al quale si dedica con grande dedizione e basta guardare il volume che contiene le sue opere – ma denuncia coloro che trafficano con la scrittura a scopo di lucro.

     Mentre Raffaello sta disegnando il cartone preparatorio del quadro che rappresenta il gruppo dei Sofisti Fedra Ighirami ha certamente messo sul tavolo dell’ufficio di Giulio II il dialogo di Platone intitolato Sofista. Questo dialogo (probabilmente lo ricordate) lo abbiamo citato cinque settimane fa quando abbiamo incontrato Parmenide ad Elea. Nel dialogo il Sofista – che ha per tema la questione dell’Essere e del Non-essere –Platone sviluppa anche il concetto "del falso e dell’apparente" e affida la conduzione del dialogo ad un personaggio sconosciuto che chiama lo "Straniero di Elea". Con questa maschera drammaturgica Platone porta a termine il celebre "parricidio di Parmenide": un tema che abbiamo studiato cinque settimane fa e che ripassiamo nelle sue linee generali. Parmenide proclama che «l’Essere è e il Non-essere non è» ma questa affermazione, che esalta il concetto dell’Essere (l’Essere è l’unica cosa che esiste), decreta l’annullamento dei fenomeni naturali: e allora – si domanda Platone – gli eventi naturali non ci dovrebbero essere e come è possibile che le cose materiali esistano ma non siano quello che sono? L’affermazione di Parmenide – «l’Essere è e il Non-essere non è» – sancisce che i fenomeni naturali non dovrebbero esistere e quindi è come se la realtà fisica fosse sparita insieme alle opinioni e alle apparenze. Ma, con la svalutazione totale delle opinioni e delle apparenze, spariscono anche le forme mediante le quali, per contrasto, si manifesta la Verità. Platone vuole proclamare il principio dell’Essere – perché Parmenide ha ragione quando afferma che ci debbono essere dei principi assoluti condivisi su cui fondare la Costituzione dello Stato – ma vuole anche dare valore ai fenomeni naturali: Platone vuole anche ammettere la necessità del «Non-essere (dei fenomeni naturali)». Come è possibile – afferma Platone nel dialogo intitolato Sofista – concepire l’Essere se non si ha contemporaneamente anche l’idea del Non-essere? Come si fa a intuire l’Uno senza conoscere il Molteplice? È come parlare della Luce senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Buio. È come parlare del Bene senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Male. E allora siccome per intuire l’Essere c’è bisogno, come elemento pregiudiziale, della conoscenza del Non-essere, il pensiero di Parmenide – scrive Platone – va modificato, va completato, non si può dire «l’Essere è e il Non-essere non è» ma bisogna affermare che: «l’Essere è e il Non-essere non è pur essendo necessario», e per poter affermare che "l’Essere è" è necessario il "Non-essere". Questa è la formula usata da Platone nel dialogo il Sofista per compiere il celebre "parricidio di Parmenide".

     Platone decide di attuare il "parricidio di Parmenide" modificandone il pensiero ma riconoscendolo come proprio "padre". Ne confuta la rigidità della dottrina ma tributa al maestro di Elea il più grande onore. Platone, nel dialogo il Sofista, afferma che il Non-essere non è la contrapposizione assoluta dell’Essere ma è una forma diversa dell’Essere: il Non-essere, la Natura, è l’Essere che si manifesta in forma "diversa" dall’Essere per un motivo di necessità perché l’Essere è necessario. Nella realtà – afferma Platone nel Sofista – si possono riconoscere cinque generi sommi e fondamentali: non solo l’essere, ma anche il movimento, la quiete, l’identico e il diverso. Questi generi fondamentali hanno un rapporto dialettico tra loro, e il "diverso" è il genere che corrisponde al "non-essere" e ha una funzione necessaria. È il genere del "diverso" che ci fa concepire l’intreccio tra le varie Forme, cioè ci permette di distinguere l’Essere dal Non-essere, il verbo dal nome, il soggetto dall’oggetto. Il "diverso" è l’elemento necessario per lo sviluppo della dialettica e oggi questa parola e l’idea che contiene sono al centro del dibattito che investe la problematica dei diritti e dei doveri. È il genere del "diverso" che ci fa capire l’importanza e il valore del pensiero, del discorso, dell’opinione e dell’apparenza e che ci stimola ad incamminarci sul sentiero della ricerca (dello svelarsi) della Verità (Aletheia).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nella tua infanzia o nella tua adolescenza c’era qualcosa che, nel bene o nel male, ti faceva sentire "diversa" o "diverso"?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     A questo proposito – apriamo una parentesi in funzione della lettura e della scrittura – ha scritto qualcosa un autore che si chiama Goffredo Parise il quale negli anni ’60, in pieno sviluppo economico, mette in evidenza i gravi limiti culturali, l’ignoranza, soprattutto dei membri della borghesia italiana che è stata la causa della grave crisi morale che stiamo vivendo e che non sembra ancora essere giunta al suo apice. "La maggioranza degli Italiani – scrive Parise citando Platone nel dialogo il Sofistasi è assuefatta all’immoralità e respinge in modo giustificatorio, il ruolo dialettico del genere del diverso". Goffredo Parise, purtroppo, è stato profeta.

     Goffredo Parise (1929-1986) è uno scrittore veneto – è nato a Venezia ed è morto a Treviso – ed è autore di alcuni romanzi di cui si consiglia la lettura: Il ragazzo morto e le comete (1951), Il prete bello (1954), Il fidanzamento (1956), Il padrone (1965), L’assoluto naturale (1967). Goffredo Parise si distingue soprattutto come scrittore di racconti e i più significativi sono raccolti nei volumi: Il crematorio di Vienna (1969), Sillabario 1 (1972), Sillabario 2 (1982). Nei racconti (fatti a posta per leggere dieci minuti al giorno) Parise mette in evidenza tutta la grottesca ironia e l’acuta analisi che emerge dagli aspetti alienanti della società ormai assuefatta a convivere con l’immoralità. Parise poi, come giornalista, ha scritto alcuni famosi reportages come Cara Cina (1966), Due, tre cose sul Vietnam (1967), Biafra (1968), NewYork (1977). Goffredo Parise dà spunto, con la sua letteratura, anche ai film di Michelangelo Antonioni sull’incomunicabilità, una situazione drammatica che nasce dall’aver confuso il benessere materiale con il ben-essere spirituale e intellettuale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Buona lettura delle opere di Goffredo Parise che puoi trovare in biblioteca e buona visione dei film di Michelangelo Antonioni che puoi trovare in cineteca

L’ultimo spettacolo messo in scena da Paolo Poli è imperniato sui racconti di Goffredo Parise…

     E ora leggiamo un racconto da Il crematorio di Vienna dove il concetto di "diversità" perde il suo valore dialettico per dare spazio alla omologazione, alla docilità. La società "docile" – così la chiama Parise – non è una società che ha rinunciato ai diritti e al proprio grado di libertà (la protagonista del racconto che stiamo per leggere rivendica il diritto e la libertà di rifarsi il viso anche se ha fattezze normali e gradevoli) ma trova fastidioso che ci sia qualcuno che si opponga alla sua docilità verso il sistema dell’omologazione. Una società "docile" diventa inevitabilmente – allude Parise – autoritaria e paternalista perché la docilità è una qualità che si richiede agli animali (considerati esseri inferiori) ed è un obiettivo che i domatori si prefiggono quando cercano di abituare un animale a fare meccanicamente determinate cose violentando la sua indole. Docilità significa rinunciare – per incapacità di riflessione critica, allude Parise – ad avere una diversa opinione e a fare diversamente rispetto ai convincimenti che vengono diffusi da chi detiene il potere economico che si avvale di strumenti nuovi di persuasione, di carattere mediatico. Mentre gli antichi tiranni – allude Parise – usavano la tortura e le punizioni esemplari nelle pubbliche piazze, il moderno potere mediatico non ha più bisogno di usare la violenza diretta (e se la usa, si guarda bene dal farlo in pubblico), usa invece una specie di addomesticamento che produce – scrive Parise circa quarant’anni fa (ed è stato profeta, purtroppo) – una forma di "passiva imbecillità" per cui le cittadine e i cittadini docili sono ridotti ad essere un pubblico che, in silenzio, assiste continuamente alla spettacolarizzazione degli avvenimenti. La politica come spettacolo che ha preso ormai il sopravvento – afferma Parise circa quarant’anni fa (ed è stato profeta, purtroppo) – non assomiglia ad un agone (come quello della polis) ma ad una sala cinematografica e il dissenso, la virtù più utile in una democrazia (così sostiene Pericle), è tacciato di generare destabilizzazione e non riflessione. La buona cittadina, il buon cittadino – allude Parise – non dissente, ma segue, accetta e opera con solerte consenso. Parise descrive già un’Italia che assomiglia ad una grande caserma docile, assuefatta, mansueta ma che cova, nel suo intimo, paure, forme di illegalità e di immoralità che oggi emergono in tutta la loro brutalità. Il fatto è che ormai, dopo anni di allenamento televisivo (di "manganello mediatico" come scrive Popper), gli Italiani, come bambine e bambini ben addomesticati, hanno acquisito un preciso docile temperamento e tutt’al più sentono di avere una brutta faccia e pensano che possano mutare spirito andando da un chirurgo plastico come ritiene – nella sua docile determinazione – la protagonista di questo racconto premonitore, premonitore come tutti i racconti di Goffredo Parise.

LEGERE MULTUM….

 Goffredo Parise, Il crematorio di Vienna (1969)

 Sono una ragazza di ventitrè anni e da cinque lavoro come commessa in un grande magazzino. Posso ben dire di essermi fatta la mia vita, ho cominciato molto presto a conoscere il valore del denaro, infatti, proprio per ragioni di denaro me ne sono andata da casa appena compiuti i ventun anni. Ora abito in un appartamentino di due stanze e servizi, tutto ammobigliato da me e non dipendo da nessuno. Ogni anno faccio la mia villeggiatura marina (mi piace il mare, mentre la montagna mi dà tristezza) in un albergo di prima categoria, in una città di mare molto ben frequentata. Insomma, ora come ora, le cose non mi vanno male; ma un amore sfortunatissimo l’ho avuto due anni fa e mi ha lasciata piuttosto malridotta.

... continua la lettura ...

     E ora torniamo al Sofista di Platone.

     Platone, nel dialogo il Sofista, dietro la maschera dello Straniero di Elea (questo personaggio è Platone stesso), dopo aver tolto rigidità ai concetti di Essere e di Non-essere ne dichiara la valenza dialettica: l’Essere e il Non-essere non sono elementi in contrapposizione tra loro ma sono nozioni in correlazione tra loro. La correlazione tra Essere e Non-essere assume una validità soprattutto dal punto di vista culturale e serve a Platone per giustificare la sua severa critica nei confronti dei Sofisti: una critica che esprime con determinazione nella prima parte del dialogo il Sofista. I Sofisti non ammettono la Verità oggettiva, non riconoscono alla Ragione un’essenza che si basa su Principi universalmente riconosciuti, ma perseguono la formulazione di certezze soggettive e variabili per poter avere sempre ragione in funzione di interessi individuali da imporre. I Sofisti – secondo Platone – destabilizzano il concetto dell’Essere per consolidare la pratica dell’avere.

     Platone, nella terza parte del dialogo il Sofista, enumera e spiega le sei definizioni preliminari che determinano la tipologia del sofista.

     La prima definizione dice che "il sofista è un cacciatore di giovani ricchi" e di conseguenza il suo obiettivo è il denaro e non l’educazione.

     La seconda definizione dice che "il sofista è un mercante senza scrupoli di cose che riguardano l’anima" quindi il frutto che produce la sua opera di mercanteggiamento viene inevitabilmente inquinato dall’immoralità.

     La terza definizione dice che "il sofista è un rivenditore al minuto di nozioni" quindi il suo intervento è diretto a far aumentare la saccenteria e non la sapienza.

     La quarta definizione dice che "il sofista è un diffusore di eristica", e l’eristica (fra poco ritroveremo questo termine sul quale rifletteremo ulteriormente) è la tecnica della contesa a parole per avere sempre ragione anche sostenendo una tesi fraudolenta.

    La quinta definizione dice che "il sofista pretende di purificare l’anima con un sapere apparente", quindi con una conoscenza che non istruisce ma suggestiona, imbonisce e seduce costringendo tutto il sistema educativo ad omologarsi al ribasso.

     La sesta definizione dice che "il sofista è un imitatore delle cose con parole secondo apparenza" e questo atteggiamento finisce per rinchiudere la persona in una spirale di simulazione facendola allontanare dall’essenza (dall’idea) delle cose e quindi dalla vera realtà, instaurando, di conseguenza, una dinamica pedagogica che diseduca, disinforma, impone disvalori e condiziona la persona nei consumi e nei costumi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è qualcosa di ciò che ti viene imposto nei consumi e nei costumi che ti infastidisce particolarmente?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     È agghiacciante il fatto di come il pensiero e il linguaggio del dialogo il Sofista (e dei dialoghi in generale) di Platone sia di così stretta attualità ed è significativo come questo testo possa far riflettere tutte le persone che intendono reagire al vero degrado in cui ci troviamo: il degrado culturale causato dal deficit intellettuale della popolazione. Il degrado culturale fa sì che gli slogan sostituiscano il sistema dei ragionamenti, i giochi a quiz sostituiscano il sistema dell’interrogarsi (soprattutto sui temi esistenziali), i test sostituiscano il sistema degli esami (a cominciare da quelli di coscienza) in un processo di semplificazione che riduce tutto a una conoscenza superficiale ed effimera.

     Platone considera in modo molto negativo la diffusione dei trattati con l’obiettivo di fare soldi: per Platone la conoscenza non può essere venduta e questo comportamento, secondo lui, è in contrasto con la diffusione della cultura. Il sistema – afferma Platone – non diffonde la cultura ma vende una finta cultura, inculca una cultura apparente perché la conoscenza non si può comprare con i soldi ma si acquisisce in un processo (rituale) di apprendimento. La diffusione della cultura – e per cultura Platone intende la conoscenza dell’essenza delle cose e la comprensione dell’idea che le cose contengono – cammina non sulle gambe del mercato dove le persone, secondo le loro necessità, comprano e vendono merci, ma sulle gambe delle Scuole che devono offrire un itinerario gratuito, graduale e continuo di apprendimento. Questo pensiero di Platone è, oggi, nei fatti, completamente perdente ma questo non significa che non sia logico, retto, corretto e quindi che non debba essere assunto come giusto (è motivo di orgoglio essere qui a mettere in pratica questo programma di sviluppo intellettuale).

     Platone, tra le righe del dialogo intitolato Sofista, sostiene un ragionamento che Raffaello – nel quadro dell’affresco che stiamo osservando – mette in evidenza e che rispecchia una situazione che ci riguarda da vicino: in circolazione – allude Platone – c’è una quantità enorme di libri (la maggior parte dei quali sono superflui, non inutili perché nessun libro è inutile) e il paradosso sta nel fatto che nessuno (se non una esigua minoranza) li legge, ed è inconcepibile che i libri – allude Platone – vengano prodotti principalmente come merce per essere venduta e successivamente inviata al macero e non come veicolo per intraprendere (mediante l’esercizio della lettura e della riflessione) un viaggio di studio. Quindi, secondo il pensiero di Platone, ci sono troppi libri in circolazione (c’è un’inflazione) e a che cosa servono tutti questi libri – si domanda preoccupato Platone – se il numero delle lettrici e dei lettori, delle scrivane e degli scrivani, delle studentesse e degli studenti non aumenta ma tende a diminuire? Platone – tra le righe del dialogo intitolato Sofista – sostiene che il sistema tende a mistificare con la quantità (con il non-essere, con tante cose inutili e futili) l’incapacità di coltivare la qualità (l’Essere, l’essenza delle cose). La crescita culturale, la capacità di investire in intelligenza, non dipende dalla quantità dei libri (dall’avere) perché di un libro – allude Platone – ne possono bastare due copie in ogni Scuola. L’importante è che la persona vada ad animare una Scuola perché è frequentando una Scuola che può leggere, conoscere e capire il testo del libro, nell’ambito di un percorso di studio dove possa applicarsi, insieme ad altre persone motivate, in modo da poter identificare il libro come strumento che favorisce il suo itinerario di apprendimento.

     Il libro – allude Platone nel dialogo Sofista – assume un valore se l’esercizio della lettura si presenta come un dinamico "modo di Essere" (leggere è un modo di Essere) che facilita il riconoscimento delle idee, e le idee, contenute nelle parole-chiave, sono – per Platone (ma a suo tempo lo studieremo meglio) – la vera realtà. Se non conosciamo le forme, se non comprendiamo il significato delle parole-chiave e delle idee-cardine, non siamo in grado di decifrare la realtà: leggere è un modo di Essere, è un procedimento efficace per imparare a percepire l’essenza della realtà perché fa aumentare la capacità di conoscere, di capire, di applicarsi, di analizzare, di sintetizzare e di valutare.

     Questa affermazione – "leggere è un modo di Essere" che (dal IV secolo a.C.) traiamo dal dialogo Sofista di Platone, oggi nel mondo, fa da slogan alle tante manifestazioni librarie (che si tengono sotto l’egida del mercato e ben vengano anche se, e non si capisce come mai, non fanno mai cenno al tema dell’alfabetizzazione) e allora se "leggere è un modo di Essere" il fatto che il numero delle lettrici e dei lettori (in Italia in particolare) sia bassissimo non dovrebbe far riflettere? Non dovrebbe questa situazione essere considerata un allarme di carattere nazionale? Perché non si riesce a costruire un’efficace rete istituzionale di alfabetizzazione funzionale e culturale per la popolazione adulta (semianalfabeta in modo generalizzato) attraverso la quale si possa concretizzare il principio (per giunta sbandierato ai quattro venti, ma non recepito) che "leggere è un modo di Essere"?

     Poi, qualcuno più interessato dice testualmente: "a che cosa serve leggere, c’è già la televisione!", ma anche i più sprovveduti si rendono conto del fatto che la televisione non insegna a leggere ma a blaterare in modo schizofrenico e, se mai, allontana dall’esercizio della lettura, della scrittura, del calcolo e contribuisce ad innalzare (in questi ultimi vent’anni è cresciuto di quattro volte) il tasso di ignoranza.

     Chi sostiene che "leggere non serve perché c’è la televisione" pronuncia una frase apparentemente asettica e confortata dai sondaggi perché il 99,99% delle persone guarda regolarmente la televisione e solo il 13% delle persone legge (neppure con tanta regolarità), e siccome l’uso dei sondaggi è diventato anacronistico se ne fa dedurre che l’esercizio della lettura non è gradito, è noioso e non serve a niente: e questo è un modo disgustoso di trarre profitto dall’ignoranza utilizzando l’ignoranza.

     Chi sostiene che "leggere non serve perché c’è già la televisione" fa, in modo propagandistico, un’affermazione assurda (anche se nessuno se ne rende conto): come si fa a mescolare l’esercizio della lettura con l’atto del guardare la televisione? Il "leggere" e il "guardare" sono due esperienze diverse che non si escludono (per giunta la Scuola non vuole demonizzare gli strumenti mediatici che sono dei mezzi da utilizzare soprattutto sul piano dell’informazione) ma purtroppo i più – addestrati alla docilità mediatica – non colgono la differenza tra l’atto del guardare passivo (facile e ipnotico) e l’esercizio intellettualmente attivo del leggere (più complesso e riflessivo).

     Chi sostiene che "leggere non serve perché c’è già la televisione" fa un’affermazione molto grave che purtroppo cade nel disinteresse generale perché siamo tutte e tutti un po’ drogati e questo fatto rimanda – come suggerisce il filosofo Karl Popper – al reato di abuso della credulità popolare secondo l’articolo 661 del Codice penale.

     Chi sostiene che "leggere non serve perché c’è già la televisione" persegue i propri interessi dimostrando di tenere maggiormente in conto l’Avere piuttosto che l’Essere e quindi c’è una corrispondenza per cui se il tema dell’Essere è subordinato a quello dell’Avere (che è quello che conta veramente) perché mai si dovrebbe leggere se leggere è, pericolosamente, "un modo di Essere"?

     Chi costruisce il proprio potere utilizzando l’efficace strumento dell’ignoranza ha tutto l’interesse a non dare spazio all’affermazione che "leggere è un modo di Essere" ma piuttosto preferisce propagandare l’illazione che "si vale solo per quello che si ha".

     La sorprendente contemporaneità della riflessione di Platone sull’essenza del libro e sulla natura dell’esercizio della lettura si completa con un ragionamento sul valore della cultura che ci chiama in causa: non è possibile misurare il valore della cultura sulla quantità registrabile sul mercato (per esempio sul numero dei libri venduti) ma il valore della cultura – allude Platone – si dovrebbe misurare sulla qualità che le Scuole sanno coltivare (sul processo di apprendimento che un libro letto ha saputo creare). Il "sofista" misura il valore della cultura sulla quantità e Platone disapprova questo comportamento, ma noi dobbiamo capire meglio in che modo si articola questa questione perché l’argomento che riguarda le Scuole dei Sofisti si presenta in modo eterogeneo con aspetti negativi ma anche con elementi positivi che lo stesso Platone elabora soprattutto per costruire l’immagine di Socrate il quale proviene dall’esperienza dei Sofisti criticandone duramente gli atteggiamenti mercantilistici ed elaborando una propria dottrina (che studieremo prossimamente) che supera il movimento dei Sofisti stessi: Platone dà voce, con la scrittura, a questo superamento e vuole porre il pensiero di Socrate (che poi è il suo) al di sopra delle congetture dei Sofisti.

     Per questo Platone è caustico nei confronti dei Sofisti in molte parti della sua opera: per esempio nel dialogo intitolato Protagora possiamo leggere queste parole significative.

LEGERE MULTUM….

Platone, Protagora

 E bisogna stare ben attenti che il Sofista, lodando le cose che vende, non ci inganni, così come fanno coloro che vendono il cibo del corpo, ossia i mercanti e i bottegai. Infatti, costoro, dei cibi che vendono, non sanno neppure essi quale sia buono e quale cattivo per il corpo, ma li lodano tutti per poterli vendere; e non lo sanno nemmeno coloro che li acquistano da loro, a meno che l’acquirente non sia per caso un maestro di ginnastica oppure un medico.

Così anche coloro che portano in giro per le città le loro dottrine, per spacciarle all’ingrosso o per venderle al minuto a chi, di volta in volta, ne ha desiderio, coprono di lodi ciò che hanno da vendere; ma, forse, costoro non sanno se le cose che vendono siano buone o cattive per l’anima: e, forse, lo ignorano anche quelli che da loro le comprano, a meno che l’acquirente non sia, per avventura, un medico dell’anima.

     Il titolo di questo dialogo corrisponde al nome del più noto e del più celebrato di tutti i Sofisti, un personaggio che abbiamo incontrato più di una volta nei nostri Percorsi: chi è (ce lo ricordiamo) Protagora di Abdera? È Protagora il personaggio raffigurato da Raffaello nel quadro dei Sofisti de La Scuola di Atene che, con la mano protesa verso la figura che ha di fronte e che li sta scacciando, sembra dire: "ci siamo anche noi"? Questo non lo sappiamo ma siamo quasi certi che Fedra Inghirami ha messo sul tavolo nell’ufficio di Giulio II, all’attenzione dei componenti del gruppo di studio che programma La Scuola di Atene, anche il dialogo di Platone intitolato Protagora: quindi questo personaggio aleggia nello spazio dell’affresco che stiamo osservando.

     Protagora – scrive Diogene Laerzio nella Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi – è soprannominato "il Ragionamento". Protagora è nato ad Abdera, intorno al 480 a.C., in una famiglia povera e, da bambino, cerca di guadagnarsi da vivere facendo il facchino, trasportando merci per conto dei commercianti del luogo. Un giorno il filosofo Democrito (quello che, per primo, ha pensato agli atomi), passando per una via di Abdera, osserva Protagora che sta caricando una grossa quantità di legna sul dorso del suo asino: Democrito – scrive Diogene Laerzio – rimane colpito per l’ingegnosità con cui questo bambino sta sistemando il carico. «Uno che riesce a fare un lavoro così ben fatto – pensa Democrito – possiede sicuramente una predisposizione naturale per il ragionamento logico» e, quindi, – scrive Diogene Laerzio – lo iscrive subito alla sua Scuola. Protagora frequenta la Scuola di Democrito con grande profitto, impara velocemente, e diventa in breve tempo un rètore, cioè un abile parlatore. Protagora ad Abdera – scrive Diogene Laerzio – presta servizio come lettore pubblico (non tutti sapevano leggere e c’era bisogno che qualcuno, gratuitamente a spese della polis, leggesse per gli altri), poi emigra ad Atene dove apre la sua Scuola di eloquenza che, per la prima volta, non è una Scuola gratuita ma molto costosa. Protagora è stato il primo a farsi pagare a caro prezzo (cento mine) per un corso d’oratoria e a introdurre ad Atene questa usanza che Platone – come sappiamo – considera biasimevole, riprovevole.

     Sul costo dei corsi di Protagora abbiamo molte testimonianze tra cui quella del grande rètore latino Marco Fabio Quintiliano (35-95 circa). Nella sua opera più importante intitolata Institutio oratoria vale a dire Le regole della retorica (dell’abilità del parlare) c’è anche un frammento che riguarda il prezzo, molto alto, dei corsi di Protagora. Leggiamolo:

LEGERE MULTUM….

Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria

Un allievo di Protagora scandalizzato per i mille denari che gli chiese a fine corso, cercò di non pagarlo, con la scusa che il compenso pattuito era subordinato al primo successo che egli avrebbe avuto in tribunale.

Protagora non si scompose minimamente e disse: «Caro amico, tu non hai scampo, giacché io ti cito subito in giudizio: se i magistrati ti daranno torto, mi dovrai pagare perché hai perso, se invece ti daranno ragione, mi dovrai pagare perché hai vinto»

     Protagora non risulta molto simpatico ad Atene e tutti ne dicono male, però quando parla tutti corrono ad ascoltarlo, naturalmente a pagamento. Protagora ad Atene – scrive Diogene Laerzio – gestisce personalmente la sua Scuola di eloquenza per circa quarant’anni e scrive molti libri. Le opere di Protagora che possediamo s’intitolano: La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes], le Antilogie, Sullo stato primitivo e Sugli dèi [Peri theon]. Sugli dèi è un saggio sul sentimento religioso che – ci racconta Diogene Laerzio – una sera Protagora, durante una cena, vuole leggere in casa di Euripide, il grande tragediografo di cui è amico. Protagora ha settant’anni, è celebre, è ricco, si sente sicuro, ma quella lettura lo fa cadere in disgrazia perché qualcuno ne approfitta per denunciarlo. Sappiamo che ad Atene vige una severa legge sulla blasfemìa: non si può parlar male degli dèi né dubitare della loro esistenza (anche se tutti dubitano). Questa legge è uno strumento egemonico, autoritaristico, che permette spesso di compiere, da parte di chi governa, degli abusi di potere.

     Protagora viene denunciato da un certo Pitodoro per una frase contenuta nell’opera Sugli dèi. Questa frase incriminata ha assunto, nella Storia del Pensiero Umano, un valore emblematico: «Intorno agli dèi – scrive Protagora – non ho alcuna possibilità di sapere né che esistono né che non esistono. Molti sono gli ostacoli che m’impediscono di sapere, sia l’oscurità dell’argomento, sia la brevità della vita umana». Protagora dubita e viene processato, viene condannato e, per non bere la cicuta e fare la fine di Socrate (Protagora non ha uno spirito eroico), fugge dalla Grecia e muore, mentre viene inseguito dalle triremi ateniesi, naufragando con il suo battello al largo delle coste della Sicilia. I suoi libri vengono bruciati sull’agora, sulla piazza, dopo che le case di Atene, a una a una, sono state perquisite per scovare tutte le copie in circolazione: ma tutte – per fortuna – non sono state scovate.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ti è mai capitato di nascondere un oggetto che ti stava particolarmente a cuore per salvarlo dalla distruzione?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     Diogene Laerzio nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi ci fa capire che Protagora, facendo questa fine, diventa un po’ meno antipatico e cita un frammento del poeta Timone di Fliunte che nei suoi Silli ricorda Protagora con commozione: leggiamo questo frammento.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Timone di Fliunte nei suoi Silli ha scritto:

Al primo di tutti i sofisti, di prima e di poi, di bella voce, d’acuto e versatile ingegno,

o Protagora. In cenere vollero ridurre i suoi libri, perché scrisse di non sapere

e di non poter comprendere gli dèi, chi sono, come e quali sono,

massima cura avendo d’un imparziale giudizio affermando essere troppo oscuro

l’argomento e troppo breve la vita umana. Non gli valse, e la fuga cercò per non bere

anche lui la fredda bevanda di Socrate e scendere nell’eterna penombra dell’Ade…

     Protagora di Abdera ha lasciato una traccia ben distinta nella Storia della Cultura. Il suo pensiero è contenuto tutto in un frammento dell’opera intitolata La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes]. Leggiamo questo frammento che è molto conosciuto:

LEGERE MULTUM….

Protagora di Abdera, La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes]

L’Uomo [ anthropos] è misura di tutte le cose:

di quelle che sono, per ciò che [in quanto] sono,

e di quelle che non sono, per ciò che [in quanto] non sono.

     Le studiose e gli studiosi – in questi secoli – hanno dato diverse interpretazioni a questo frammento. La prima cosa che ci dobbiamo domandare riguarda la parola Uomo, anthropos in greco: si scrive con la U maiuscola o con la u minuscola? Chi è l’Uomo o l’uomo, l’anthropos, a cui allude Protagora? È una persona qualsiasi, con la u minuscola? Oppure è l’Uomo in generale, quello con la U maiuscola che riassume in sé l’opinione media della categoria delle persone?

     Naturalmente questo fatto crea dei problemi d’interpretazione. Se l’uomo [l’anthropos] di cui parla Protagora è quello con la u minuscola, se quell’uomo o quella donna, è ciascuno di noi, con tutti i difetti e le qualità che ci caratterizzano questo che cosa significa sul piano della conoscenza? Significa che "ciò che ciascuno di noi conosce" non è una realtà oggettiva uguale per tutti, ma assume un significato preciso solo nel momento in cui il singolo individuo la percepisce, e naturalmente questo significato cambia col mutare delle opinioni [doxa] di ciascuno. In questo caso il pensiero di Protagora esprime un atteggiamento relativistico e questo investe sia il campo della conoscenza che quello dell’etica. Un bicchiere con dell’acqua dentro può apparire "mezzo pieno" o "mezzo vuoto" a due persone che lo guardano. Protagora si domanda: «È mezzo pieno o è mezzo vuoto questo bicchiere?» e risponde che: è ambedue le cose, proprio perché sono due le persone che danno un giudizio. E difatti nessuno dei due giudizi – osserva Protagora – è «più vero» dell’altro: al massimo possiamo dire che la definizione «mezzo pieno» è da preferire a quella «mezzo vuoto» perché «l’ottimismo» è preferibile «al pessimismo». Protagora trae la conclusione che il valore delle cose varia da persona a persona, e per lo stesso individuo, da momento a momento, e fin qui tutto fila liscio.

     Ma quando entriamo nel territorio dell’etica (che cos’è Bene e che cos’è Male) cominciano i guai perché inevitabilmente ci si domanda: esiste il Bene come valore oggettivo che sia riconoscibile da tutti? Ed esiste il Male, oggettivamente parlando, distinguibile da tutti? Oppure siamo sempre noi a stabilire ciò che è Bene e ciò che è Male? Questi sono problemi non indifferenti. Protagora di Abdera riflette sulla difficoltà di dividere nettamente il concetto del Bene da quello del Male: piuttosto che dividere – secondo lui – bisogna distinguere, bisogna indagare, bisogna "sofisticare".

     Nel termine "sofisticare" troviamo la parola sofia che significa "abilità, scienza, sapienza e saggezza": un ampio ventaglio di significati, utile per capire la ragione per cui le studentesse e gli studenti della Scuola di Protagora vengono chiamati "sofisti". Il merito (uno dei meriti) della Scuola dei Sofisti è quello di aver messo in evidenza "la zona grigia": la fascia intermedia che sta tra due estremi. La scoperta e l’identificazione della "zona grigia" mette in primo piano – accanto all’idea della Verità-Aletheia – il concetto del dubbio. E la parola "dubbio" – che usa Protagora, in greco – ci è famigliare (ce l’ha già insegnata, a suo tempo, Erodoto) perché corrisponde al termine aporίa-aporìa. Il dubbio [l’aporìa] è la "zona grigia" che sta intorno alla Verità per cui – secondo i Sofisti – la luce splendente della Verità ci appare sempre in penombra.

     La Scuola di Protagora insegna a cercare sempre, in ogni cosa, il rovescio della medaglia. Nell’Atene del V secolo a.C. qualcuno, nei confronti di Protagora, obietta che è molto comodo «fare il sofista». Io stabilisco, ad esempio, che è Bene fare il Male e rubo, ammazzo e prevarico, e così io sono coerente con il mio codice di comportamento personalizzato. Protagora che cosa risponde a chi gli pone questa obiezione? «Va bene» risponde Protagora «se uno ci riesce non ci sono problemi». Il fatto è che non è facile – sostiene Protagora – convincere la propria coscienza che rubare e ammazzare e prevaricare si identificano col Bene.

     E qui si apre una discussione – che dura tuttora – su come la morale comune può condizionare il relativismo sostenuto dai Sofisti. In una comunità educante dovrebbe funzionare il fatto che i giudici di noi stessi siamo noi stessi, ma è pur vero che il nostro giudizio è influenzato dalla morale degli altri. Qui entra in gioco la tesi di chi sostiene che, nel frammento di Protagora, il termine Uomo, sia scritto con la U maiuscola. In questo caso Protagora avrebbe detto che il Bene s’identifica con il Bene dell’Uomo in generale e quindi con il Bene della collettività.

     Il fatto è che negli scritti che ci rimangono di Protagora non risulta il fatto che lui abbia mai sostenuto una tesi del genere. Se mai Protagora sembra chiedersi provocatoriamente: «Ma esiste davvero l’Uomo in generale?». Probabilmente – pensa Protagora – l’Umanità è fatta di tante persone particolari e ognuna di queste persone la realtà se la inventa attimo per attimo. Protagora e i Sofisti guardano ad ogni cittadina e cittadino ateniese, senza fare distinzioni: le loro Scuole sono aperte a tutti purché si paghi la retta.

     Ogni cittadino ateniese, una volta entrato nell’assemblea (la bulè), diventa eguale all’altro. Le differenze di sangue e di censo non creano nessuna disparità di diritti. Ma è inevitabile che, di fatto, gli aristocratici, che sono quasi sempre anche i più facoltosi, abbiano la meglio. Pericle, lo conosciamo, è nobile e ricco: due qualità che, messe insieme alle sue doti, contribuiscono in modo decisivo ad assicurargli per un tempo assai lungo il potere. A gareggiare nell’assemblea ci sono anche dei ricchi senza prestigio di stirpe: possidenti agrari diventati industriali come Agnone, proprietari di miniere come Nicia e Callia, fabbricanti d’armi come Cefalo. Negli ultimi anni di Pericle, tra il 430 e il 420 a.C., accanto a questi rappresentanti dell’alta borghesia entra in gioco una nuova classe, di estrazione plebea, che ha accumulato grossi capitali durante l’espansione economica della città. È stata definita l’ala popolare del partito democratico: ne fanno parte il pellicciaio Cleone, il mercante di bestiame Lisicle, il venditore di tessuti Lucrate. Nei confronti degli aristocratici, che sono eredi di una raffinata cultura familiare, tanto i borghesi come Nicia quanto i popolari come Cleone si sentono in svantaggio per la mancanza di uno strumento che, nei dibattiti dell’assemblea, finisce con l’essere decisivo: l’eloquenza, la capacita di parlare in modo persuasivo. Pur di acquistare un simile strumento, se non per sé almeno per i propri figli, essi (tutti alla fine) sono pronti a pagare. E i venditori di eloquenza, i Sofisti, – dice sarcastico Platone – aprono le loro Scuole.

     I sofisti e Protagora, che è il capostipite dei nuovi maestri, diventano dei professionisti del sapere. Difatti il termine "sofista" assume ben presto il senso spregiativo che ha oggi. Non a caso tutti i Sofisti arrivano ad Atene da fuori perché l’etica dominante non consente agli Ateniesi, anche se la tollera, la pratica dell’insegnamento dietro retribuzione.

     Noi non dobbiamo pensare che i Sofisti, nelle loro Scuole, insegnassero l’immoralità: c’è un controllo (le leggi sulla blasfemìa) della polis (dello Stato) sui programmi scolastici. Anzi si approva la funzione di preparare le nuove generazioni ad affrontare le responsabilità politiche con adeguati strumenti culturali: in quanto ai costi delle Scuole, ad Atene c’è il libero mercato. Quindi i Sofisti come Protagora sono lucidamente consapevoli che il loro compito non è la pura ricerca filosofica, ma l’insegnamento della virtù politica, o più semplicemente della virtù: in greco aretè. In questo contesto però, alla fine, più che l’insegnamento per acquisire la virtù politica (l’arte della mediazione) prevale l’addestramento in modo da acquistare efficacia persuasiva per avere ragione sull’avversario.

     A questo proposito i Sofisti sono rappresentati da un certo Prodico di Ceo, un personaggio famoso ad Atene nel V secolo a.C.. Platone fa dire a Socrate spesse volte, in modo ironico, per denigrarsi, che lui è stato discepolo di Prodico. Prodico è il classico venditore di eristica, in greco érizo-téchne, l’arte della discussione, la tecnica della contesa a parole per avere, comunque, ragione. Se ciò che importa non è il contenuto di una affermazione, ma il modo con cui viene esposto questo contenuto ecco che ci si perde inevitabilmente nelle formalità, nelle sottigliezze logiche, nei ragionamenti cavillosi,: queste cose sono gli strumenti dell’eristica, dell’arte della discussione per avere ragione, e questi sono anche i segni di una decadenza che porta – al tempo di Platone – a considerare i termini "sofisma, sofista, sofistico, sofisticata, sofisticato, sofisticazione" come termini negativi.

     L’osservazione della Scuola di Atene ci fa riflettere sul fatto che non vengono allontanati i Sofisti in blocco, se mai assistiamo ad una presa di distanza dall’eristica come degenerazione della dialettica, e quindi bisogna distinguere tra l’eristica e la dialettica. La dialettica è la disciplina messa a punto dai Sofisti come Protagora e consiste nello studio delle potenzialità della parola come elemento distintivo della persona. I Sofisti come Protagora spostano decisamente la loro attenzione dall’investigazione della Natura all’osservazione della Persona. Prima di definire la natura dell’Universo occorre precisare i limiti della conoscenza umana, così la persona diventa arbitra della realtà e lo diventa attraverso la parola. Il mondo esiste nel modo in cui la persona è capace di descriverlo con le sue parole: ecco l’importanza della dialettica. La dialettica non è solo l’arte di discutere ma anche l’arte di descrivere con le parole la Natura, l’Essere umano, i Sentimenti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Prova a descrivere con una parola ciascuna queste tre cose: la Natura, L’Essere umano, i Sentimenti…

Scrivi

     Di questi concetti, riguardanti la disciplina della dialettica, si appropria anche Socrate e Platone li codifica. Il dialogo di Platone intitolato Protagora ha come tema centrale quello della virtù, in greco, aretè. In questo dialogo Platone pone un problema importante: si può insegnare la virtù oppure le virtù le possediamo per natura? Virtuose e virtuosi si nasce o si diventa?

     La parola "virtù" la possiamo trovare nelle circostanze più impensate.

     A questo proposito, per concludere leggiamo dieci righe, un frammento, da un romanzo – che incontreremo ancora strada facendo – di una scrittrice che ha ricevuto nel 1926 il premio Nobel per la Letteratura:

LEGERE MULTUM….

Grazia Deledda, Canne al vento (1913)

Con grande meraviglia di Efix donna Ester accondiscese alle proposte del cugino (don Predu). Così il poderetto fu venduto e la cambiale pagata. Ma avvenne una cosa che destò le chiacchiere di tutto il paesetto. Efix, pur continuando a stare al servizio di donna Ester e di donna Noemi, ottenne di coltivare a mezzadria il poderetto; così portava in casa delle sue padrone la porzione di frutti che gli spettava. Infine, dicevano le donne maliziose, da servo era salito al grado di parente, anzi di protettore delle dame Pintor.

Ciò che più sorprendeva era l’accondiscendenza di don Predu; ma da qualche tempo sembrava un altro; s’era persino dimagrito e una voce strana correva, che egli fosse "toccato a libro", vale a dire ammaliato per virtù di una fattucchieria eseguita coi libri santi.

Chi aveva interesse a far questo?

Non si sapeva: queste cose non si sanno mai chiare e precise, e se si sapessero non sarebbero più grandi e misteriose

     Canne al vento è un romanzo di Grazia Deledda, uscito a puntate sulla Illustrazione Italiana, dal 12 gennaio al 27 aprile 1913: quante persone lo hanno letto, in Italia, questo romanzo? Stendiamo un velo pietoso: la pietà è una virtù.

     Nel dialogo intitolato Protagora – di cui ci occuperemo la prossima settimana –Platone pone un problema importante: virtuose e virtuosi si nasce o si diventa? Oltre a questo interrogativo altri interrogativi abbiamo lasciato in sospeso ma il viaggio continua, non mancate…

     La Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 13, 2009