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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È LA DIALETTICA DEI CONTRARI ...

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi          Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele      4-5-6 febbraio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È LA DIALETTICA DEI CONTRARI ...

     Stiamo facendo un viaggio di studio che ha come obiettivo principale quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Abbiamo imparato che questi tre significativi modelli culturali caratterizzano la Storia del Pensiero Umano dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500 e, quindi, l’eredità intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele è parte integrante della nostra identità culturale e la centralità di queste figure la stiamo osservando nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene, dipinta da Raffaello, dal 1508 al 1511, su mandato di papa Giulio II.

     Per questo motivo – e lo sappiamo ormai a memoria – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia moderna che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco (e che dà forma a questo Percorso) e la corsia antica che attraversa il territorio orfico dell’Ellade (che fornisce gran parte del contenuto). Abbiamo quasi terminato di descrivere la prima zona dell’affresco che è formata da alcuni importanti quadri: c’è il quadro del pensiero orfico-dionisiaco con al centro il Libro delle parole degli albori, c’è il quadro del pensiero orfico-pitagorico con al centro il Libro della dottrina di Pitagora. Poi ci sono le immagini di tre figure significative: il seducente giovane vestito di bianco (che rappresenta l’ideale greco della bellezza e della bontà); lo statuario Empedocle nel suo abito giallo, rosso e blu (che sono i colori dell’eruzione dell’Etna e dei fili con cui l’Agrigentino tesse il suo pensiero) che tiene in mano il Libro de Le purificazioni, e il poderoso Eraclito che abbiamo già incontrato la scorsa settimana e che questa sera ci terrà ancora compagnia, il quale è stato rappresentato da Raffaello in modo monumentale, in stile michelangiolesco, mentre sta scrivendo, seduto in atteggiamento pensoso. In questa zona dell’affresco – e lo abbiamo già ricordato più volte – c’è un oggetto che unisce i vari quadri e i vari personaggi: questo oggetto è il Libro e, quindi, la parte da cui si comincia a leggere l’affresco de La Scuola di Atene contiene un’apologia del Libro.

     La figura di Eraclito è stata dipinta da Raffaello alla fine dell’opera, nel 1511, su espressa volontà del papa, quando aveva già completato tutto il lavoro. Questa figura, di forte risalto plastico, non appare nel cartone preparatorio, nel cartone preparatorio questo punto risulta completamente vuoto. Sappiamo che Eraclito viene rappresentato con le sembianze di Michelangelo Buonarroti, ma questa non è la sola allusione e neppure la più importante che emerge da questa figura. In questa zona dell’affresco si fa l’apologia della "scrittura" perché – come abbiamo già studiato la scorsa settimana – molto probabilmente Giulio II vuole che emerga in primo piano, accanto al Libro, l’immagine della penna, impugnata saldamente, dai personaggi-chiave. Giulio II – come sappiamo – vuole che emerga un richiamo preciso alla memoria del primo grande scrivano che ha utilizzato la cultura greca per fondare il Cristianesimo: Paolo di Tarso. La figura di Eraclito – e questo personaggio riproduce proprio Eraclito – deve anche far ricordare lo scrittore dell’Epistolario che sta alla base della dottrina del Cristianesimo.

     Perché Giulio II – sostenuto dai membri del gruppo di studio che lavora alla composizione de La Scuola di Atene – vuole che la figura di Eraclito alluda al personaggio di Paolo di Tarso e alla Lettera agli Efesini? Perché, in questo momento, – come già sappiamo – la filologia umanistica sta ponendo il problema della autenticità della Lettera agli Efesini, e questa questione, secondo il papa, va risolta mettendo in primo piano il tema della Tradizione non come elemento di conservazione ma come componente dinamica che costituisce la struttura portante della Storia della salvezza: la Lettera agli Efesini (e anche le altre Lettere di Paolo di Tarso che risultano non autentiche) è da considerarsi comunque "sacra scrittura" non perché è stata scritta direttamente da Paolo ma perché il suo testo s’incanala nell’alveo della Tradizione dove non è l’autore che racconta lo Spirito ma è lo Spirito (lo "Spirito di Cristo Signore" precisa Paolo) che investe lo scrivano e ne guida la penna.

     Perché – visto che ci sono ben sei Lettere autentiche di Paolo – questa mirabile allusione riguarda proprio la Lettera agli Efesini della quale anche Fedra Inghirami ha confermato la non autenticità? Perché nella Lettera agli Efesini – come abbiamo potuto constatare la scorsa settimana – i concetti, che Giulio II ha espresso, risaltano in modo evidente e questa Lettera è intessuta di affermazioni, di diciture, di citazioni che provengono dalla cultura orfica di Pitagora, di Parmenide, di Empedocle e soprattutto di Eraclito. Quindi è proprio sulla figura di Eraclito che nell’affresco de La Scuola di Atene si può concentrare la mirabile allusione sul valore della Tradizione, frutto dell’opera dello Spirito, rispetto alla storia umana che si presenta spesso come un miscuglio di situazioni dominate dagli egoismi terreni. Prima dell’incarnazione di Gesù Cristo – sostiene Giulio II commentando la Lettera agli Efesini e commissionando La Scuola di Atene – i frutti dell’opera dello Spirito sono in parte già maturati e i semi di questi frutti sono stati tramandati dalla penna di pensatori ispirati come Pitagora, Parmenide, Empedocle, Eraclito.

     La scorsa settimana abbiamo incontrato il personaggio di Eraclito che si presenta avvolto nella leggenda, non abbiamo però avuto il tempo di mettere in luce il suo pensiero. Eraclito di Efeso (e abbiamo anche visitato questa interessante città) ha riflettuto su uno dei temi fondamentali elaborati dalla cultura orfica: il tema de "l’armonia misteriosa dei contrari" ed Eraclito, su questo tema fondamentale, ha costruito la sua dottrina fisica (il Tutto), metafisica (l’Uno) e politica (i Molti). La conoscenza e la comprensione di questo tema è propedeutica per noi che stiamo procedendo sulla via che, un passo dopo l’altro, conduce verso quella parte del territorio dove incontreremo le parole-chiave e le idee-cardine della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Il tema de "l’armonia misteriosa dei contrari" ha influenzato anche, nei secoli, la Storia della Letteratura e di conseguenza la didattica della lettura e della scrittura. La scorsa settimana abbiamo incontrato uno scrittore importante che si chiama Giovanni Verga il quale ha – nei suoi romanzi, nelle sue Novelle, nelle sue composizioni teatrali – fatto sempre emergere il tema de "l’armonia misteriosa dei contrari" e questo perché la sua formazione culturale ha un’impronta classica. Giovanni Verga (non so se vi siete informate e informati meglio su di lui) è nato in una famiglia benestante che gli ha procurato un precettore per farlo studiare e lui (fino al 1858) ha studiato sotto la guida del canonico Mario Torrisi un emerito grecista, un letterato, un umanista, un tipico intellettuale della Magna Grecia, che lo ha sollecitato a leggere i Classici e lo ha spronato a scrivere fin da giovanissimo. Giovanni Verga si è poi iscritto – anche per volontà della famiglia – alla facoltà di Giurisprudenza di Catania ma non si è mai laureato perché la sua vocazione è un’altra: è attratto più dagli studi umanistico-letterari e filosofici, quindi, è evidente che nei suoi testi emergono molti concetti mutuati dalla Storia del Pensiero Umano e dalla cultura orfico-dionisiaca in particolare.

     Otto giorni fa abbiamo letto l’inizio – le prime pagine del primo capitolo – del romanzo intitolato I Malavoglia e, questa sera, ne leggiamo altre due anche per sapere – vi ricordate dove abbiamo interrotto la lettura, su quale fatto? – che cosa scrive ‘Ntoni di padron ‘Ntoni nelle sue lettere alla famiglia da Napoli dove sta facendo (come marinaio) il servizio militare che allora, negli ultimi decenni dell’800, a unificazione avvenuta, durava ben cinque anni.

     Riprendiamo la lettura da dove ci siamo fermate, fermati la scorsa settimana, quando "Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ‘Ntoni":

LEGERE MULTUM….

Giovanni Verga, I Malavoglia (1881)

 Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ‘Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gonnelle di seta, e che sul molo c’era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all’osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. - Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron ‘Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto così; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l’avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale.

La Mangiacarrubbe, quando al lavatoio c’era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire: - Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta ‘Ntoni di padron ‘Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiù! Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d’allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono "cetriolo". ‘Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l’avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell’Ognina, così bello, lisciato e ripulito che non l’avrebbe riconosciuto più la mamma che l’aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore - che gli diceva le avemarie - andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta, e lo teneva inchiodato sul banco dell’osteria, dietro i bicchieri.

Ma dopo un po’ di tempo ‘Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. - Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron ‘Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbj, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che così non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da far ridere il cuore agli altri, lì sulla carta, - e vi appuntava un dito grosso come un regolo da forcola - se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron ‘Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio così, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui: - Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla!

Intanto l’annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti; ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdì come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano più al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca, o qualchedun altro.

Il re faceva così, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane, ma sinché erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassette anni e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. "L’uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia." Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo. Padron ‘Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po’ avariati; ma non ce n’erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapeva pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l’acqua, dov’era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. - Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l’anima ho da darla a Dio! - e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell’Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c’era anche compare Agostino Piedipapera, il quale colle sue barzellette riuscì a farli mettere d’accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi "col violino" a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perché aveva il maledetto vizio di non saper dir di no. - Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le e disse come.

Allorché la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant’onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron ‘Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza, che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perché non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l’orciolino coll’olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta.

Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell’usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! "Quel ch’è di patto non è d’inganno"; che l’anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d’accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sé, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: - Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarì a salma! La finite ora, santo diavolone? - E cominciò a insaccare - In nome di Dio, e uno!

La Provvidenza partì il sabato verso sera, e doveva esser suonata l’avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perché mastro Girino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell’ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all’antenna della Provvidenza. Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un’anitroccola. - "Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura", diceva padron ‘Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi. Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. - Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perché suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l’ultima sua parola che si udì…

     Quest’ultima riga del primo capitolo de I Malavoglia – continuate voi a leggere o a rileggere questo romanzo – rimanda al contrasto tra Eros (l’Amore, l’attrazione) e Thànatos (la Morte, la distruzione). E questa citazione ci rimette in contatto con il pensiero di Eraclito di Efeso.

     Se dal porto dell’antica polis ionica di Efeso, che si trova alla foce del fiume Caistro, si entra nella cerchia delle mura, si può attraversare l’agorà (la piazza centrale) e costeggiare il perimetro ellissoidale del teatro per salire verso il tempio di Artemide che è anche la biblioteca della città. Qui, nel tempio di Artemide, troviamo, in deposito, il poema intitolato Sulla natura, Peri’ Physeos, che Eraclito ha lasciato ai piedi della statua della dea. Il grande vecchio però non c’è, lui non abita più in città.

     Pitagora (che abbiamo incontrato qualche settimana fa sul territorio dell’Ellade e che possiamo vedere nello spazio dell’affresco de La Scuola di Atene con la penna in mano) – a causa della situazione politica creatasi sull’isola natìa di Samo – è partito come esule dalla Ionia verso la Magna Grecia e si è stabilito a Crotone, mentre Eraclito di Efeso non si è mai mosso dalla Ionia ma tuttavia vive come un esule in patria. Questo isolamento, sdegnoso, di Eraclito è diventato, secondo la tradizione mitica (come abbiamo potuto constatare la scorsa settimana), un vero e proprio eremitaggio sulle montagne (sui monti Pion e Coresso) a ridosso della polis di Efeso, sulla quale lui riversa tutta la sua indignazione con lo stesso stile usato dai profeti di Israele.

     Sappiamo che gli Efesini hanno mandato in esilio Ermodoro, che governa la città in modo esemplare e che ha fama di essere l’uomo politico più probo che ci possa essere: tutto dedito alla realizzazione del "bene comune" e assolutamente contrario a tutta una serie di privatizzazioni. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini di Efeso sono impegnati verso l’acquisizione di "beni privati", piuttosto che orientati alla realizzazione del "bene pubblico". Eraclito reagisce con rabbia alla cacciata di Ermodoro che giudica come «il migliore di tutti noi perché dedito al bene di tutti noi». Questo atteggiamento di Eraclito – visto che la cacciata di Ermodoro avviene con regolari votazioni – è stato spesso visto e giudicato come il comportamento di un vecchio reazionario e conservatore, un po’ bilioso, collerico, iracondo che non è in grado di vivere nel consesso civile. Attenzione: il comportamento di Eraclito nasce da una riflessione molto ponderata che noi – cittadine e cittadini italiani – oggi possiamo capire bene, nella situazione in cui ci troviamo. È vero che alla democrazia ci si deve inchinare perché consente di cambiare i governi pacificamente secondo gli orientamenti prevalenti nell’opinione pubblica. E di questo fatto è convinto anche Eraclito ma quello che non lo convince e su cui dissente è che il suffragio dà il consenso ma non dà la legittimazione a governare, perché la legittimazione a governare ha le sue radici nella morale, nella coerenza con la morale pubblica, che è l’elemento che dà valore sostanziale alla democrazia. Certamente, gli orientamenti politici e le scelte elettorali – pensa Eraclito – sono prodotti soggettivi, dipendono dalla quantità e dalla qualità degli strumenti di cui si è dotati per guardare, per analizzare e per valutare la realtà, e questi strumenti, a loro volta, derivano da ciò che sinteticamente possiamo chiamare la maturità morale e civile di un popolo.

     A noi – che bazzichiamo per i Percorsi della Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura – viene anche in mente quando nel 1843 Vincenzo Gioberti ha pubblicato il suo celebre saggio intitolato Del primato morale e civile degli Italiani. Oggi, a considerare lo stato delle cose, – anche sulla scia del pensiero teorico e delle scelte pratiche di Eraclito – forse Gioberti, seppur a malincuore, scriverebbe un saggio intitolato Dell’immaturità morale e civile degli italiani e probabilmente scriverebbe che, prima di tutto, questa immaturità morale e civile dipende dal bassissimo tasso di alfabetizzazione funzionale e culturale della popolazione e poi dalla non esistenza di una piazza pubblica (un’agorà) formata da cittadine e cittadini che pensano davvero al bene comune, stimolati da una libera informazione autonoma dal potere. Si sa che, a dire ciò, si passa – a Eraclito è toccato – per disfattisti, pessimisti e spargitori di pubblici veleni, ma bisogna badare alla sostanza dei fatti. Come a Efeso 2500 anni fa – secondo la denuncia di Eraclito – anche da noi si è diffuso, in tanta parte del Paese, un atteggiamento di disprezzo per lo spirito di legalità e si è diffusa una concezione prevaricante del potere. L’humus in cui questo atteggiamento rafforza le sue radici è – sostiene Eraclito – un deterioramento dello spirito pubblico che semina potenti germi di inquinamento nell’economia e nel tessuto sociale della polis, diffonde la corruzione amministrativa, l’intolleranza razzistica e religiosa, e deposita nella mentalità collettiva non solo la compiacenza ma persino l’ammirazione per chi sa fare bene i propri affari aggirando quel che conviene aggirare. La liquidazione di Ermodoro a Efeso è radicata in questo humus.

     Ed Eraclito, quindi, riflette e scrive su una situazione politica e sociale molto concreta e quando leggiamo in uno dei Frammenti della sua opera che i cittadini di Efeso «Farebbero bene a impiccarsi tutti uno per uno e a lasciare la città nelle mani dei bambini» non ci troviamo semplicemente di fronte a una invettiva di un nevrastenico ma vi ravvisiamo una denuncia nei confronti di un malcostume diffuso. Infatti il potere della nuova classe (quella degli affaristi – pragmatoi, così sono stati chiamati –, che cominciano a dominare nella polis), non dipende dalle virtù di cui questa classe è in possesso (perché disprezza le virtù in quanto non danno reddito), ma il potere di questa nuova classe dipende dal suo denaro, ed Eraclito, a questo proposito, scrive: «Possa la ricchezza non mancarvi mai, o Efesii, perché, senza l’esposizione dei vostri beni materiali, credete forse di valere qualcosa?».

     Eraclito, sconfitto, guarda con preoccupazione e con disprezzo alla nascita della categoria sociale della massa. La nuova classe al potere (gli affaristi) sussidia gli appartenenti ai ceti più poveri per renderli succubi e strumentalizzabili, e quindi meno competitivi e più portati ad ubbidire, ad essere docili. Scrive Eraclito: «La folla è diventata maestra, non sanno che i molti non contano niente, è l’individuo che vale». L’indignazione di Eraclito si trasforma in una contestazione globale e investe tutte le istituzioni: politiche, sociali, religiose, culturali. Critica aspramente i culti religiosi divenuti volgari, detesta l’antico padre Omero responsabile di aver sottovalutato il ruolo della contesa, osteggia le idee dei fisici ionici di Mileto e deride l’esiliato Pitagora chiamandolo «capo di ingannatori», che ha, sì, studiato e investigato, ma ricavandone soltanto la conoscenza di molte cose, un sapere enciclopedico e, per Eraclito: «Il saper molto, parente della furbizia, cattiva arte, lontano dall’intelligenza» come dire "è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena" come scrive Montaigne nei suoi Saggi (1588).

     Sappiamo che lo stile di Eraclito come scrittore ha fatto sì che, già dall’antichità, gli fosse attribuito il soprannome di oscuro (ò skoteinòs) ed Eraclito vuole risultare "oscuro" perché vuole costringere alla riflessione: disprezza la furbizia dei più che è sinonimo di superficialità.

     Detesta i furbi che «credono di essere svegli ma in realtà sono nel sonno»: i quali «non capiscono anche se ascoltano», e sono «simili ai sordi».

     Eraclito fa riferimento a due elementi: la natura (physis), che «ama nascondersi» e la sapienza poetica orfica che si manifesta ad opera delle poetesse e dei poeti con un linguaggio oracolare, con uno stile profetico. Non a caso la figura di Eraclito che dipinge Raffaello ne La Scuola di Atene è sorella della figura del profeta Isaia che dipinge Michelangelo nella Cappella Sistina.

     Scrive Eraclito: «L’oracolo non dice, né nasconde, ma accenna soltanto». E qui ci viene in mente ancora una volta Erodoto (nostro compagno di viaggio nell’anno 2006) che, da ragazzo, quando vive ancora ad Alicarnasso, ha studiato in una Scuola eraclitea dove, probabilmente, ha imparato il concetto dell’allusione. Noi sappiamo che la figura di Eraclito dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene è fortemente allusiva (c’è Michelangelo, c’è Paolo di Tarso, c’è la Lettera agli Efesini, c’è il concetto della Tradizione e l’idea dello Spirito che la vivifica) e abbiamo studiato, a suo tempo, che l’allusione è un concetto che presuppone sempre una riflessione e una precisazione (l’allusione è un accenno che deve essere chiarificato mettendo in atto un ragionamento); quindi il linguaggio oracolare, lo stile profetico di Eraclito, non esprime solo uno sdegno, una contestazione totale contro il sistema e le sue forme, ma a rendere così determinato Eraclito è, prima di tutto, la sua forte volontà a non appiattirsi sul presente; e poi è la consapevolezza di aver messo a fuoco un’idea, un concetto che lui vuole far conoscere e far capire a quelli che hanno orecchi per intendere, i quali oggi, qui a Efeso – pensa Eraclito – sono pochi, ma in futuro saranno certamente di più. Per questo il profeta randagio depone il rotolo di papiro che contiene il suo poema, intitolato Sulla natura, nel tempio di Artemide, nella biblioteca della città, come eredità culturale feconda e come memoria intellettuale produttiva per i secoli venturi.

     Il pensiero di Eraclito emerge da una serie di affermazioni significative che ci sono rimaste sotto forma di frammenti. Intorno a queste affermazioni si è sviluppato, nei secoli, un importante dibattito intellettuale. Eraclito afferma che: «Tutto diviene e nulla è». La vita, la realtà si traduce in un continuo divenire, e «questo divenire – scrive Eraclito – si basa sulla guerra». Con il termine "guerra" noi traduciamo letteralmente una parola-chiave che, nella lingua ionica di Erodoto, presenta un ventaglio di significati: questa parola è pólemos, termine che indirizza la nostra mente verso tutta una serie di significati che riguardano la parola "polemica". La polemica non è solo una controversia, una guerra: dobbiamo riflettere su questa parola anche in termini positivi. Pólemos, la polemica, è anche (soprattutto dal punto di vista culturale) una "discussione molto partecipata", è anche una "critica costruttiva", è anche una "sfida stimolante".

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale è stata l’ultima polemica – nel senso di discussione molto partecipata, costruttiva e stimolante – alla quale hai partecipato?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     La parola pólemos risulta una metafora che – alla luce del pensiero di Eraclito – possiamo tradurre con l’espressione: "successione dei contrari" perché questo termine esprime il suo pieno significato quando dal confronto partecipato, critico e stimolante su idee, convinzioni, modi di pensare diversi nasce qualcosa di nuovo che sfugge alle/ai contendenti e procede intellettualmente per conto proprio. Dalle grandi polemiche culturali – penso alla polemica tra Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti sulla superiorità della pittura o della scultura, o alla polemica tra Pico della Mirandola ed Ermolao Barbaro sulla superiorità della filosofia o dell’eloquenza) – sono nate idee nuove che non erano propriamente quelle delle/dei polemizzanti e che hanno cominciato a camminare sulle proprie gambe andando ben oltre il pensiero dei protagonisti della polemica dando linfa vitale alla "successione dei contrari": al meccanismo generatore di tutte le cose.

     Con Eraclito di Efeso il tema dell’armonia dei contrari cessa di essere misterioso: l’armonica successione dei contrari diventa evidente, palese, manifesta. In realtà tutte le cose sono generate dal contrasto, dalla tensione tra la posizione precedente e quella seguente: siamo alle origini della formulazione della cosiddetta "dialettica" e il nostro pensiero va, per un attimo, al giovane Hegel che abbiamo incontrato nella primavera dell’anno 1801 e molte e molti di voi c’erano a quell’incontro. Il simbolo del divenire – per Eraclito – è il "fuoco" e, se si pensa al fuoco, si pensa davvero ad una cosa che non sta mai ferma, in continuo divenire.

     Ma quando Eraclito nomina il fuoco tira in ballo un concetto complesso – e anche contraddittorio – su cui è necessario riflettere. Sull’idea collegata alla parola-chiave "fuoco" – in greco piros – il testo dei Frammenti di Eraclito dà addito a due possibili interpretazioni diverse. Per Eraclito, in primo luogo, il fuoco è l’arché, è il principio dell’Universo che con la sua mobilità dà origine all’insieme di tutte le cose. Ma il Fuoco, per Eraclito, sembra rappresentare anche l’idea dello Spirito, il Pneuma. Attenzione perché, a questo punto, bisogna aggiungere un elemento allusivo in più nella figura di Eraclito dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene: naturalmente si allude anche allo Spirito che illumina, che vivifica chi scrive. Al Fuoco o allo Spirito Eraclito dà il nome di Logos che potrebbe essere inteso tanto come la Mente suprema (un concetto di carattere divino), quanto la Legge razionale che regola i rapporti tra gli uomini (un concetto laico).

     L’intuizione significativa di Eraclito consiste nell’aver messo in evidenza che la molteplicità delle cose trova la sua unità nella ragione umana, nel Logos, che tutto governa e tutto risolve in sé. Il Cosmo (l’immagine che abbiamo dell’Universo) – secondo Eraclito – non sembra essere il frutto del pensiero armonico (Logos) di una Mente divina ma piuttosto sembra essere il risultato di un ragionamento (Logos) della mente umana. Con Eraclito la cultura orfica comincia ad ammantarsi di razionalità. La tradizione orfica sull’anima – considerata come una scintilla divina che tende a ricongiungersi alla sua sorgente eterna, all’Essere, collocato in una dimensione ultraterrena – con il pensiero di Eraclito, comincia a modificarsi: l’anima è la parte spirituale della persona che trova la sua unità con il corpo nella ragione umana, nel Logos.

     Eraclito apre la via al superamento delle tradizioni religiose e filosofiche precedenti. In Pitagora, come abbiamo visto, la ragione matematica è ancora assoggettata ad una preoccupazione sostanzialmente religiosa, che finisce per tendere non a curare l’anima ma piuttosto a liberarla dal ciclo delle rinascite. Con Eraclito la problematica religiosa comincia a trovare spazio nel pensiero filosofico che, in modo laico, cerca di diventare consapevole delle proprie leggi e del proprio cammino. «Ho indagato me stesso» scrive Eraclito in un suo frammento. Ma questa indagine non è né psicologica, come la intende il pensiero moderno, né ascetica, alla maniera del pensiero indiano, ma è razionale, è logica, è dialettica, è sistematica: per Eraclito indagare significa studiare e studiare significa prendersi cura del proprio intelletto.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

E tu, hai indagato: pensi che la tua logica destinazione sia il Cielo (la vita eterna) oppure la Terra (il nulla eterno)?Basta una riga per rispondere ma siamo qui (a Efeso) anche per indagare e l’indagine stimola lo studio e studiare significa investire in intelligenza: la meta si costruisce camminando

     Eraclito tuttavia continua ad essere figlio del suo tempo: il tempo della sapienza poetica orfica, e difatti, nella sua opera Sulla natura, potremmo (le studiose e gli studiosi usano il condizionale) – attraverso il testo dei Frammenti che ci sono rimasti – potremmo rinvenire il concetto orfico dell’anima come principio divino, come scintilla dell’Essere in balia dell’esistere. Eraclito è capace di arricchire il concetto orfico dell’anima e di presentarla come un’entità che investe sia l’intimo della persona, sia la legge dell’universo, sia la Divinità. I tre anelli – antropologico (la persona), cosmologico (il mondo), teologico (la Divinità) – hanno un solo e medesimo centro: il Logos, il Fuoco o lo Spirito. Leggiamo il testo di due frammenti in cui possiamo constatare come Eraclito persegua lo stesso obiettivo ultraterreno perseguito dalla dottrina orfica: «Se non spera l’insperabile non lo troverà, perché è introvabile e inaccessibile», e ancora: «Attendono le persone, da morte, cose che non sperano né immaginano».

     Però, complessivamente, secondo Eraclito, non ci si avvicina alla conoscenza e alla comprensione con l’ascesi mistica, ma bensì con l’indagine razionale. Leggiamo ancora un frammento: «Per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profonda la sua vera essenza». Le vie dell’anima – intuisce Eraclito – sono le stesse vie della razionalità che non ha nessun confine e quindi il Logos potrebbe identificarsi tanto con lo Spirito, quanto con la Mente superiore.

     Ma la Ragione universale, il Logos – secondo il termine che usa Eraclito – non è trascendente e, al contrario, s’identifica con la Legge a cui sono sottoposte le cose che si succedono nel tempo, come il giorno e la notte, come la vita e la morte, e a cui sono sottoposte le cose che contrastano tra loro, come il caldo e il freddo, come il bene e il male.

     Il Logos, la Ragione universale, è soggetta ad una legge, alla legge più importante di tutte le leggi, alla legge che fa esistere il mondo e il Tutto: la legge de l’armonia degli opposti. Eraclito – nel movimento della cultura orfica (rispetto ai pensatori di Mileto e a Pitagora) – capovolge le cose: ci si avvicina all’Essere non operando per eliminare gli opposti ma mettendoli in evidenza. Il Logos, la Ragione universale, non è nell’annullamento dei contrari ma nel loro rapporto reciproco, per cui l’uno passa nell’altro e l’uno non è comprensibile se non in rapporto all’altro. Nella coppia «luce-tenebre», la luce non può essere compresa se non è posta in rapporto con la sua negazione, la tenebra (la luce è la non-tenebra), e viceversa, la tenebra non ha razionalmente senso se non è posta in rapporto con la sua negazione (la tenebra è la non-luce). L’infinito e il finito non si escludono: l’infinito non è che l’interminabile movimento con cui la ragione trasforma nel suo contrario ogni cosa finita: la vita in morte la morte in vita, la veglia in sonno e il sonno in veglia, e così via all’infinito, appunto.

     Eraclito si distingue dai suoi predecessori ionici perché il divenire del mondo non ha per lui un senso lineare, che parte da un principio, da un elemento semplice originario, per svilupparsi negli stati compositi successivi. Certo, abbiamo constatato che anche lui parla di un elemento primordiale, il fuoco – teniamo conto che, al tempo di Eraclito, non è stata raggiunta ancora una chiara distinzione tra ciò che è corporeo e ciò che è spirituale – ma il fuoco è stato scelto da Eraclito perché, fra gli elementi, è quello che è sempre se stesso pur non rimanendo mai se stesso. La fiamma è, ma è perché cessa continuamente di essere quella che è, così come il fiume è quello che è, proprio perché – siccome le sue acque scorrono di continuo – non è mai lo stesso.

     Tra le studiose e gli studiosi di Eraclito ci sono due linee di pensiero: non c’è concordia sulla questione della natura che ha il fuoco. Il fuoco di Eraclito è da intendere come una sostanza (il fuoco che brucia e che scalda e che fa luce), oppure va inteso come un simbolo del sapere, come una metafora della conoscenza, come un’allegoria della comprensione? Ormai – da secoli – è superata l’interpretazione che faceva di Eraclito l’ultimo della serie dei pensatori fisici ionici e, leggendo i Frammenti di Eraclito, si capisce che il fuoco, per lui, non è la sostanza fisica, ma è la figura della dinamica razionale che, da sempre e per sempre, compenetra e muove le molteplicità del Cosmo. E così – tra le studiose e gli studiosi – non c’è concordia sulla questione se il fuoco, inteso come Logos, sia una realtà spirituale dotata di coscienza di sé, alla maniera di una entità divina, oppure se il Logos sia una razionalità impersonale. Certo è che Eraclito sottolinea la differenza tra la razionalità "sublime" del Logos (scritto con la maiuscola come se fosse Dio) che vede le cose in modo assoluto e la razionalità dell’essere umano che si dibatte nelle cose relative. Leggiamo un altro frammento: «Per il Logos tutto è bello, buono e giusto, gli esseri umani invece ritengono giusta una cosa, ingiusta l’altra». Le cose per gli esseri umani – secondo il testo di questo frammento – sono tra loro opposte, invece nel Logos (nella Mente suprema) sono identiche per una capacità assoluta che solo il Logos (la Mente suprema) possiede, e che non è concessa agli esseri umani ai quali è dato di percepire solo il molteplice.

     Leggiamo un altro frammento: «Il Logos è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. E muta come il fuoco, quando si mischia ai fumi odorosi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi». Se il Logos (la Mente suprema) è il fuoco e le cose sono i profumi che dal fuoco scaturiscono ci troviamo allora dinanzi – sostengono le studiose e gli studiosi – ad una forma di panteismo, cioè alla identità sostanziale tra una Divinità (una Mente suprema) e le cose. Ma forse le studiose e gli studiosi stanno chiedendo troppo ai Frammenti di Eraclito, stanno pretendendo troppo da un pensatore che è stato soprannominato ò skoteinòs, l’oscuro ma in possesso di una creatività lampante. Forse non è neppure logico (a proposito di Logos) mettere Eraclito di fronte a questi temi così arditamente metafisici e che avranno – anche per merito suo – un significativo sviluppo successivo.

     Per noi – che stiamo attraversando lo spazio dell’affresco de La Scuola di Atene in funzione della didattica della lettura e della scrittura – il pensiero di Eraclito è significativo nel suo concetto fondamentale: l’armonia dei contrari cessa di essere misteriosa (come lo è per i pensatori di Mileto e per Pitagora), ma si palesa, si manifesta, si esplicita, è evidente razionalmente. L’unità assicurata dalla ragione (dal Logos) è, secondo Eraclito di Efeso, un’unità di opposti che restano tali anche quando su di essi trionfa l’armonia della legge. Leggiamo un altro frammento: «Si deve sapere che la guerra [pólemos] è comune e che la giustizia è contesa e che tutto avviene secondo contesa e necessità». Prendersela con le contese, con le polemiche, è da gente presa dal sonno: chi è sveglio – ci ricorda Eraclito – sa che, «il guerreggiare [il polemizzare] è padre di tutte le cose». Questa intuizione – che probabilmente piace anche a Giulio II che non cessa mai di polemizzare (di guerreggiare) – è stata di eccezionale portata nella Storia del Pensiero Umano. Il giovane Hegel (che abbiamo incontrato nella primavera del 1801), il pensatore moderno che più ha influenzato la cultura e la politica, si considera, proprio a causa della dottrina degli opposti, un discepolo di Eraclito.

     Un discepolo della Scuola di Eraclito è stato anche Erodoto che, alcuni anni fa, è stato nostro fedele compagno di viaggio. Negli anni in cui a Efeso muore Eraclito (intorno al 483 a.C.) un poco più a sud, nella polis di Alicarnasso, nasce Erodoto (intorno al 484 a.C.) e, quando Erodoto frequenta le elementari, le Scuole di Eraclito sono diffuse su tutta la costa ionica. Le Scuole di Eraclito si caratterizzano per la loro impostazione razionalista (al centro del Tutto c’è il Logos, e l’elemento unificante della realtà è la Ragione) e anche Erodoto, lo sappiamo, appartiene alla categoria dei pensatori razionalisti. Lo scetticismo di Erodoto nei confronti degli dèi deve derivare proprio dal pensiero di Eraclito, il quale prova per chi crede nell’esistenza di Zeus, e di tutta la combriccola dell’Olimpo, un disprezzo, a dir poco, feroce. «Il mondo – scrive esplicitamente Eraclito – non è stato fatto da nessuno degli Dei». Eraclito critica apertamente quelli che si dedicano ai culti religiosi con atteggiamento superstizioso. Leggiamo quello che scrive nel frammento successivo: «Rivolgere preghiere alle statue degli dèi è come cercare di discutere con le case invece che con gli abitanti di esse, se, per purificarsi dei peccati commessi sacrificano animali nei templi, essi si purificano del sangue versato macchiandosi di altro sangue, come se, sporchi di fango, volessero lavarsi ancora col fango». Tre anni fa abbiamo studiato che anche Erodoto allude alla non esistenza degli dèi e ironizza sul commercio religioso che viene svolto presso i Santuari di tutti i paesi che visita, nell’Ellade, in Egitto, in Mesopotamia, nella Magna Grecia.

     Eraclito contesta l’idea che il mondo, l’Universo, sia animato da una divina armonia e che questa armonia si diffonda nella vita delle persone. Leggiamo quello che scrive nei due frammenti successivi, collegati insieme: «Il più bello dei mondi è un mucchio di rifiuti gettati giù dal caso. La vita è una bambina che gioca e sposta a caso i pezzi sulla scacchiera». Anche Erodoto allude spesso al fatto che la creazione si caratterizza per un certo disordine, piuttosto che per l’armonia: la Natura si presenta come la sede di fenomeni meravigliosi perché contemporaneamente sono, quasi sempre, anche mostruosi, e così – allude Erodoto, parafrasando Eraclito – gli avvenimenti umani oscillano sempre tra la benevolenza e l’atrocità.

     L’idea che sembra avvicinare di più il pensiero di Erodoto a quello di Eraclito è il concetto dell’incessante fluire e trasformarsi delle cose. Abbiamo detto che la realtà, secondo Eraclito, è un continuo divenire, e anche per Erodoto (e tanti esempi abbiamo letto, a suo tempo, sul testo de Le Storie) non esiste oggetto, animato o inanimato, che non subisca continuamente delle modifiche. Anche le cose materiali che, a prima vista, possono sembrare immobili, a una più attenta analisi mostrano delle alterazioni: i grandi templi – scrive Erodoto – sono sempre in restauro, e anche gli scogli e le montagne si corrodono, così come un albero cresce e un corpo invecchia. A questo proposito bisogna leggere il frammento più famoso di Eraclito che contiene una celebre affermazione: «Panta rei, tutto scorre. Non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume».

     Un altro concetto che avvicina Erodoto a Eraclito è l’idea del mondo come terreno di scontro. Sappiamo che l’intuizione più originale di Eraclito sta nell’aver descritto il mondo come un immenso campo di battaglia dove si affrontano forze più o meno equivalenti (c’è già qualcosa di darwiniano in questa idea). Lo scontro non rappresenta l’eccezione ma è la norma di vita: la lotta s’identifica con la vita stessa e gli esseri umani devono accettarla come una forma di giustizia naturale. «La più bella delle trame viene formata dagli opposti, e tutte le cose sorgono secondo contesa» e «La guerra [pólemos] è il padre di tutte le cose»: questi due frammenti li abbiamo già citati, ma dobbiamo sottolineare che in greco il sostantivo pólemos è maschile e, quindi, la guerra è un padre, e questa logica lessicale di genere è più appropriata visto che la guerra è un fenomeno maschilista.

     Eraclito si scaglia contro l’opera di Omero definendola immorale perché in un verso dell’Iliade si legge: «Che possa morire la Discordia tra gli uomini e gli dèi». Che cosa sarebbe il mondo, si chiede Eraclito, se non ci fosse lo scontro, pólemos? Sarebbe un orrendo e solitario luogo di morte. Leggiamo il frammento successivo: «Non è forse la malattia che rende buona la salute? Non è forse la fame che gratifica la sazietà e non è forse il travaglio che rende così dolce il riposo? ».

     E adesso leggiamo il frammento successivo il quale risulta essere uno dei più significativi di Eraclito ma anche uno dei più difficili da capire: «Davvero dell’arco (bios) il nome è vita (bios) e l’opera è morte davvero». Qui è necessaria una riflessione filologica, un ragionamento sul significato delle parole: in greco la parola arco e la parola vita corrispondono entrambe al termine bios e la coincidenza non è casuale, perché l’arco (bios), quando è teso, nonostante la sua apparente staticità, simboleggia la vita (bios), cioè la contesa tra il legno che s’inarca e la corda che lo sottende, mentre invece la funzione a cui l’arco è destinato genera la morte. Per Eraclito nel Cosmo non c’è armonia ma c’è conflitto (questa idea ricorda anche il pensiero di Zaratustra), tuttavia – secondo Eraclito – il conflitto cosmico, apparentemente così caotico, rivela una razionalità, c’è una dialettica, c’è una logica.

     Il termine Logos – come lo ha codificato Eraclito – ha assunto diversi significati: la Verità, la Ragione, la Realtà, la Divinità, il Verbo (la Parola) e questo termine ci ricorda il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni – che inizia con la famosa frase: "En arché en a Logos, In principio c’è il Logos (la Parola)" – che è stato scritto a Efeso tra il I e il II secolo (e questo fatto non è casuale). Leggendo i suoi Frammenti si può anche pensare che Eraclito concepisca il Logos come una Legge naturale (simile al concetto del Tao nel pensiero cinese), che regola la lotta fra gli elementi, senza però attribuire alla parola alcun significato metafisico. Più tardi saranno gli Stoici (ma lo studieremo a suo tempo) che daranno al pensiero di Eraclito una coloritura religiosa, e il Logos comincerà a rappresentare la volontà (la parola, il pensiero) del Creatore, concetto che poi – abbiamo appena citato il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni – diventa patrimonio del Cristianesimo.

     Eraclito – lo sappiamo – vorrebbe che le scrittrici e gli scrittori si esprimessero secondo lo stile oracolare, alla maniera della sapienza poetica orfica: l’oracolo non dice, non tace ma accenna soltanto, allude, e l’allusione deve far riflettere e deve portare alla precisazione. Eraclito di Efeso però, a proposito del linguaggio allusivo, predica bene ma razzola male: quando scrive (sarà anche difficile capire il senso di quello che dice) le sue metafore allusive non lasciano spazio alla riflessione, sono lampanti. Altro che accenni: Eraclito – lo abbiamo constatato nei Frammenti che abbiamo letto – usa un linguaggio metaforico diretto, esplicito, senza mezzi termini, senza peli sulla lingua: Eraclito, con le sue parole, colpisce senza remore e senza nessun preambolo personaggi e istituzioni, a viso aperto.

     Dobbiamo dire che, per sua fortuna, ha fatto le sue affermazioni a Efeso dove i cittadini (soprattutto i potenti affaristi) se ne fanno un baffo delle "sparate" di questo vecchio arteriosclerotico che vaga per i monti, vivendo come le bestie: i mezzi di informazione ufficiali ce l’hanno loro in mano! Se le cose che ha detto le avesse predicate ad Atene – dove la blasfemìa era considerata un reato molto grave (c’era una legge molto severa che la colpiva) – un processo per empietà non gliel’avrebbe tolto nessuno. Difatti, una sessantina d’anni più tardi, ad Atene, un certo Socrate sarà condannato a bere la cicuta per aver detto molto meno. Sarà questo il motivo per cui Erodoto, ne Le Storie, non cita mai Eraclito sebbene potrebbe raccontare molte cose di lui? Erodoto, probabilmente, – come in altri casi – non vuole esporsi (è prudente) e vuole avere buoni rapporti con Atene dove ha molti amici, anche potenti. Qui si vede la differenza: Eraclito di Efeso è un imprudente ribelle, Erodoto – che appartiene alla generazione successiva – usa la cautela e sta bene attento a ciò che dice e a ciò che scrive. Quel Socrate – che abbiamo appena citato – per avere il privilegio di poter bere la cicuta (così la pensa) fa tesoro tanto dell’imprudenza ribelle di Eraclito quanto della cauta diplomazia di Erodoto : ma questa è un’altra storia che studieremo strada facendo.

     Tre anni fa, quando abbiamo incontrato Eraclito in compagnia di Erodoto, ci siamo imbattuti anche in uno scrittore davvero singolare che questa sera compare ancora tra noi perché – come abbiamo detto allora – l’interesse che suscita non si è esaurito in quell’incontro. Nel 2006 l’incontro con questo scrittore è stato soprattutto di carattere commemorativo: abbiamo ricordato i cinquant’anni dalla sua scomparsa. Il personaggio di cui stiamo parlando si chiama Robert Walser e lo abbiamo incontrato – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – per presentare un libretto, che era stato appena pubblicato in Italia, intitolato Il passeggiatore solitario, scritto nel 1998 dal professor W.G. Sebald (1944-2001). Il libretto intitolato Il passeggiatore solitario ha un sottotitolo: In ricordo di Robert Walser e il professor Sebald – che è stato un insigne germanista – vuole ribadire, con questo testo, l’importanza di Robert Walser nella Storia della Letteratura.

     E chi è Robert Walser? Robert Walser occupa, nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano, un posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil, a Canetti, a Benjamin. Ma non solo: Franz Kafka, Robert Musil, Elias Canetti, Walter Benjamin considerano Robert Walser il loro autore preferito, e allora perché questo scrittore risulta essere – ancora oggi – un illustre sconosciuto sebbene sia raccomandato da queste autorevoli persone? La Scuola ha il dovere di indirizzare le studentesse e gli studenti sul sentiero della ricerca.

     Robert Walser è uno scrittore svizzero di lingua tedesca, nato nel 1878 a Berna, dove frequenta un istituto commerciale e, dopo aver ottenuto il diploma, lavora come commesso in diversi negozi. Dal 1905 al 1913 vive a Berlino col fratello Karl che fa il pittore ed entra in contatto con i vivaci ambienti letterari della città e comincia a scrivere: la scrittura è un’attività che a lui riesce con grande facilità e Robert Walser scrive, in breve tempo, tre importanti romanzi I fratelli Tanner (1906), L’assistente (1907), Jakob von Gunten (1908): di questi testi – che sono stati recentemente (dagli anni ’70) pubblicati in Italia – la Scuola ha consigliato la lettura ma è bene riformulare l’invito anche perché dei romanzi di Walser non ci siamo occupati ancora in modo specifico. Nel 1913 Robert Walser torna in Svizzera e si stabilisce nello Seeland, la regione dei laghi, e scrive molte prose brevi: sono racconti lirici, sono frammenti di grande finezza stilistica, raccolti in vari volumi. Il più significativo di questi volumi è intitolato La passeggiata (1919): allora nel 2006, ci siamo dedicati a presentare e a leggere un brano tratto proprio da questo racconto esemplare. Dopo l’ultima raccolta, intitolata La rosa (1925), nel gennaio del 1929 Robert Walser viene ricoverato, a causa di un evidente stato di depressione, nella clinica Waldau di Berna e, quattro anni dopo, viene trasferito a Herisau nella regione alpina dell’Appensell in una casa di cura per malattie mentali e lì (novello Eraclito) è rimasto per il resto della sua vita. Robert Walser – in modo anonimo – muore il giorno di Natale del 1956 durante una solitaria passeggiata sul sentiero che conduce verso il massiccio del Rosemberg.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante geografico e con una guida della Svizzera o utilizzando la rete, fai una visita ai luoghi di Robert Walser, sono le località di un territorio che dovrebbe diventare un "parco letterario": progettalo tu, buon viaggio…

     Nel primo pomeriggio del giorno di Natale del 1956 due ragazzi di una fattoria che si trova sull’itinerario che conduce verso il massiccio del Rosemberg – usciti a fare due passi dopo l’abbondante pranzo natalizio – scorgono nella neve una macchia scura che sembra un mucchio di stracci: è il corpo di un uomo anziano con sul volto – così hanno raccontato quei due ragazzi – un’espressione tranquilla, quasi sorridente come se la morte lo avesse appena sfiorato e lo avesse convinto, con dolcezza, a seguirla. Si viene a sapere – dopo che le autorità sono state avvertite e hanno fatto le loro indagini – che il corpo senza vita di quest’uomo anziano di 78 anni è quello di un degente della casa di cura per malattie mentali di Herisau, a qualche chilometro da lì, che, dal mattino, è uscito per camminare come fa, da anni, tutti i giorni. Ma perché Robert Walser è stato in manicomio tutti questi anni? Era pazzo? Robert Walser non era un pazzo: sua madre aveva avuto dei gravi problemi psichici e lui, da bambino, era rimasto molto turbato da questo fatto e aveva interiorizzato la malattia della madre temendo che lo stesso destino potesse capitare anche a lui. Robert Walser stava pronto ed era convinto che le cose più affidabili nella vita fossero la modestia, l’umiltà e l’ubbidienza e quindi aveva scelto di vivere in una struttura sanitaria dove poteva sentirsi anonimo e poteva essere dimenticato.

     La scomparsa di Robert Walser non fa notizia: se ne accorge solo il suo unico amico, l’unica persona che si sta occupando di lui, Carl Seelig. Carl Seelig è il critico letterario che ha seguito la pubblicazione delle opere di Robert Walser, è l’unica persona con cui lo scrittore riesce a comunicare e con cui è diventato amico: anche perché, soprattutto, è da più di vent’anni il suo puntuale compagno di escursioni fuori dalla casa di cura. Il giorno di Natale del 1956 Carl Seelig era a celebrare la festività con la sua famiglia e Robert Walser era uscito (come faceva tutti i giorni) a camminare da solo. Robert Walser e Carl Seelig sono stati due instancabili camminatori: Robert Walser faceva anche 80 chilometri in dieci ore e si spostava regolarmente a piedi.

     Di queste camminate Carl Seelig – per fortuna – ha tenuto un diario che ora è stato pubblicato con il titolo di Passeggiate con Robert Walzer. Questo diario minuzioso è diventato un vero e proprio romanzo con belle pagine descrittive, ricche di paesaggi alpini e con molti spunti poetici legati ad acquazzoni improvvisi, a crostate di formaggio, a lunghe discussioni su temi esistenziali e ad altrettanto lunghi silenzi meditativi. Camminando tutte le domeniche, con passo svelto, per ore, i due compagni di escursione si sentono soddisfatti di mettere in comune la fatica (il collante più forte per tenere unita un’amicizia…) ed è in questi momenti che Robert Walser cessa di essere schivo e chiuso in se stesso e si lascia sfuggire (proprio come quando scrive) intime confessioni, opinioni su tutto: la guerra, la natura, il suo passato, gli autori prediletti e quelli detestati; poi racconta gustosi episodi della sua vita nella clinica (dà una mano in cucina a pulire la verdura, a selezionare gli scarti) e inoltre, sempre camminando, riflette principalmente su due temi, la vecchiaia e la gentilezza, che gli stanno particolarmente a cuore. Carl Seelig, al ritorno, annota tutto sul suo diario per il gusto di rievocare quei momenti faticosi ma ricchi di una piacevolezza unica.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è una persona con la quale hai camminato, e cammini, volentieri ?

Scrivi quattro righe (Passeggiate con…) in proposito… 

     Robert Walser insegna a Carl Seelig – e lo insegna anche a noi – che bisogna scrivere senza alcuna finalità pratica come se la scrittura fosse una realtà festiva: un momento di vacanza, la domenica della vita. Robert Walzer, infatti, ha sempre scritto (almeno quattro righe al giorno) con la certezza di non dover dire niente, né di conturbante, né di misterioso e difatti riesce a rendere epica la normalità.

     Questa sera leggiamo due pagine dal romanzo L’assistente pubblicato a Berlino nel 1907. La storia, di carattere autobiografico, narra un episodio della giovinezza di Walser, che ha lavorato davvero come scrivano e aiutante presso un ingegnere meccanico ricco di fantasia, ma incapace negli affari. Il racconto però non è condotto in prima persona, anzi è notevole il distacco con cui lo scrittore osserva la figura del protagonista Joseph Marti, un giovane sensibile e timido, incline alle fantasticherie. Marti viene assunto dall’ingegner Tobler, inventore di un orologio pubblicitario, di una cartucciera automatica, di un seggiolone per ammalati, da cui spera di ricavare grandi guadagni. L’ufficio è in casa dell’ingegnere, nella villa Stella Vespertina sul lago di Zurigo. Le mansioni dell’assistente sono imprecise: tenere la contabilità, ricevere gli eventuali clienti, ma soprattutto badare ai creditori, e per questo lavoro egli riceve vitto e alloggio presso la famiglia dell’ingegnere e, poiché il lavoro d’ufficio è pressoché inesistente, finisce con l’occuparsi anche di piccoli servizi domestici. Durante i frequenti viaggi dell’ingegnere, Marti passa lunghe ore in conversazione con la signora Tobler, ancor giovane e abbastanza graziosa, e nasce tra i due una devota amicizia, che sfiora appena un tenuissimo sentimento amoroso, del resto mai confessato. La figura della signora Tobler è quella principale nel romanzo e viene ritratta con affettuosa ironia come una specie di sublimazione di ideali borghesi e casalinghi, «Essa – scrive Walser – viene da un autentico ambiente borghese: è cresciuta in mezzo all’utilità e alla pulizia, in regioni dove non vi è nulla che superi la praticità e il buon senso; avrebbe inclinazioni romantiche, ma le nasconde per non farsi credere "un’oca esaltata"». Fra lei e Marti si stabilisce una certa confidenza rispettosa, senza civetteria e senza abbandoni, in devota solidarietà nei confronti di Tobler che li domina con la sua imponenza aggressiva ma che rivela, via via che si approssima il fallimento economico, la sua debolezza. Marti, che non ha mai ricevuto lo stipendio, e non ha mai osato chiederlo, a un ennesimo scoppio di collera del padrone, si licenzia e parte, dopo essersi congedato brevemente dalla signora.

     Abbiamo raccontato a grandi linee la trama perché il valore di questo romanzo non sta nell’intreccio ma nel linguaggio: ironico, malinconico e leggero nel senso della levità, della delicatezza. Sempre in Walser il linguaggio è di un nitore e di una bellezza (bisognerebbe saperlo leggere in lingua originale) da giustificare l’ammirazione di Kafka che confessa più volte di avere un forte debito verso questo misconosciuto suo compagno e maestro di vita letteraria.

     E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Robert Walser, L’assistente (1907)

 Erano già in attesa all’approdo sotto la villa Tobler sulle grandi lastre di pietra di un vecchio argine fuori uso, allorché la barca con Joseph ai remi arrivò finalmente. Si cominciò a imbarcarsi, la signora Tobler per prima affinché le si potessero porgere i figlioli l’uno dopo l’altro. I due ragazzi facevano il chiasso, ma resi attenti del pericolo di quel loro smodato comportamento stettero più quieti. Le bimbe erano tranquille e con le manine si tenevano aggrappate al bordo. Infine montò Joseph dopo aver trattenuto fino all’ultimo la barca a una catena cigolante.

... continua la lettura ...

     Robert Walser non è matto: è un poeta che non sa dove andare, ma scrive e cammina per il gusto di scrivere e di camminare.

     Nel prossimo itinerario incontreremo ancora Robert Walser (ci sono delle novità che non possono sfuggirci) il quale è angosciato ma, scrivendo, sembra scacciare l’angoscia fuori dal suo animo per far entrare qualche cosa che assomiglia a una calma allegra e senza ostentazione. «Chi può presentarsi in pubblico con la sua smania di godimenti, chi per le sue condizioni di vita può farlo senza difficoltà diventa ben presto ottuso nell’anima e nel cuore perché spegne tutto ciò che vi ardeva», questa straordinaria riflessione è di grande attualità e oggi ridicolizza soprattutto l’ostentazione di chi vuole mostrarsi gaudente a tutti i costi esibendo solo cose materiali e rimovendo il Logos: la parola, il pensiero, lo spirito, l’intelletto. Questa riflessione è degna di un frammento di Eraclito ed è appropriata per commentare le figure – l’Orfeo, il Pitagora, il Giovane di bianco vestito, il Parmenide o l’Empedocle, l’Eraclito – che Raffaello ha dipinto nella prima zona dell’affresco de La Scuola di Atene di cui abbiamo quasi completato la descrizione. Nell’anima e nel cuore di queste figure arde il gusto per il Libro e per l’esercizio della lettura e della scrittura e questo gusto lo abbiamo potuto identificare camminando su questo Percorso che continua.

     Presentarsi a Scuola con la smania di godimenti intellettuali è lecito, si può, si deve: chissà però se la Scuola sarà in grado di sedare questa eventuale frenesia? Per saperlo bisogna rimettersi in cammino perché, comunque, il viaggio continua verso le parole e le idee della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     La Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 6, 2009