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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È L’ESSERE DI PARMENIDE ...

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele     7-8-9  gennaio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È L’ESSERE DI PARMENIDE ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola e buon anno a tutte e a tutti voi!

     Nella seconda settimana di ottobre dello scorso anno siamo partiti dall’Areopago di Atene prendendo il passo da una strada – ne rimangono 250 metri – che si chiama la via del rispetto della legge. Da questa antica via abbiamo iniziato un viaggio di studio che ha come obiettivo principale quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.).

     Questa sera riprendiamo il nostro cammino che ci sta portando gradatamente ad avvicinarci a questi tre significativi modelli culturali che – come abbiamo imparato – caratterizzano la Storia del Pensiero Umano in modo tale che all’inizio dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500, si trovano ad essere protagonisti dell’apparato intellettuale della cristianità (quindi l’eredità di intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele fa parte dell’identità culturale che ci è più prossima): la centralità di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II e con la collaborazione di Fedra Inghirami e di Bramante – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa nel 1508 (e noi continuiamo a celebrare questo anniversario). Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.

     Nello spazio rinascimentale dell’affresco che raffigura La Scuola di Atene – nel corso degli itinerari dell’anno 2008 – abbiamo studiato il primo quadro che raffigura il gruppo dei personaggi orfico-dionisiaci, che rappresentano le quattro età della vita, riuniti intorno al Libro ideale che contiene l’alfabeto (le parole degli albori) e poi abbiamo studiato il secondo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-pitagorici con Pitagora che scrive il suo Pensiero su un Libro attorniato dai suoi discepoli più importanti: Filolao di Crotone che prende appunti, Alcmeone di Crotone con in testa il turbante che lo accredita come medico e scienziato e Archita di Taranto che tiene in mano la lavagnetta sulla quale c’è disegnato il teorema musicale delle quattro corde.

     Nell’itinerario che ha preceduto la vacanza natalizia abbiamo studiato la figura del giovane vestito di bianco, la quale riunisce in sé il simbolo ideale dello spirito greco. Qual è il simbolo ideale, il modello esemplare della cultura greca? Il giovane vestito di bianco, in atteggiamento ieratico (venerabile) è il simbolo del mondo intellettuale greco che coltiva la filosofia e incarna la bellezza (kallos) e la bontà (agathos): in queste due parole si concentra l’ideale dello spirito ellenistico. Il concetto che Raffaello – supportato da Fedra Inghirami, da Bramante e da Giulio II – vuole rappresentare con l’immagine di questo giovane vestito di bianco, in greco, si traduce nell’espressione: kallos ka agathos, bellezza e bontà. Questa espressione – kallos ka agathos (che richiama la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) – insegna che la bellezza e la bontà si coniugano tra loro perché la Bontà contiene in se stessa sempre l’idea della Bellezza.

     Questa affermazione ideale – abbiamo detto – introduce anche il tema fondamentale della catalogazione e dello sviluppo delle virtù civichee dell’educazione da dare per poterle acquisire in modo da rendere più bella (kàllas), più buona (àgatha), più giusta (àcsia), più saggia (sòphia) la società, e questo è un tema che, all’inizio dell’età moderna, ha innescato un vasto e significativo dibattito: rimane qualche traccia, nella società odierna, di questo dibattito, e soprattutto rimane qualche traccia delle virtù civiche da acquisire?

     E ora, sulla corsia (moderna) che attraversa lo spazio dell’affresco rinascimentale, il nostro viaggio continua. Accanto al giovane vestito di bianco vediamo una figura statuaria: anche questa figura tiene in mano un libro, un libro che rappresenta il terzo vertice di un triangolo ideale formato da libri; questa porzione dell’affresco – che è quella da cui comincia il Percorso per capirne il significato – è una zona che celebra l’apologia del Libro, e l’attenzione va dal Libro orfico-dionisiaco, al Libro orfico-pitagorico, fino a questo terzo Libro: chi è il personaggio che tiene in mano questo libro?

     Prima della vacanza abbiamo detto che, proprio in ragione di questo personaggio, dobbiamo approdare dalle parti della Magna Grecia, nei pressi delle coste della Campania felix e delle coste siciliane all’epoca in cui le polis fiorivano con la loro potenza economica e culturale. Lo scorso anno – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci siamo avvicinati alla Magna Grecia attraverso il testo di un romanzo pubblicato postumo circa quarant’anni dopo l’inizio della sua stesura (e questo avvenimento editoriale ha caratterizzato l’anno 2008): questo romanzo è intitolato L’arte della gioia ed è stato scritto da una scrittrice nata a Catania che si chiama Goliarda Sapienza (1924-1996) della quale abbiamo fatto conoscenza.

     I personaggi di questo romanzo sono molti e tutti ben caratterizzati: noi – leggendone, prima della vacanza, alcune pagine iniziali – abbiamo incontrato Modesta (che è la figura principale del romanzo), il giovane Tuzzu, la monaca madre Leonora e adesso incontriamo Mimmo. Questi personaggi, che emergono dalle pagine de L’arte della gioia, ci portano nel clima letterario de I Viceré, il romanzo di Federico De Roberto che – con Luigi Capuana, Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Vitaliano Brancati, Leonardo Sciascia (tanto per fare alcuni nomi) – ha lasciato un’impronta culturale importante che tutte le cittadine e i cittadini italiani dovrebbero conoscere per capire un aspetto importante della nostra storia nazionale.

     E allora, per approdare dalle parti della Magna Grecia nei pressi delle coste della Campania felix e delle coste siciliane, leggiamo ancora due pagine da L’arte della gioia:

LEGERE MULTUM….

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia (2008)

Tutti si commossero, ma madre Leonora non si fece vedere. Mi mandò a dire per la bocca sdentata e acida di suor Costanza che lei mi aveva perdonata, ma che aspettava che Dio mi desse un segno del Suo perdono per poter, prendere in considerazione il fatto di rivedermi. Come faccio a sapere quando Dio mi perdonerà?

Come se avesse letto il mio pensiero, suor Costanza aggiunse: - Non ti preoccupare, che se questo segno si manifesterà madre Leonora lo verrà a sapere. Noi non siamo state sorde alla tua intenzione di pentirti. Ma l’intenzione non si può ancora definire il pentimento. Troppa passione c’era nelle tue lagrime. Ma, dato il tuo stato di salute e la tua buona volontà, abbiamo accettato il suggerimento del dottor Milazzo che tu possa uscire da domani per qualche ora durante il giorno. Ma bada di non turbare con lagrime e sospiri la nostra quiete per i corridoi e nel giardino. È un grande favore questo che ti è stato concesso, ricordatelo. E prega anche per il dottore che ha con tanto affetto interceduto per te.

... continua la lettura ...

     Mimmo è un personaggio che può essere definito statuariotanto da come si pone fisicamente nell’ambiente che lo circonda quanto dal punto di vista della morale e della saggezza, ed è Mimmo a salvare la vita della protagonista, ma continuate voi a leggere questo romanzo, noi abbiamo letto solo alcune pagine dai capitoli iniziali.

     Mimmo appare a Modesta come un personaggio maestoso, statuario e nell’affresco de La Scuola di Atene, collocato accanto al giovane vestito di bianco, troviamo una bellissima figura statuaria. Questo personaggio è vestito con abiti dai colori giallo, rosso e blu – e questi colori contrastano con la veste bianca del giovane che ha accanto –, e questo gioco di colori contribuisce a farlo apparire come una figura maestosa e monumentale. Questo personaggio tiene aperto un libro appoggiato sulla coscia sinistra e ha un piede che si appoggia su un cubo di marmo e ci domandiamo se questo sia ancora un riferimento alla colonna greca: questo cubo di marmo sembra la parte di un capitello ionico. Un elemento molto importante è lo sguardo di questo personaggio: ha uno sguardo attento e rivolto a leggere quello che sta scrivendo Pitagora sul suo librone.

     Chi è questo personaggio rappresentato da Raffaello con un’immagine di grande forza sia nella forma, sia nel colore, sia nell’atteggiamento e anche nella collocazione in primo piano? O meglio, che cosa rappresenta questo personaggio? Nel dare una definizione di questo personaggio ci sono due Scuole di pensiero a contrasto e noi le dobbiamo prendere in considerazione entrambe anche se una è, oggi, più accreditata dell’altra.

     La prima corrente di pensiero (quella che oggi è la meno accreditata) dice che questo personaggio potrebbe rappresentare Parmenide di Elea che è uno dei pilastri, una delle colonne della Storia del Pensiero Umano. Parmenide è vissuto tra il 540 e il 463 a.C. a Elea: siete state, siete stati a visitare Elea? Le persone che in questi venticinque anni hanno frequentato la Scuola, ad Elea ci sono state molte volte in viaggio di studio e poi anche materialmente: Elea non è lontana da qui.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Oggi Elea si chiama Velia (è il nome che i Romani hanno dato a questa polis dopo averla conquistata) e si trova nel Cilento e, se non hai mai puntato l’attenzione su questo significativo sito archeologico, puoi cercarlo sull’atlante, poi puoi consultare l’enciclopedia o una guida della Campania oppure i siti della rete…

     Ad Elea – circa 2500 anni fa – si è sviluppata una delle scuole più importanti della Storia del Pensiero Umano: la cosiddetta Scuola eleatica. Parmenide è l’esponente di spicco ma il fondatore della Scuola eleatica è stato Senofane di Colofone, che ha scelto di stabilirsi ad Elea quando è stato esiliato dalla sua città a causa del suo pensiero in cui negava l’esistenza degli dèi: Senofane è morto ad Elea intorno al 490 a.C.. Senofane è il primo pensatore (è un cantautore) che critica e smentisce la teologia tradizionale: ridicolizza gli dèi, scrivendo che gli dèi se li sono inventati gli esseri umani come modello dei loro vizi e dei loro difetti, dei loro usi e dei loro costumi. A Colofone (che è una polis della Ionia), Senofane, viene processato e condannato all’esilio, per empietà perché abolire gli dèi significava abolire un fiorente commercio religioso, e quello degli dèi era un mercato florido e redditizio: liquidare gli dèi voleva dire smontare tutto il meccanismo dell’economia sacrale, delle rendite speculative sulla superstizione che è sempre stato un terreno di lucrosi guadagni e torbidi interessi per le classi di sacerdoti, di indovini, di imbonitori. Aprire gli occhi alla gente credulona era peccato, era un reato punito con l’esilio. Senofane concepiva razionalmente l’idea di Dio e razionalmente Dio può essere pensato solo al di là della natura umana.

     Quando Senofane approda sulle coste della Campania felix nella prosperosa polis di Elea, fondata dai Focesi, viene accolto con simpatia perché c’era una mentalità più aperta, e Senofane diventa, con le sue idee, l’ispiratore della prestigiosa Scuola di Elea. Il poeta Senofane trasferisce ad Elea il suo repertorio che mette in atto un processo di demitizzazione delle Opere di Omero e di Esiodo, dicendo – o meglio cantando – Guardate che questi due poeti narrano dei miti, raccontano delle leggende che contengono delle metafore da interpretare con la ragione, con la riflessione critica. Senofane demolisce la religione antropomorfa, demolisce il concetto degli dei che assomigliano agli uomini soprattutto nei loro difetti, e dà inizio al pensiero della metafisica razionale: se c’è un dio è definibile solo con un concetto teoretico.

     I frammenti che sono rimasti dell’Opera di Senofane sono sempre risultati molto significativi a chi li ha letti perché mettono bene in evidenza il concetto del monoteismo razionale, teoretico” della scuola di Elea. La riflessione che i frammenti di Senofane innescano porta allo sviluppo – soprattutto in età moderna – del cosiddetto misticismo laico: non è Dio che si presenta direttamente alle persone umane, ma è la persona umana che, usando la ragione, cerca di definire il teorema di Dio con valori umani.

     Leggiamo, per rinfrescarci la memoria, alcuni Frammenti che ci sono rimasti di Senofane di Colofone:

LEGERE MULTUM….

Senofane di Colofone,  Frammenti   (VI secolo a.C.)

Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli uomini è riprovevole: rubare, fare adultero e ingannarsi a vicenda

I mortali si immaginano che gli dèi siano nati e che abbiano vesti, voce e figura come loro. Ma se i bovi, i cavalli e i leoni avessero le mani e potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove

Gli Etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi

Gli dèi non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin da principio ma ricercando gli uomini trovano a poco a poco il meglio

Un solo dio, il più grande fra tutti gli uomini e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali; tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio; senza fatica scuote tutto, con la forza della mente; rimane sempre nello stesso luogo immobile, né gli si addice spostarsi or qua or là

     Secondo Senofane le caratteristiche di un’eventuale Entità divina le possiamo definire solo con la ragione, e non sotto l’influenza del mito o della superstizione o della religione. Quindi la definizione del concetto di Dio non ha niente a che fare con la tradizione leggendaria legata agli dèi: la teologia è una disciplina che riguarda i laici.

     Senofane è stato, probabilmente, il maestro di Parmenide e Parmenide è il personaggio di spicco della Scuola di Elea. Parmenide, sulla base del Pensiero di Senofane, pone il problema dell’esistenza di un Principio assoluto, pone il tema della presenza di un Ente supremo, critica la conoscenza basata sull’apparenza data dai sensi e privilegia la conoscenza di tipo razionale. La ragione ci fa capire che ci deve essere un Principio assoluto che dà un senso a tutta la realtà. E che cosa possiamo dire, con la ragione, di questo Principio assoluto – si domanda Parmenide –, quali caratteristica ha il Principio assoluto?

     Del Principio assoluto possiamo dire solo una cosa fondamentale, possiamo solo dire che è. Il carattere essenziale del Principio assoluto è quello di essere. Il Principio assoluto è dunque l’Essere, e poiché questo Principio assoluto si identifica con la Realtà e con l’Universo, tutto ciò che è reale fa parte di questo Essere. Quindi l'Essere rappresenta tutto ciò che esiste: è la Realtà in sé, incorruttibile e immutabile. Di conseguenza ciò che è molteplice e mutevole, ossia ciò che diviene, non è altro che illusione, in contrapposizione alla Realtà e – afferma Parmenide – lo possiamo definire e denominare come Non-essere. Le cose prese una per una nella loro trasformazione sono: Non-essere. Essere o Non-essere? Questo è il problema: ce lo ripete anche Amleto da qualche secolo...

     L’Essere di Parmenide si pone al di sopra delle cose – una cosa non può essere senza l’Essere – e quindi ha un valore metafisico, ha poi anche un valore logico perché l’Essere lo si definisce con la ragione, e inoltre è necessario perché: non può non essere quello che è. L’Essere di Parmenide è un Principio assoluto di carattere metafisico, logico e necessario.

     Queste caratteristiche fanno sì che l’aspetto più importante della Scuola di Parmenide, della Scuola eleatica, sia l’aspetto etico. L’idea di un Principio assoluto che trascende il contingente e che va al di là delle cose materiali fa presupporre, razionalmente, l’esistenza di valori assoluti che superano i particolarismi individuali. Se c’è un Principio assoluto – sostiene Parmenide – ci devono essere anche Valori assoluti, Principi universali, Diritti inviolabili, Doveri ineludibili.

     Il pensiero di Parmenide e della Scuola di Elea, di conseguenza, fa emergere una questione di grande importanza nella Storia del Pensiero Umano: il tema del contrasto tra l’essere e l’apparire. Questo tema è stato al centro del dibattito nell’età moderna e, in età contemporanea, questa fondamentale questione è stata rimossa perché la dimensione dell’apparire ha soffocato quella dell’Essere alterandone il significato: si confonde la realtà del proprio Essere con la mera spettacolarizzazione della propria esistenza e si crede di poter dare valore alla propria Essenza esaltando la propria apparenza. La Scuola eleatica invita a ragionare sul concetto dell’essenza della realtà in modo che l’essere umano impari ad andare oltre l’apparenza e nell’affrontare questo tema Parmenide dimostra di essere uno scienziato.

     Naturalmente lo stile che Parmenide coltiva come scienziato è ancora quello del grande poeta epico-liturgico. Infatti Parmenide è l’autore di uno straordinario poema che ha lasciato una traccia indelebile nella Storia del Pensiero Umano. Questo poema mette in scena un viaggio – un Percorso di studio, un itinerario di purificazione dell’intelletto – un viaggio in cui Parmenide porta la lettrice e il lettore verso la rivelazione della Realtà. Il poema di Parmenide non si presenta come un testo di facile lettura – noi, nei nostri Percorsi, lo abbiamo già incontrato diverse volte – e ogni volta che si affronta questo argomento è necessario ripristinare delle competenze.

     Dobbiamo dire – in funzione del Percorso che stiamo compiendo sulla corsia (moderna) dell’affresco rinascimentale e su quella (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade – che le idee di Parmenide condizionano fortemente anche il pensiero di Platone, il quale (circa un secolo dopo) studia e tramanda gli elementi costitutivi della Scuola di Elea e dedica a Parmenide uno dei suoi dialoghi che s’intitola proprio: Parmenide. In questo dialogo il maestro di Elea viene etichettato da Platone con una dicitura che è passata alla storia: Platone, ogni volta che lo cita, pronuncia un verso di stile omerico: “Parmenides ieratikos ka menitikos-Parmenide venerando e terribile insieme. Nel XVI secolo, all’inizio dell’età moderna, il dialogo Parmenide di Platone era considerato dai Neoplatonici come una summa teologica e metafisica di straordinaria importanza: Marsilio Ficino lo traduce in latino e lo legge in quest’ottica, mentre Giovanni Pico della Mirandola lo considera la prima vera summa di carattere etico nella quale trovano fondamento i Valori universali.

     Osservando la figura statuaria dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene – sulla quale stiamo puntando la nostra attenzione – viene da pensare che le commentatrici e i commentatori abbiano visto in questa immagine il personaggio di Parmenide anche influenzate, anche influenzati dall’affermazione di Platone: “Parmenides ieratikos ka menitikos - Parmenide venerando e terribile insieme.

     Un altro elemento che ha influenzato chi vede il personaggio di Parmenide in questa figura è il libro che questo personaggio tiene in mano e c’è chi sostiene che possa rappresentare proprio il dialogo Parmenide di Platone: un testo (una summa teologica, metafisica ed etica) – come abbiamo detto – molto conosciuto da tutti gli addetti (Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello, Giulio II) alla progettazione de La Scuola di Atene.

     Però la maggior parte delle commentatrici e dei commentatori i quali vedono in questa figura il personaggio di Parmenide sostengono che il libro aperto, tenuto in mano e appoggiato sulla coscia sinistra di questo personaggio, rappresenti il famoso poema di Parmenide intitolato Sulla natura, in greco  Peri’ physeos (physis, in greco, significa natura): uno dei libri più studiati (e la ricerca su questo testo continua tuttora) della Storia del Pensiero Umano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nella tua vita hai mai incontrato una persona che, per la sua autorevolezza, potresti definire “veneranda o venerando e terribile insieme”? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Il poema di Parmenide, intitolato Peri’ physeos  Sulla natura, inizia con un celebre Prologo che è considerato uno dei testi più famosi della Storia del Pensiero Umano. Questo proemio, questa introduzione – e molte e molti di voi ne sono a conoscenza –, si compone di un testo poetico di grande suggestione e di grande mistero e molte persone che studiano ne conoscono a memoria il primo verso che dice:

Ippoi taì me férusin, òson t’epì tumòs ikànoi,

     Avete capito? Non avete capito niente? E allora traduciamo il famoso primo verso del poema Sulla natura di Parmenide di Elea:

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,

     Dunque Parmenide – nel proemio del suo poema – immagina di trovarsi su un cocchio trainato da focose cavalle: che tipo di viaggio virtuale sta per intraprendere? Si tratta di un viaggio di natura intellettuale, di un itinerario che ha una valenza spirituale, è un percorso di studio costellato di metafore poetiche che vanno interpretate razionalmente: le cavalle focose del primo verso rappresentano gli impulsi, raffigurano gli stimoli, simboleggiano le motivazioniche la persona prova nei confronti della conoscenza. Il Prologo ci presenta Parmenide portato su un carro trainato da focose cavalle (gli impulsi verso la conoscenza) le quali sotto la guida delle fanciulle Figlie del Sole (le sensazioni, gli occhi), che indicano la via, giunge a varcare la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, fino ad arrivare al cospetto della Dea, che lo accoglie di buon animo e gli rivela la verità sulle cose.

     Questo percorso di Parmenide verso la conoscenza è un vero e proprio viaggio misticoche presenta molte assonanze con tutti i viaggi ultraterreni che si possono incontrare nelle narrazioni mitiche: pensiamo al viaggio del profeta Elia sul carro di fuoco nella Letteratura beritica, al viaggio di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme nella Letteratura del Corano, al viaggio di Dante descritto nella Commedia. Questo di Parmenide, descritto nel Prologo del poema Sulla natura, è un viaggio misticodi natura laica e, nel momento in cui lo leggiamo, dobbiamo cogliere – come abbiamo detto – il significato delle metafore di cui è costellato il testo, naturalmente sull’interpretazione delle allegorie del Prologo del poema Sulla natura di Parmenide si sono formate molte correnti di pensiero contrapposte (a cominciare da Platone) che hanno contribuito a rendere sempre più interessante quest’opera.

     Dobbiamo ricordare che il testo integrale del Proemio del poema Sulla natura di Parmenide ci è giunto per merito di uno scienziato della Scuola scettica, di un medico, che si chiama Sesto Empirico, che è vissuto tra il 180 e il 250 d.C. (è contemporaneo di Diogene Laerzio e anche di lui sappiamo poco), e che potrebbe essere originario dell’Africa settentrionale: Sesto Empirico riporta il Proemio del poema Sulla natura di Parmenide nella sua opera intitolata Contro i matematici.

     Dunque Parmenide – nel Proemio del suo poema – immagina di trovarsi su un cocchio trainato da focose cavalle che si librano verso il cielo, e allora libriamoci anche noi con il maestro di Elea, «venerando e terribile insieme», leggendo questo celebre testo.

     Però, prima di leggere, dobbiamo ancora fare un’osservazione. Quelle commentatrici e quei commentatori, i quali ritengono che Raffaello, accanto al giovane vestito di bianco, abbia dipinto, in modo statuario, il personaggio di Parmenide, fanno notare che questa figura è stata ritratta (sembra ritratta) in una posa che ricorda quella di un auriga: sembra che questo personaggio tenga il libro come se tenesse le briglie in mano e questa posa fa pensare a Parmenide su un cocchio trainato da focose cavalle che si librano verso il cielo.

     E ora leggiamo il testo del Prologo (la traduzione non riesce a renderne la potenza poetica): tra parentesi, in corsivo, sono riportati i significati delle metafore più importanti sulle quali tutte le studiose e gli studiosi concordano.

LEGERE MULTUM….

Parmenide,  Sulla Natura   Proemio del Poema  (VI secolo a.C.)

Le cavalle (gli impulsi) che mi portano fino dove il mio desiderio vuol giungere,

mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via

che dice molte cose (il ragionamento filosofico), che appartiene alla divinità

e che porta per tutti i luoghi la persona che vuole conoscere. Là fui portato.

Infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro, e fanciulle (le sensazioni) indicavano la via.

L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi

– in quanto era premuto da due rotanti cerchi (le orecchie) da una parte e dall’altra –

quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi, le fanciulle Figlie del Sole (gli occhi),

dopo aver lasciato le case della Notte, verso la Luce togliendosi con le mani

i veli dal capo. Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi

un architrave e una soglia di pietra; e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti.

Di questi, Giustizia (la ragione), che molto punisce, tiene le chiavi

che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con accortezza la persuasero,

affinché, per loro, la sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi,

produsse una vasta apertura dei battenti,

facendo ruotare nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi fissati con chiodi

e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta, diritto per la strada maestra

le fanciulle guidarono carro e cavalle. E la Dea (Dike) di buon animo mi accolse,

e con la sua mano la mia mano destra prese, e incominciò a parlare così e mi disse:

O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,

rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto

a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli esseri umani –

ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità

ben rotonda (aletheia) e le opinioni dei mortali (doxa-doxa),

nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai:

come le cose che appaiono (tá dokounta)  bisognava

che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.

     La traduzione non rende tutta la potenza poetica del Proemio di Parmenide. In questo testo – così ricco d’immagini sfolgoranti – si possono individuare molti riferimenti letterari, molte citazioni, provenienti da Omero, da Esiodo, dalla Letteratura orfica. Il testo ha un tono solenne perché evoca il racconto di un’iniziazione religiosa: è letteratura liturgica di carattere orfico-pitagorico. Sappiamo che Parmenide ha studiato in una Scuola pitagorica e – come ci riferisce Diogene Laerzio – è stato discepolo di Aminia e di Diochete, due importanti maestri pitagorici.

     Parmenide scrive in versi – anche se non è un grande poeta – perché vuole agevolare il più possibile per i suoi discepoli la memorizzazione della sua opera, e anche questo secondo lo stile delle Scuole pitagoriche.

     Parmenide, comunque, sembra interpretare in modo molto personale la dottrina pitagorica assorbendone soprattutto l’impostazione morale in senso laico: quando Parmenide parla di religione si riferisce a qualcosa che non rientra nell’ambito della religione istituzionale: infatti l’elemento più significativo che troviamo nel Proemio del poema di Parmenide consiste nell’annuncio di una Verità rivelata alla quale si accede attraverso una individuale esperienza mistica nella quale il poeta sembra profondamente coinvolto ma che corrisponde chiaramente ad un percorso di studio, ad un itinerario di carattere intellettuale non sacrale. Parmenide propone un’esperienza mistica in senso laico, non ancorata alla devozione mitica ma sostenuta da poderosi simboli razionali, e quindi, dal testo di Parmenide – costruito con il linguaggio tipico della rivelazione religiosa – emerge il trionfo della ragione: una ragione che si affida, con fierezza paradossale, alle sue capacità intuitive e discorsive (secondo l’insegnamento di Senofane).

     In tutto il testo del poema di Parmenide troviamo certamente un’ispirazione altamente spirituale da collocare sullo sfondo dei misteri orfici, molto praticati nella Magna Grecia (vicino a Elea c’è il grande santuario di Paestum), ma il Proemio della sua opera è la metafora di un viaggio intellettuale dal basso verso l’alto, dalle caligini della vita sensibile al Cielo dove splende la Verità che è un Principio universale necessario. Questa metafora viene narrata, nel Proemio, con immagini allusive che, nel loro complesso, esprimono l’entusiasmo di chi ha scoperto la Verità più per grazia del Cielo che per capacità propria: ma in realtà emerge, evidentissima, la soddisfazione di aver intuito con la ragione – per grazia della propria ragione umana – il concetto della Verità, l’idea di un Principio universale necessario.

     Quindi Parmenide, con il suo pensiero, non vuole sostenere la causa di qualche gruppo religioso in particolare. Parmenide – nel quadro della sapienza poetica orfica – s’ispira piuttosto ad Esiodo (che noi abbiamo incontrato due anni fa ad Ascra, in Beozia, in compagnia di Erodoto), il quale con la sua Teogonia ha fatto uso dell’epos (del poema epico) per rappresentare e, contemporaneamente, per demolire il mondo degli dèi, alludendo al fatto che c’è un mondo superiore retto dalla Giustizia che sta al di sopra degli dèi. Anche la Teogonia di Esiodo comincia con un Prologo che contiene una grande allegoria: a Esiodo, mentre sorveglia il gregge al pascolo ai piedi dell’Elicona, che è uno dei monti sacri dell’Ellade, appaiono le Muse e gli fanno una rivelazione che lui trasmette attraverso il suo poema.  Quale messaggio trasmette Esiodo? Esiodo allude al fatto che gli dèi non esistono: gli dèi sono un fine non un Principio, gli dèi sono un fine nelle mani dell’aristocrazia per soggiogare i contadini. Esiodo mentre racconta le nascite, gli accoppiamenti, i tradimenti degli dèi rivela che nel mondo c’è il dolore, e che il dolore si contrasta con il lavoro quotidiano e che nel lavoro quotidiano bisogna operare per costruire la giustizia sociale. Anche Parmenide, con il coinvolgente testo allegorico del Prologo del suo poema, vuole rivelare una sua intuizione, vuole completare la riflessione di Esiodo: la Giustizia non è l’ultimo gradino ma si deve fondare su un Principio ancora superiore.

     E, a questo proposito, bisogna cercare di capire meglio il significato delle parole  del suggestivo Proemio del poema Sulla natura. Parmenide, salito sul cocchio trainato dalle focose cavalle che rappresentano le passioni dell’animo, viene condotto dalle Elidi, le Figlie del Sole che rappresentano le sensazioni, fino al luogo dove c’è la porta delle vie della Notte e del Giorno.  A guardia della porta, Parmenide trova la Giustizia, Dike, che ha le chiavi che aprono e chiudono e non lo vuole far passare oltre. Ma le Figlie del Sole (le sensazioni) convincono la Giustizia con soavi parole a far passare il poeta e a portarlo al cospetto della Dea. La Dea lo accoglie, benevola e severa, e gli parla. Chi è questa Dea che sta al di sopra e che avvalora la Giustizia? Della Dea non viene fatto il nome: si parla della dea Verità, cioè della verità stessa e, in greco, questa parola si traduce a-letheia il cui significato letterale corrisponde all’espressione dis-velamento, nel senso di alzare il velo. Quindi il concetto della Verità – nel Proemio del poema di Parmenide – si fonda sull’idea che la Verità sia una cosa che è portata a rivelarsi, ad auto-rivelarsi, e la parola-chiave aletheia significa letteralmente: la dèa che rivela se stessa. Questa idea – legata alla parola aletheia – è entrata nel modo di pensare comune per cui esiste la convinzione che la verità venga sempre a galla, e molti proverbi, molti modi di dire popolari fanno riferimento a questo concetto: anche la memoria è legata all’idea del dis-velamento, della Aletheia.

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In solaio, in cantina, nel ripostiglio, nel profondo del cuore avete alzato il velo ed è comparso l’oggetto che mette in moto il ricordo: la Aletheia (il dis-velamento) è anche la dèa della Memoria e va onorata con la scrittura, bastano quattro righe, scrivete …

 

     La riflessione sul significato della presenza di questa Dea, nel Proemio del poema di Parmenide,  fa sì che ci domandiamo: perché viene chiamata in causa una Dea e non un Dio? Bisogna dire che, dal punto di vista del contenuto, questo fatto non giocherebbe a favore della presenza del personaggio di Parmenide ne La Scuola di Atene ma dal punto di vista della forma, invece, potrebbe esistere un presupposto. La Dea, che appare in tutta la sua potenza nel Prologo del poema Sulla natura di Parmenide, ha la particolarità di assumere aspetti e nomi differenti.

     Prima di tutto bisogna mettere in rilievo il nesso culturale che c’è fra questa Dea e la figura mitica della Grande Madre propria della religiosità mediterranea, e poi Parmenide si deve essere certamente ispirato ai personaggi femminili che campeggiano nella cultura del movimento della sapienza poetica orfica: la dèa Ilizia (la grande levatrice) e la dèa Latona (la divina partoriente), queste due figure mitiche le abbiamo incontrate due anni fa in compagnia di Erodoto.

     Nel poema di Parmenide la Dea si manifesta in molti modi, secondo la dinamica richiamata dal celebre verso della tragedia Prometeo incatenato di Eschilo che dice: «Temi e Gaia, una sola forma dai molti nomi». L’unità della Dea, citata da Parmenide, si manifesta in molte maniere espresse da nomi emblematici che ne indicano vari aspetti essenziali, e tutti quanti femminili. La Dea è la Divinità che tutto governa, è la Giustizia, è la Sorte, è la Legge divina, è la Persuasione, è la Verità, è la Necessità. La Dea quindi, nel poema di Parmenide, si mostra nei suoi molteplici aspetti, ciascuno dei quali è necessariamente connesso con l’altro e, tutti insieme, costituiscono la forma totale della divinità.

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Quante espressioni conosci con le quali puoi nominare la divinità?

Scrivine qualcuna…

     Il poema di Parmenide supera il concetto di politeismo (tanti dèi) e introduce l’idea della polinomìa (un dio – in questo caso una Dea – con tanti nomi). La potenza divina, senza la polinomìa, rimarrebbe muta, inespressa e indistinta. Sul concetto della polinomìa si fonda il monoteismo: nelle religioni monoteiste (l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam) la proclamazione del dio unico è accompagnata dalla rivelazione dei suoi tanti nomi, delle sue tante attribuzioni.

     La Dea accoglie Parmenide benevola e severa, e gli parla: che cosa dice la Dea al maestro di Elea, «venerando e terribile insieme»? Se rileggiamo gli ultimi versi del testo del Prologo prendiamo atto delle parole della Dea:

Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda (aletheia) e le opinioni dei mortali (doxa), nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono (tá dokounta) bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.

     Diciamo subito che il finale del Prologo del poema Sulla natura di Parmenide contiene il quadro generale della trattazione che viene svolta nell’opera, e contiene i tre temi fondamentali: la Verità (aletheia), le opinioni (doxa) e il rapporto tra la forma che assume la Verità e le opinioni. Sull’interpretazione degli ultimi due versi si è sviluppato, nel corso dei secoli, un serrato dibattito che continua tuttora. Ci sono due correnti di pensiero in proposito: chi sostiene che le vie di ricerca indicate dalla Dea (proposte da Parmenide) sono due e c’è chi sostiene che sono tre. Intanto possiamo affermare che due vie sono chiare.

     La prima via che dobbiamo apprendere – afferma Parmenide – è quella della Verità immutabile, aletheia, verso la quale ci si avvicina mediante il pensiero razionale.

     La seconda via che dobbiamo apprendere è dominata dalla consuetudine e dall’esperienza, ed è confusa dai sensi: è la via dell’opinione, doxa, e delle sue mutevoli apparenze. È necessario – afferma Parmenide – conoscere anche questa seconda via, la via dell’opinione, ma soltanto dopo aver percorso la prima via in modo da essersi procurati uno strumento adeguato per smascherare le apparenze. Difatti il merito fondamentale di Parmenide è quello di aver messo in evidenza la fattiva contrapposizione tra la via della Verità, aletheia, e la via dell’opinione, doxa-doxa: questa intuizione di Parmenide segna il punto di partenza dello studio vero e proprio della metafisica fondato sulla ricerca. La via della Verità, aletheia, conduce alla definizione del concetto dell’Essere e svela che, nell’intima struttura dell’Essere, esistono alcuni attributi che hanno la stessa necessità logica dell’Essere: che cosa significa?

     Per capire quello che vuole dire Parmenide e per ripercorrere la stessa via che lui ha percorso, è necessario riflettere sull’atto conoscitivo che si compie quando si esprime un giudizio. Un giudizio – afferma Parmenide – è un atto di conoscenza il cui elemento essenziale è il predicato verbale: senza il predicato verbale (il verbo essere) non si riesce ad esprimere un giudizio e quindi non si riesce ad attivare il procedimento della conoscenza. Se dico: «il cielo è scuro». «questa persona è mia amica», «la Dea è misericordiosa», ebbene tutti i termini del giudizio possono cambiare ma il predicato verbale (il verbo essere) è, in ogni caso, necessario. Senza il verbo essere non si formula un giudizio e se non si formula un giudizio non c’è atto di conoscenza, quindi senza il verbo essere non c’è conoscenza. Il concetto di essere – afferma Parmenide – è dunque onnipresente nei processi conoscitivi: i sensi forniscono, per così dire, il materiale del conoscere, che è di per sé un materiale mutevole e provvisorio, la ragione invece ha come oggetto suo proprio ed esclusivo l’essere. Per Parmenide, quindi, la necessità logica dell’essere (il concetto dell’essere bisogna che ci sia, se no non potremmo conoscere) diventa una necessità oggettiva.

     La necessità oggettiva dell’essere viene chiamata necessità ontologica, dal termine greco ώn-on, che vuol dire ente, ciò che è. E qual è la prima affermazione ontologica che, con Parmenide, entra in gioco nella Storia del Pensiero Umano? La prima affermazione ontologica è che solo l’Essere è necessario. Di conseguenza – afferma Parmenide – se la ragione mi dice che l’Essere è necessario questo significa che l’Essere non può non essere. Solo coloro che – leggiamo nel Prologo – la Dea conduce al di là della distinzione tra la Notte e il Giorno, al di là cioè del mondo sensibile, sono in grado di intuire l’Essere e quindi di conoscere la Verità. Coloro, invece, che si limitano alla conoscenza sensibile e non usano la ragione, «è gente» scrive Parmenide «dalla doppia testa, nel cui petto la mente vaga errabonda, cieca, sorda, stupida e incapace di distinguere l’Essere dal Non-essere, e incapace di riconoscere la Verità dall’opinione».

     Parmenide, nella sua opera, riflette su che cosa possa essere detto dell’Essere. Per Parmenide l’Essere (o l’Uno, o Dio, o il Logos, o la Verità) è qualcosa «di unico, di intero, di immobile e di ingenerato». Naturalmente queste qualità dell’Essere non sono così lontane dalla vita materiale e quindi hanno sempre fatto riflettere (e lo stesso Parmenide ha riflettuto) sul fatto che questi attributi contengono parole che rimandano alla quotidianità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste quattro parole – unico (la curiosità), intero (l’integrale), immobile (la stabilità), ingenerato (l’offerta) – ha maggior importanza, oggi, nella tua vita ?

crivi quattro righe in proposito…

     L’Essere è ingenerato e imperituro perché – scrive Parmenide : «non è mai stato e non sarà, perché è ora, tutto insieme, e si offre nella sua compiutezza». L’Essere è, dunque, fuori del tempo, in un immutabile presente (ricorda il concetto del kairòs, del tempo che resta). Difatti, se l’Essere avesse cominciato a essere, avrebbe dovuto esser generato dal non-essere: ma come può – scrive Parmenide – il nulla generare qualcosa? E nemmeno è possibile che l’Essere si trasformi, perché trasformarsi vuol dire passare da uno stato a un altro stato che prima non-era: ma come può – scrive Parmenide – l’Essere generare il nulla? L’Essere è dunque – scrive Parmenide – senza passato e senza futuro, e così, in questo modo, si estingue la nascita, ma anche la morte scompare. È – scrive Parmenide – il nostro «io» che muore, non il nostro «essere»: questa affermazione apre un dibattito che tuttora continua nella Storia del Pensiero Umano.

     A questo proposito, leggiamo un frammento del poema di Parmenide:

LEGERE MULTUM….

Parmenide, Sulla natura (VI secolo a.C.)

Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi, è l’Essere, senza principio

né fine. L’imbattibile energia della Necessità lo costringe nelle catene del limite,

che intorno lo avvolge, poiché non può non esser compiuto l’Essere.

Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire

e perire, essere e non-essere, e cambiar di luogo e mutare il colore splendente.

Ma essendovi un limite estremo, esso è compiuto tutto intorno, simile alla massa

di una rotonda sfera che dal centro preme, con eguale potenza, in ogni parte

     Abbiamo detto precedentemente che le vie da conoscere additate dalla Dea (proposte da Parmenide) sarebbero tre: oltre alla via della Verità ben rotonda, aletheia, e alla via delle opinioni dei mortali, doxa, che è relativa, c’è anche una via che indica in modo corretto come le cose che appaiono, le cose che hanno una forma, tá dokounta, vadano interpretate, in modo da poterle includere nell’Essere. Questa via è stata chiamata: la via dell’opinione vera, dell’opinione in sintonia con la Verità, e si tratta, in un certo senso, di una prosecuzione della via della Verità che, per comodità, è stata chiamata terza via, ossia via dell’opinione verace.

     Qui è necessario intendersi sul termine apparenza che in questo caso (nel modo in cui lo usa Parmenide) non significa finzione, simulazione, parvenza, sfoggio, vistositàma bensì significa forma, figura, immagine, presenza, e la parola greca tá dokounta contiene due termini: dokeo, che significa insegnare e ontos che significa ciò che è per cui questa parola indica che c’è una via sulla quale l’Essere si manifesta (è presente) più pienamente nella sua forma. Evidentemente questa terza via vorrebbe dare forza all’idea delle religioni rivelate in cui un profeta, una guida spirituale o politica – Mosé, Gesù, Maometto, Budda, Zarathustra, Lao Tze, Pitagora, Parmenide stesso – ha delle opinioni in sintonia con la Verità.

     Noi non vogliamo entrare nella disputa delle due vie contro le tre vie: è un problema d’interpretazione del testo e noi sappiamo che non sempre si capisce esattamente che cosa Parmenide volesse dire, e questo succede per molte pensatrici e pensatori. Quello che di certo emerge e che a noi interessa – in funzione della didattica della lettura e della scrittura e in funzione del nostro Percorso – sono le parole-chiave fondamentali, in rapporto tra loro, che Parmenide ha messo in evidenza: la Verità, aletheia, l’opinione, doxa, la forma con cui ci si mostra la Verità, dokounta.

     Parmenide ha saputo mettere in evidenza un concetto fondamentale: che l’Essere è l’essenza delle cose stesse, ovvero è l’essenziale (è il principio, è il fondamento, è la sostanza) che si trova «sotto» la mutabilità delle apparenze, delle forme con cui si manifesta la Verità.

     Per aver elaborato questo concetto il personaggio di Parmenide dovrebbe avere un posto ne La Scuola di Atene e questa figura statuaria dipinta da Raffaello, almeno in parte, lo richiama anche se, oggi, tutte le studiose e gli studiosi vedono in questa immagine un altro personaggio. Perché allora – se Parmenide viene escluso – ci siamo soffermati così a lungo sulla sua opera? Non ci dobbiamo dimenticare qual è la direzione del nostro Percorso: il percorso del nostro viaggio passa attraverso lo spazio dell’affresco rinascimentale ma è soprattutto indirizzato verso l’incontro con la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele e gli aspetti salienti del pensiero del maestro e della Scuola di Elea sono propedeutici per questo incontro.

     Platone e Aristotele non risparmiano le loro critiche (feroci) contro Parmenide, ma noi sappiamo che quando questi due prendono in considerazione le opere di un personaggio che li ha preceduti significa che sono coinvolti e che hanno imparato (e anche preso) molto da questi testi: Platone e Aristotele demoliscono delle strutture ma utilizzano (zitti, zitti) i materiali delle costruzioni che hanno (con gran clamore) demolito. I concetti contenuti nel poema Sulla natura di Parmenide portano direttamente al Mondo platonico delle Idee e anche oltre, fino al complesso territorio del Neoplatonismo.

     Platone nel dialogo il Sofista sviluppa il concetto del falso e dell’apparente e affida la conduzione del dialogo ad un personaggio che chiama lo Straniero di Elea. Con questa maschera drammaturgica Platone porta a termine il celebre parricidio di Parmenide. Parmenide proclama che «l’Essere è e il Non-essere non è» ma questa affermazione esalta il concetto dell’Essere ma annulla i fenomeni, elimina le cose materiali. L’affermazione di Parmenide sancisce che i fenomeni naturali non esistono più e quindi è come se la realtà fisica fosse sparita, con la svalutazione totale delle opinioni e delle apparenze cioè delle forme in cui si manifesta la Verità.

     Platone vuole proclamare il principio dell’Essere ma vuole anche dare valore ai fenomeni naturali: Platone vuole anche ammettere la necessità del «Non-essere». Come è possibile – afferma Platone nel dialogo intitolato Sofista – concepire l’Essere se non si ha contemporaneamente anche l’idea del Non-essere? Come si fa a intuire l’Uno senza conoscere il Molteplice? È come parlare della Luce senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Buio, è come parlare del Bene senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Male. E allora, siccome per intuire l’Essere c’è bisogno, come elemento pregiudiziale, della conoscenza del Non-essere, il pensiero di Parmenide – scrive Platone – va modificato, va completato, non si può dire «l’Essere è e il Non-essere non è» ma bisogna affermare che: «l’Essere è e il non essere non è pur essendo necessario». Questa è la formula usata da Platone nel dialogo il Sofista per compiere il celebre parricidio di Parmenide. Platone decide di attuare il parricidio di Parmenide ma questo significa che lo elimina riconoscendolo però come proprio padre. Difatti Platone, proprio mentre confuta la rigidità della dottrina di Parmenide, tributa al maestro di Elea il più grande onore. Platone, nel momento stesso in cui lo supera, riconosce di essere figlio di Parmenide, ossia riconosce che la fonte del suo pensiero sull’Essere è proprio del maestro di Elea: «venerando e terribile insieme, Parmenides ieratikos ka menitikos». Ma questi sono argomenti che appartengono al secolo successivo e che affronteremo in modo più organico quando, strada facendo, incontreremo Platone. Fra cinque settimane citeremo ancora il dialogo Sofista di fronte ad un nuovo paesaggio intellettuale.

     Ora, per concludere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura, e a proposito di parricidio – leggiamo due pagine dal romanzo Feria d’agosto (1945) di Cesare Pavese: perché?  Intanto per concludere le nostre celebrazioni pavesiane (i cento anni dalla nascita, 1908-2008) e poi perché la metafora del parricidio è un tipico tema pavesiano: quando le figlie e i figli abbandonano la campagna per andare a lavorare in città è come se commettessero un parricidioe spesso i padri – ormai vecchi e privi di autorità – si uccidono davvero. I figli sanno di provocare una tragedia, ma sanno anche che la tragedia è inevitabile e che alla sua rappresentazione non ci si può sottrarre e soprattutto sanno che l’abbandono comporta solo il Non-Essere, comporta solamente le cose materiali, perché l’Essenza tragica della cultura rurale dei padri rimane in loro e loro vanno a seminare – come lo Straniero di Elea – l’inquietudine orfico-dionisiaca nella città.

LEGERE MULTUM….

Cesare Pavese, Feria d’agosto (1945)

Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non essere veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra.

... continua la lettura ...

     All’inizio del 1500 il dialogo di Platone intitolato Parmenide è considerato dai Neoplatonici – Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola – una summa teologica, metafisica ed etica di straordinaria importanza.

     Tutto questo, però, non giustifica fino in fondo il fatto che questa figura statuaria, dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene, possa rappresentare a pieno Parmenide di Elea perché il personaggio che stiamo osservando guarda inequivocabilmente verso il Libro che sta scrivendo Pitagora e noi dobbiamo sapere che il legame tra Parmenide e i Pitagorici è molto tenue. Diogene Laerzio nel suo trattato Le vite dei filosofi, ci racconta che Parmenide ha dei legami con il pitagorico Aminia, che vive coerentemente in povertà ed è una persona di grande valore e ricca di virtù: Parmenide lo segue come discepolo e quando Aminia muore, Parmenide, che è ricco di famiglia, gli fa costruire un bellissimo monumento funebre. Parmenide viene avviato da Aminia alla vita contemplativa, ma non propriamente ad uno stile di vita pitagorico.

     E allora se non è Parmenide chi è il personaggio statuario rappresentato da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco ne l’affresco de La Scuola di Atene? Per incontrare questo personaggio la prossima settimana siamo ospiti della polis di Akràgas: la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele passa anche da questa città.

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Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 9, 2009