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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È LA KÀLLAS, L’ÀGATHA, L’ÀCSIA, LA SÒPHIA...

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele   17-18-19  dicembre 2008  

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È LA KÀLLAS, L’ÀGATHA, L’ÀCSIA, LA SÒPHIA...

     Strada facendo siamo arrivati anche all’ultima Lezione dell’anno 2008.

     Undici settimane fa siamo partiti dall’Areopago di Atene da una antica strada – ne rimangono 250 metri di questa strada – che si chiama la via del rispetto della legge: di qui abbiamo iniziato un viaggio di studio che ha come obiettivo principale quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Ci stiamo gradualmente avvicinando a questi tre significativi modelli culturali che –come abbiamo imparato – caratterizzano la Storia del Pensiero Umano in modo tale che all’inizio dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500, si trovano ad essere protagonisti dell’apparato intellettuale della cristianità (quindi l’eredità intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele fa parte dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II e con la collaborazione di Fedra Inghirami e di Bramante – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa nel 1508 (e stiamo anche celebrando questo anniversario). Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade. Nello spazio rinascimentale dell’affresco che raffigura La Scuola di Atene nel corso degli ultimi itinerari abbiamo studiato il primo quadro che raffigura il gruppo dei personaggi orfico-dionisiaci e il secondo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-pitagorici.

     La scorsa settimana, sulla scia di Pitagora e in linea con il cosiddetto filone meridionale (o della Magna Grecia) che ha dato un contributo notevole all’arricchimento della Letteratura italiana, abbiamo incontrato un romanzo pubblicato postumo (non c’era un editore che lo volesse pubblicare nonostante il successo di critica e di pubblico ottenuto in Francia, in Spagna e in Germania) che costituisce l’avvenimento editoriale più significativo dell’anno che sta per concludersi. Questo romanzo s’intitola L’arte della gioia ed è stato scritto da una scrittrice nata a Catania che si chiama Goliarda Sapienza (1924-1996), con lei e con la sua opera abbiamo fatto conoscenza nell’itinerario scorso. Nel romanzo L’arte della gioia – che abbiamo presentato, a grandi linee, la scorsa settimana – sappiamo che tutto ruota intorno alla figura di Modesta, la protagonista: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune.

     Modesta è una donna siciliana, una carusa tosta nella quale si fondono la carnalità e l’intelletto, e nel profondo del suo animo il contrasto (pitagorico) tra l’armonia e l’inquietudine gioca un ruolo continuo nel bene e nel male. Modesta attraversa gli avvenimenti storici del secolo scorso e le sue tempeste sentimentali come se fosse protetta da un oggetto magico interiore: l’arte della gioia, un talismano che funziona se una persona acquisisce la capacità di essere molto autodisciplinata e l’autodisciplina si acquista attraverso la formazione culturale. L’autrice fa nascere Modesta il primo gennaio del 1900 in una casa povera, in una terra ancora più povera. Ma la protagonista del romanzo, fin dall’inizio, è consapevole, con il corpo e con la mente, di essere destinata a una vita che va ben oltre i confini del suo villaggio e della sua condizione sociale. Ancora ragazzina – dopo una serie di drammatici avvenimenti – viene ospitata in un convento dove inizia la sua formazione; da lì, poi, alla morte della madre superiora che la protegge, viene mandata in un palazzo di nobili e finisce per diventare una principessa.

     Entriamo anche noi in questo convento di monache aristocratiche, non solo perché è Natale, ma soprattutto per riflettere su come la scrittrice fa vivere ai suoi personaggi (incontriamo la figura di madre Leonora) il perenne contrasto tra l’armonia (che è data dalla cultura) e l’inquietudine (che nasce da una religiosità vissuta in modo patologico) e mostra come questo contrasto possa essere meglio governato se la persona acquisisce strumenti intellettuali con i quali valutare quando la religione cessa di essere una fede evangelica e diventa una malattia delirante.

     Leggiamo alcune di queste pagine che descrivono soprattutto un itinerario di formazione intellettuale:

LEGERE MULTUM….

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia (2008)

L’aria fresca, odorosa di confetto mi faceva volare pei corridoi in penombra appena rischiarati dal bianco di tante piccole porte sempre chiuse. Dietro sicuramente c’erano tante piccole stanze come la mia dove quell’esercito di donne alte, bianche, a volte si rinchiudeva, a volte ne usciva piano, con passi cauti e rapidi così leggeri che era più facile sentire il fruscio delle gonne che delle calzature. Quelle donne sospiravano sempre. Forse perché non parlavano mai? O perché non si accarezzavano e non vedevano mai uomini? Quanto tempo era che anch’io non vedevo un uomo?

... continua la lettura ...

     Come riparare in questa situazione nella quale si mescolano armonia e inquietudine, dolcezza e amarezza, peccato e virtù, disciplina orfico-pitagorica e irrequietezza orfico-dionisiaca?

     Leggeremo, a breve, ancora qualche pagina di questo romanzo.

     L’affresco de La Scuola di Atene, al punto in cui siamo arrivati, dopo aver studiato il primo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-dionisiaci e il secondo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-pitagorici, in un certo senso ci fa entrare nell’ottica natalizia perché subito dietro al gruppo dei pitagorici noi vediamo raffigurato un giovane vestito di bianco il quale, per il suo aspetto e per il modo in cui si pone sembra un angelo, dà l’impressione di avere perfino le ali: chi è questo giovane vestito di bianco, che ci guarda con uno sguardo accattivante e che può sembrare un angelo? Questa immagine dà un’idea di grande leggerezza e di grande naturalezza; la prima cosa che colpisce in questa figura è il suo sorriso: il sorriso di questo giovane – dicono tutte le studiose e gli studiosi – è di stampo leonardesco. Questo personaggio ha un sorriso misterioso, ambiguo, che attira lo sguardo di chi guarda con quella intensità quasi magica che Leonardo da Vinci (pur non essendo un grande pittore) ha saputo dare ai volti e ai paesaggi che ha dipinto. Se sfogliate un catalogo delle opere di Leonardo potete rendervi meglio conto di come Raffaello – che ha una grande capacità di apprendimento e una capacità ancora più grande di utilizzare gli apprendimenti elaborandoli per creare il proprio stile – abbia imparato la lezione di Leonardo. Il sorriso di questo giovane immortalato da Raffaello non può non ricordare il sorriso del dipinto più famoso del mondo: la Gioconda leonardesca (alla luce del sorriso della Gioconda, qualche anno fa, abbiamo intrapreso un viaggio nel territorio del Romanticismo galante e già, più di una volta, qualche studentessa e qualche studente ha chiesto quando rifaremo questo viaggio).

     Chi è questo giovane vestito di bianco che Raffaello dipinge a ridosso del quadro raffigurante i personaggi orfico-pitagorici? O meglio: che cosa rappresenta questa figura? L’interpretazione di questa figura risulta problematica e c’è stato uno scontro, molto interessante, tra correnti di Pensiero.

     Una tradizione interpretativa dice che Raffaello ha ritratto una persona: avrebbe raffigurato il volto di Francesco Maria Della Rovere, ma questa tradizione ormai si è stemperata anche se – il fatto che di questo personaggio se ne sia parlato – mette in moto la curiosità di chi intraprende un viaggio culturale. Chi è Francesco Maria Della Rovere e perché potrebbe essere stato raffigurato ne La Scuola di Atene? Il cognome non ci è nuovo: Francesco Maria Della Rovere è un nipote di papa Giulio II, che si chiama Giuliano Della Rovere, e, per la precisione, Francesco Maria Della Rovere è il figlio di uno dei suoi fratelli, di suo fratello Giovanni. Giovanni Della Rovere – prima che Giulio II diventasse papa e mentre era papa suo zio, Francesco Della Rovere, con il nome Sisto IV – sposa Giovanna da Montefeltro, figlia del duca di Urbino, Federico da Montefeltro. Alla morte di Federico, Giovanni Della Rovere diventa governatore di Urbino, nominato in quest’incarico dal papa, da suo zio Sisto IV, Francesco Della Rovere. E quando nel 1490 nasce il suo primogenito lo chiama appunto come lo zio papa: Francesco e poi Maria in onore della Madonna. Ma nel 1501 Giovanni Della Rovere muore e Francesco Maria, che ha solo undici anni, non può succedere al padre nel governo di Urbino. Intanto anche Sisto IV è morto e il papa, in questo momento, è don Rodrigo Borgia, Alessandro VI, nemico dichiarato dei Della Rovere. Di questa situazione ne approfitta Cesare Borgia, il figlio del papa don Rodrigo, che invade il ducato di Urbino e lo conquista. Francesco Maria, con la madre Giovanna da Montefeltro, deve fuggire in esilio fino a quando, nel 1503, Giulio II, suo zio, diventa papa. Sappiamo che Giulio II non sta con le mani (giunte) in mano e, a cannonate, con un lungo e durissimo scontro sconfigge gli eserciti di Cesare Borgia e riconquista Urbino e tutto il territorio che circonda la città. Francesco Maria Della Rovere eredita il ducato di Urbino nel 1508 dallo zio materno Guidobaldo di Montefeltro e, in questo anno, Raffaello avrebbe dovuto e avrebbe potuto se avesse voluto (anche con il beneplacito del papa) dipingerne la figura. Francesco Maria Della Rovere nel 1508 ha diciotto anni e comincia a combattere a fianco di suo zio papa nelle varie guerre intraprese da Giulio II. Durante la guerra contro Mirandola nel 1511, Francesco Maria si vendica di un suo assiduo calunniatore e nemico personale il Cardinale Alidosi e lo uccide a colpi di spada. Giulio II, sebbene sia affezionato al nipote, non tollera questa intemperanza e lo fa arrestare e lo priva di tutti i suoi beni. Quando nel 1513 Giulio II muore, Francesco Maria Della Rovere viene scarcerato e rimandato ad Urbino agli arresti domiciliari e lì sta nascosto, rimane appartato durante tutto il pontificato di Leone X de’ Medici che aveva richiamato Guidobaldo di Montefeltro a governare il territorio dell’Urbinate. Alla morte di Leone X Francesco Maria Della Rovere viene arruolato dai Veneziani come Capitano dell’esercito della Serenissima Repubblica e con questo esercito riconquista il ducato di Urbino nel 1521 (i Della Rovere governeranno Urbino fino al 1631). Francesco Maria Della Rovere diventa, da questo momento, uno dei grandi Capitani di ventura, uno di quei mercenari che hanno un esercito proprio e che combattono per professione, ed è protagonista di molte imprese che sono entrate nella storia di questo periodo critico per le sorti della non realizzata nazione italiana che non riesce ad essere unita dalle Alpi alla Sicilia come auspicava già Francesco Petrarca qualche secolo prima. Francesco Maria Della Rovere muore nel 1538.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sai che con questo personaggio ti puoi incontrare faccia a faccia?… Vuoi prendere un appuntamento con lui ?… Lo trovi agli Uffizi, o meglio, agli Uffizi trovi il suo ritratto dipinto da Tiziano Vecellio … Il ritratto di Francesco Maria Della Rovere eseguito dal famoso pittore veneziano Tiziano (1488 circa-1576) è in mostra agli Uffizi ma lo potete osservare anche su un fascicolo dedicato a          Tiziano che potete trovare in biblioteca oppure lo potete rintracciare facilmente sulla rete su uno dei tanti siti dedicati alla Storia dell’Arte…

L’uomo che appare nel ritratto di Tiziano – che si presenta come un condottiero, moro di capelli e di barba - non sembra assomigliare al giovane biondo in abito bianco che vediamo dipinto ne La Scuola di Atene

     Una seconda corrente di pensiero ritiene che questo personaggio – così attraente – possa essere una figura di riempimento, un elemento decorativo, che serve per attirare l’attenzione sull’affresco: come se rappresentasse un angelo custode che sorveglia il triangolo ideale ai cui vertici ci sono tre Libri, due dei quali – quello orfico-dionisiaco e quello orfico-pitagorico – li abbiamo già osservati e ne abbiamo studiato la valenza simbolica, mentre il terzo lo osserveremo prossimamente, strada facendo, incontrando il personaggio che, con figura statuaria, lo ha in mano.

     Oggi però – al di là dell’ipotesi che possa trattarsi di un ritratto molto trasfigurato e sublimato di Francesco Maria Della Rovere e al di là dell’ipotesi che possa trattarsi di un elemento decorativo – la maggior parte delle studiose e degli studiosi pensa che la figura di questo giovane in abito bianco sia un simbolo ben preciso che ha un significato sul quale è necessario riflettere.

     Per attuare questa riflessione è necessario osservare anche l’altro affresco, dipinto da Raffaello nella Stanza della Segnatura, che si trova sulla parete opposta a quella su cui è collocata La Scuola di Atene, e che s’intitola la Disputa del Sacramento. Questo affresco, che potete trovare raffigurato in tutti i fascicoli dedicati a Raffaello e anche sulla rete, è una allegoria della Teologia che, insieme alla allegoria della Filosofia raffigurata da La Scuola di Atene, dà completezza al progetto ideologico che papa Giulio II si è prefissato di realizzare e che è contenuto in questo messaggio: tutta la Storia del Pensiero Umano (con tutti i filosofi e tutti i teologi) trova posto –contribuisce a realizzare la salvezza dell’Umanità – sotto l’ala del Santissimo Sacramento che dall’Ostensorio illumina l’intelletto umano.

     Raffaello, nella Disputa del Sacramento, dipinge un gruppo di teologi che stanno discutendo ma davanti a loro, dando loro le spalle, ha raffigurato un personaggio che corrisponde alla figura del giovane vestito di bianco che vediamo ne La Scuola di Atene: è lo stesso angelo senza ali, in vesti umane, il quale con un gesto della mano indica ai teologi in discussione l’Ostensorio posto sull’altare. Questo gesto è fortemente allusivo ed eloquente: significa che la salvezza viene di lì, si trasmette attraverso quel pane consacrato, si diffonde attraverso il corpo di Cristo che con l’istituzione dell’Eucaristia – con la transustanziazionela trasformazione cioè della carne e del sangue di Gesù in pane e in vino – ha dato un senso alla Storia dell’Umanità.

     Queste due figure – il giovane vestito di bianco de La Scuola di Atene e l’angelo senza ali della Disputa del Sacramento – sono simili ma non sono uguali, e la differenza sostanziale (oltre a una certa differenza formale tra le due figure) sta nel fatto che l’angelo senza ali, raffigurato nella Disputa del Sacramento, fa un esplicito segno allusivo rispetto al giovane vestito di bianco de La Scuola di Atene che attira l’attenzione su se stesso e la fa fermare sulla sua figura: questo fatto invita a fare un ragionamento.

     La figura dell’angelo senza ali della Disputa sul Sacramento indica l’Ostensorio come il simbolo della salvezza, come il segno ideale della cristianità; la figura del giovane vestito di bianco de La Scuola di Atene, che attira l’attenzione su se stesso e indica se stesso come segno, come modello: quale simbolo ideale vuole rappresentare? Qual è il simbolo ideale, il modello esemplare della cultura greca? Il giovane vestito di bianco, in atteggiamento ieratico (venerabile) è il simbolo del mondo intellettuale greco che coltiva la filosofia e incarna la bellezza (kallos) e la bontà (agathos): in queste due parole si concentra l’ideale dello spirito ellenistico. Il concetto che Raffaello – supportato da Fedra Inghirami, da Bramante e da Giulio II –  vuole, probabilmente, rappresentare con l’immagine di questo giovane vestito di bianco, in greco, si traduce nell’espressione: kallòs ka agathòs, la bellezza è unita alla bontà. Questa espressione – kallòs ka agathòs (che richiama la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) – insegna che la bellezza e la bontà si coniugano tra loro perché la Bontà contiene in se stessa sempre l’idea della Bellezza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un oggetto, naturale o culturale, che rappresenta per te “bellezza e bontà” che si coniugano insieme?…

Scrivi, basta una sola frase…

     Naturalmente questo concetto si è formato sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele e quando li incontreremo e ne studieremo il pensiero capiremo meglio il senso dell’ideale dello spirito greco contenuto nell’espressione kallòs ka agathòs.

     Le studiose e gli studiosi che hanno formulato questa interpretazione simbolica della figura del giovane vestito di bianco, dipinto da Raffaello ne La Scuola di Atene, introducono anche il tema che, in questo momento, all’inizio del 1500, è al centro di un vasto dibattito europeo: il tema delle virtù civichee dell’educazione da dare per poterle acquisire in modo da rendere più bella (kàllas), più buona (àgatha), più giusta (àcsia), più saggia (sòphia) la società: questo è un tema laico che sta molto a cuore anche a Giulio II.

     Questa importante questione tira in ballo un libro e uno scrittore: lo scrittore si chiama Baldassar Castiglione (1478-1529) ed è l’autore di una celebre opera che s’intitola Il libro del cortegiano, che,  scritto tra il 1513-1518, ci porta nei palazzi delle piccole corti italiane del ’500.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Fai una breve ricerca, utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca o la rete, su Baldassar Castiglione che è stato, oltre che letterato, un diplomatico e un ecclesiastico il quale ha lasciato traccia delle sue missioni politiche e culturali in molte parti d’Europa

     Il libro del cortegiano di Baldassar Castiglione è un dialogo (e Platone è un modello) in quattro libri, che l’autore immagina sia avvenuto nel 1507 nel salotto del Palazzo ducale d’Urbino, tra la duchessa Elisabetta Gonzaga, il cardinale Bernardo Dovizi detto il Bibbiena (che noi abbiamo già incontrato) e il letterato cardinale Pietro Bembo, i quali conversano sull’educazione, le virtù, i comportamenti da tenere da parte del cortigiano e della dama di corte. La Letteratura del Rinascimento italiano elabora un substrato culturale che crea un modello che sarà imitato anche dai salotti parigini del Seicento e del Settecento.

     Nel primo libro de Il cortegiano il Castiglione spiega che il carattere della persona si forma con lo studio della letteratura (bisogna imparare bene a leggere e a scrivere), dell’eloquenza (bisogna imparare a parlare bene), della musica (è un riferimento pitagorico) e delle arti figurative (bisogna imparare a disegnare, a dipingere, a scolpire, a misurare le forme e lo spazio).

     Nel secondo libro enuncia che le qualità del temperamento da formare sono la prudenza (non escludere mai le trattative né nella vita privata, né nella vita pubblica, né nei rapporti tra le Nazioni), la discrezione (saper mantenere il riserbo e non chiacchierare invano), la cautela (riflettere a lungo e consultarsi prima di prendere una decisione) e la dignità (pensare che ogni persona è degna di essere considerata un Essere umano).

     Nel terzo libro insegna che i modi del comportamento devono essere ispirati alla modestia, al decoro, alla diplomazia senza servilismo, allo spirito di iniziativa, alla scelta psicologica delle amicizie, dei gesti, delle parole. Baldassar Castiglione – da esperto diplomatico – fa capire un concetto fondamentale (che non è compreso, per motivi culturali, da coloro i quali oggi si improvvisano statisti) che la politica internazionale è fatta da piccole inimicizie da governare (prima che crescano), da piccoli contrasti da regolare più che da amicizie senza regola. Baldassar Castiglione, nella sua opera, insegna che la diplomazia è una disciplina, è un’arte di per sé con le sue regole e non un’improvvisazione sul canovaccio ridanciano di una commedia dell’arte. Sempre nel terzo libro il Castiglione insegna che nei rapporti con gli altri è bene coltivare il motto pronto, il gusto dell’arguzia, dell’ironia, della satira, della burla, seguendo però la tradizione letteraria e la consuetudine intellettuale che va dal Boccaccio a Rabelais (con il quale, strada facendo, abbiamo preso contatti).

     Nel quarto libro Baldassar Castiglione parla della formazione amorosa del cortegiano e della dama secondo i canoni della filosofia neoplatonica di Marsilio Ficino che abbiamo avuto occasione di incontrare qualche settimana fa.

     Il cortegiano è un libro di educazione civica e di carattere istituzionale, è un testo costitutivo della nostra civiltà che contiene un quadro ideale di carattere utopico: l’autore se ne rende conto e, quindi, sulla sua scrittura si stende anche il velo della malinconia perché Castiglione è cosciente – come ne sono coscienti Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello, Michelangelo – del fatto che l’Essere umano vive in mezzo a limiti invalicabili, e di questa condizione deve prendere coscienza perché i limiti devono essere rispettati, non violati. Baldassar Castiglione sa che non è possibile conseguire la perfezione (parola che attrae e contemporaneamente mette paura alle intellettuali e agli intellettuali del Rinascimento) anche se è vero che la mente la può concepire. E sa che la Ragione è buona ed è bella solo quando è illuminata dell’idea del Bene (qui c’è lo zampino della sapienza di Platone che incontreremo strada facendo). Solo se è guidata dall’intelligenza la Ragione diventa la facoltà che sa discriminare il bene dal male e che capisce che è meglio fare il bene, perché la Ragione, affidata alla sua astuzia e non alle virtù dianoetiche (dianos diànos, in greco, significa intelligenza praticae qui c’è lo zampino della sapienza di Aristotele che incontreremo a suo tempo), è capace soprattutto di progettare il male.

     Il libro del cortegiano riporta un lungo catalogo di qualità umane, di virtù, di comportamenti morali che la persona deve coltivare perché la condotta del singolo individuo ha una ricaduta, nel bene e nel male, sulla società.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggi il catalogo delle virtù che si può ricavare da Il libro del cortegiano di Baldassar Castiglione: la modestia, il coraggio, la dolcezza, l’intraprendenza, la curiosità, la tenacia, la franchezza, la semplicità, la laboriosità, la prudenza, la costanza, la dolcezza, l’affidabilità, la cortesia, la correttezza, la spontaneità, la dignità, la coerenza, la volontà, la sensibilità, la responsabilità, l’umiltà, la razionalità, la tolleranza, la disponibilità, la lealtà, la generosità, la fedeltà, la solidarietà, la sincerità, la bontà, l’onestà, la calma

Quali ritieni siano, oggi, da insegnare per prime?Scegline e scrivine non più di quattro

     E ora leggiamo anche un frammento tratto dal Proemio de Il libro del cortegiano:

LEGERE MULTUM….

Baldassar Castiglione,  Il libro del cortegiano  Proemio, III  (1513-1518)

Certuni dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar una Persona così perfetta come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo scrivere questo libro perché vana cosa è insegnare quello che imparare non si può.

A questi rispondo che mi contenterò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio (Cicerone). Delinea Platone nella sua Repubblica il modello ideale di uno Stato; Senofonte nella Ciropedia discute del perfetto sovrano e Marco Tullio (Cicerone) poi nel De Oratore illustra la figura del politico eccellente.

Modelli ideali dunque, posti come termini supremi di confronto, accanto ai quali spero si porrà non indegnamente la figura del perfetto cortegiano.

Si tratterrà anche in questo caso di  ritratto ideale, di modello del mondo intelligibile, di archetipo supremo e quinci certo, forse, irragiungibile: proposto tuttavia all’imitazione di quanti vorranno almeno avvicinarsi a tale sfera di inattingibile perfezione.

Perciò se essi non vorran leggere il mio Cortegiano, non me ne tenerò io punto da loro ingiuriato.

     Sono molto interessanti le citazioni con le quali Baldassarre Castiglione, da intellettuale moderno, compendia il testo del suo libro contribuendo a creare quella che di lì a poco (soprattutto con i Saggi di Montaigne) verrà chiamata la categoria dei classici – in particolar modo, greci e latini – a cui rifarsi come modelli educativi non solo ideali ma anche pratici e funzionali nella costruzione di programmi scolastici: il termine classici, usato per designare le opere più significative della Storia del Pensiero Umano, dura tuttora anche se si è cessato quasi del tutto di studiare queste opere.

     Anche Baldassar Castiglione (con in testa un copricapo molto curioso, tipico del Rinascimento) è stato ritratto da Raffaello tra il 1514 e il 1515 e questo dipinto è in mostra al Museo del Louvre, ma lo si può osservare comunque (è un’immagine che ha sempre avuto una grande diffusione) su uno dei tanti fascicoli che riportano le opere di Raffaello e che potete trovare in biblioteca, oppure sui siti della rete.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Vai – tramite Raffaello – a guardare Baldassar Castiglione negli occhi, sono occhi che hanno letto i “classici”: sarà per questo motivo che ride proprio con gli occhi nella sua apparente pacatezza  ? … O, forse, - se l’intenzione è nell’occhio che guarda – sorride perché è soddisfatto di essere stato citato in questo Percorso scolastico

     E ora come abbiamo anticipato all’inizio leggiamo ancora alcune pagine tratte da L’arte della gioia di Goliarda Sapienza in modo da rimanere dalle parti della Magna Grecia, nei pressi delle coste della Campania felix, e nei pressi delle terre siciliane de I Viceré: in un certo senso anche madre Leonora è un personaggio (un bel personaggio letterario) che appartiene alla categoria de I Viceré.

LEGERE MULTUM….

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia (2008)

A riparare ci pensò un febbrone che mi prese all’istante, vedendo madre Leonora - immobile come una morta - che mi scacciava continuando a pregare. Febbre di paura, credo. Come avevo potuto essere così sciocca da dire a madre Leonora quello che pensavo? Battendo i denti e tremando cercavo di capire che cosa mi era successo. Tre giorni e tre notti durò quella febbre orribile che mi lancinava il cervello con la domanda: perché l’hai fatto? L’avevo fatto perché come una sciocca, io che mi credevo così abile, avevo fidato troppo in madre Leonora.

... continua la lettura ...

     Dopo le vacanze, il prossimo anno, leggeremo ancora alcune pagine di questo romanzo di formazione perché, proprio come abbiamo già detto, dobbiamo rimanere dalle parti della Magna Grecia, nei pressi delle coste della Campania felix e delle coste siciliane all’epoca in cui le polis fiorivano con la loro potenza economica e culturale; infatti il personaggio che sta con un libro in mano (il terzo vertice del triangolo ideale dei libri) di fianco al giovane vestito di bianco, quando lo incontreremo ci porterà tanto ad Elea, sulle coste della Campania felix, quanto ad Agrigento, sulle coste siciliane: perché questo statuario personaggio ci porta in due posti diversi? Ora non abbiamo tempo per rispondere: dobbiamo celebrare il Natale.

     L’itinerario di questa sera che ci ha fatto puntare l’attenzione sulla figura del giovane vestito di bianco che spicca sull’affresco de La Scuola di Atene in un certo senso ci ha fatti entrare nell’atmosfera natalizia perché, per il suo aspetto e per il modo in cui si pone, sembra un angelo, sembra che abbia perfino le ali e che stia per cantare come se fosse davanti alla mangiatoia di Betlemme: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra alle persone di buona volontà. Gli angeli, cantando, annunciano ai pastori che è nato un bambino, e questo bambino – tra molte peripezie – comincia a crescere, e la Letteratura dei Vangeli annota: “E il bambino cresceva in grazia (in bellezza), in bontà e in sapienza”. Tutte e tutti noi sappiamo che la Letteratura dei Vangeli è scritta in greco e le parole che indicano le qualità, che questo bambino acquisisce crescendo, corrispondono all’ideale dell’educazione ellenica: kàllas (la bellezza, la grazia), àgatha (la bontà), àcsia (la giustizia), sòphia (la sapienza). Quindi – secondo la tradizione – il bambino Gesù di Nazareth cresce con le qualità della cultura che si è sviluppata sulla scia delle parole e delle idee del pensiero di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     E con questa riflessione termina l’ultimo itinerario del 2008 che combacia con il venticinquesimo Natale di questa esperienza didattica che vogliamo celebrare con un augurio. La Scuola augura a tutte e a tutti voi un buon Natale di studio! L’espressione un Natale di studio è una metafora che vuole manifestare una  preoccupazione, la preoccupazione che ciascuna e ciascuno di voi possa crescere, nel proprio intelletto, in bellezza (kàllas), in bontà (àgatha), in sapienza (sòphia) e secondo giustizia (àcsia).

     Spero – da alfabetizzatore – che questa crescita (questo Natale di studio) sia potuta  avvenire, almeno un po’, per tutte le studentesse e gli studenti che, in questo quarto di secolo, hanno viaggiato nei Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

    Dopo le vacanze il viaggio continua, oltre il quarto di secolo, sulla strada che conduce verso le parole e le idee della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

    La Scuola è qui: buon Natale di studio a tutte e a tutti voi...

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 19, 2008