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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È LA DISPUTA TRA LE CORRENTI PLATONICHE E LE “SETTE” ARISTOTELICHE ...

Lezione N.: 
5

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele         5-6-7  novembre 2008

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È LA DISPUTA TRA LE CORRENTI PLATONICHE E LE “SETTE” ARISTOTELICHE ...

     Tre personaggi (tre importanti apparati letterari) Socrate, Platone e Aristotele caratterizzano il Percorso di studio che abbiamo intrapreso partendo, cinque settimane fa, da quella che è stata chiamata la via del rispetto della legge e che abbiamo individuato sull’Areopago di Atene. Abbiamo cominciato a capire che Socrate (morto nel 399 a.C.), Platone (morto nel 347 a.C.) e Aristotele (morto nel 322 a.C.) sono anche tre significativi indicatori culturali che, all’inizio del XVI secolo, del 1500, si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità culturale di queste figure si manifesta soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene che Raffaello comincia a dipingere – su mandato di papa Giulio II – nel 1508. Per questo motivo – come sappiamo – il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade. La scorsa settimana, viaggiando sulla corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco, abbiamo fatto la conoscenza con i componenti più significativi dell’Accademia Platonica Fiorentina: Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Ci siamo avvicinati a questi personaggi perché, come sappiamo, le loro opere più significative – la Teologia platonica di Marsilio Ficino e l’Orazione sulla dignità della Persona di Giovanni Pico della Mirandola – le abbiamo viste aperte sul tavolo dell’ufficio di Giulio II. L’incontro con questi personaggi e con le loro opere ci hanno fatto capire che La Scuola di Atene di Raffaello è un grande quadro di rappresentanza che riporta le più importanti posizioni ideologiche del momento, del significativo periodo tra l’Umanesimo e il Rinascimento. Abbiamo detto che è piuttosto sconvolgente il fatto che, al centro di questo celebre affresco, le figure di Platone e di Aristotele compaiano a braccetto sotto il medesimo arco, ed è poi sconcertante che questa immagine – che è negli occhi di tutte le osservatrici e gli osservatori (quasi sempre ignari di ciò che stanno guardando) – l’abbia voluta un papa. Perché – ci siamo chiesti – è sconvolgente il fatto che ne La Scuola di Atene Platone e Aristotele stiano fianco a fianco al centro dell’affresco?

     Dobbiamo sapere che, dalla metà del 1400 fino alla fine del 1500, all’interno del mondo della cultura avviene un’epocale e straordinaria disputa intellettuale che produce Pensiero perché stimola un grande investimento in intelligenza: uno scontro complesso, fatto di continue sovrapposizioni. Abbiamo anche detto, alla fine dell’itinerario della scorsa settimana, che si tratta di un argomento difficile da descrivere e da inquadrare didatticamente.

     Questa sera cercheremo, comunque, di acquisire una serie di elementi necessari per il proseguimento del nostro viaggio e utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Le protagoniste del grande e aspro dibattito intellettuale in corso per tutto il periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento sono due correnti di pensiero: la corrente neoplatonica e quella aristotelica. Ribadiamo che l’influsso della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele sull’Umanesimo e sul Rinascimento è fondamentale; è quindi utile e necessario studiare il pensiero di questi personaggi, contrariamente noi dell’Umanesimo e del Rinascimento avremmo solo un’immagine superficiale.

     Sapete qual è il bello dello scontro epocale tra Platonici e Aristotelici? Il bello dello scontro epocale tra Platonici e Aristotelici è che, oltre al contrasto tra le due correnti, assistiamo anche alla disputa interna ai due apparati. Infatti si formano tre correnti platoniche.

     La prima corrente platonica è quella mistica, di carattere mitico e religioso, i cui esponenti di spicco sono i greci Gemisto Pletone e Giovanni Bessarione (entrambi li abbiamo già – seppur brevemente – incontrati in occasione del Concilio di Firenze del 1439), i quali sono fermamente schierati contro la filosofia di Aristotele. Questa corrente mistica mette la religione al centro del suo interesse e vuole spiegare la rivelazione cristiana attraverso la filosofia del Mondo delle idee di Platone. Sappiamo – ma lo studieremo meglio a suo tempo – che Platone ha teorizzato l’esistenza di un mondo ideale nel quale sono conservati gli stampi di tutte le cose: questo mondo ideale, che Platone chiama Iperuranio, è il vero mondo, è il mondo reale, mentre il mondo delle cose, il mondo della materia, è solo un’imitazione della realtà. I platonici mistici identificano l’Iperuranio platonico con il Paradiso cristiano e per questa concezione Platone viene considerato alla stregua di un profeta, e viene divinizzato.

     La seconda corrente platonica è quella politica, di carattere filologico e antropologico, i cui esponenti di spicco sono Francesco Petrarca e i così detti Uomini nuovi, gli Umanisti, come Giovanni Boccaccio, Poggio Bracciolini, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla. Li incontreremo a suo tempo e studieremo il pensiero di questi personaggi che non passano inosservati: per ora collochiamoli sulla scena. Costoro sono tutti intellettuali che si riconoscono nelle idee di Platone ma considerano Aristotele il supporto culturale fondamentale per studiare il sistema di Platone. A questo proposito gli esponenti della corrente platonica cosiddetta politica danno un forte impulso allo sviluppo degli studi filologici (la conoscenza dei Classici greci e latini) e antropologici (la conoscenza delle varie culture umane) in modo da collocare al centro del loro interesse l’Uomo (con la U maiuscola e al di là del genere) come soggetto capace di costruire le virtù mediante l’intelligenza: le virtù – teorizzate da Platone e materializzate da Aristotele – che devono servire per governare bene la città dell’Uomo.

     La terza corrente platonica è detta conciliativa e tende ad armonizzare la mistica con la politica, gli esponenti di questa corrente li conosciamo già sono Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Questa corrente fa una scelta di carattere ancora più accentuatamente filologico (lo studio delle lingue: l’ebraico, l’arabo, il greco, il latino per poter leggere direttamente i grandi apparati letterari) e una scelta di carattere culturale dove la filosofia di Platone fornisce i contenuti (noi li studieremo) e il sistema di Aristotele fornisce gli strumenti, le forme (e noi le studieremo) per costruire nuove sintesi: queste sintesi le abbiamo studiate la scorsa settimana incontrando Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Giovanni Pico della Mirandola progetta una grande Conferenza internazionale scrivendo un’introduzione di Novecento tesi… 

Se tu potessi avere la possibilità di organizzare una grande Conferenza delle persone sagge di tutto il mondo: quale tema porresti al centro dell’attenzione?

Scrivi, a questo proposito, una tesi introduttiva: bastano quattro righe…

     Gli Aristotelici invece non sono interessati né al mito, né alla mistica, né alla religione ma piuttosto ai problemi della ragione umana e della razionalità. Gli Aristotelici sono attratti dallo studio della natura, sono interessati a stabilire i principi di una morale laica nella quale rientrino anche i valori dati dalla Rivelazione cristiana. Nelle Università europee, in questo periodo, l’egemonia del pensiero di Aristotele è indiscussa soprattutto a Bologna e a Padova. Ma anche gli Aristotelici si presentano divisi in due famose correnti chiamate sette perché si presentano come confraternite chiuse in se stesse. Le due correnti, o sette, aristoteliche si formano attorno ad un presupposto culturale cioè intorno al commento delle opere di Aristotele da parte di due importanti personaggi, di due indicatori intellettuali, che abbiamo già studiato in altri Percorsi negli anni precedenti.

     La prima corrente, o setta, aristotelica viene chiamata Averroistica e si costituisce, nel 1472, a Padova, all’interno dell’Università, quando viene pubblicata la traduzione latina dell’opera del filosofo arabo-iberico Abū’l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad Ibn Rušd, detto Averroè. Nei suoi Commentari Averroè ha raccolto, ha tradotto e ha commentato le opere di Aristotele: per questo motivo la prima corrente, o setta, aristotelica si chiama Averroistica. Averroè (1126-1198) è uno dei più grandi pensatori della storia della cultura. Averroè è originario di Cordova, una bellissima città dell’Andalusia mussulmana, che molte e molti di voi avranno visitato: fate una visita a Cordova utilizzando una guida della Spagna. Averroè appartiene a una famiglia importante – il nonno e il padre sono stati giudici in Cordova – e Averroè è a sua volta un giurista, un filosofo, un teologo e soprattutto un medico. Ma la sua fama di studioso ha attraversato i secoli per la memorabile impresa culturale, ricordata anche da Dante Alighieri nel IV canto dell’Inferno della Commedia: Averroè ha eseguito il gran commento delle opere di Aristotele, in particolare il Tafsir ma ba’d at-Tabi’at, il Grande commento alla Metafisica di Aristotele, redatto nel 1192. Se Aristotele, il maestro di color che sanno (così lo chiama Dante), è venuto al mondo per insegnare – scrive Averroè – al genere umano tutto ciò che si può conoscere, questo significa che ogni persona deve tentare la via della conoscenza. Commentare le opere di Aristotele è un’impresa difficilissima tanto per la complessità della materia quanto per la difficoltà delle lingue (tradurre il greco in arabo) e anche per i divieti imposti dagli ortodossi fondamentalisti (sia mussulmani che cristiani). Ma Averroè lancia la sua sfida culturale e vuole dimostrare che l’opera di Aristotele, il quale cerca la verità dell’essere e le sue cause, si concilia con la verità che Allah ha dato agli Uomini nel Corano. Il ragionamento fondato sulla dimostrazione logica – scrive Averroè – non porta affatto a contraddire gli insegnamenti della Legge divina, infatti la verità non potrebbe essere contraria alla verità, ma si accorda con essa: dunque la filosofia greca non solo non è in conflitto, ma si integra anche con il Corano ­e con le Sacre Scritture in genere (con la Bibbia e con i Vangeli). Averroè si impegna a dimostrare la conciliabilità della ragione con la religione, della filosofia con la Legge, spronando gli intellettuali, tutti gli intellettuali (mussulmani, ebrei, cristiani e laici) a cercare la verità. La ricerca è un impegno obbligatorio – scrive – per coloro che hanno i mezzi intellettuali per poterlo fare. Nell’opera Tahafut at-Tahafut che significa Incoerenza dell’incoerenza Averroè polemizza con chi, nella cultura dell’Islam, condanna la ricerca filosofica. L’aver utilizzato e conciliato la filosofia greca con gli insegnamenti del Corano procura ad Averroè molte condanne da parte degli ortodossi islamici, e l’aver formulato la tesi dell’eternità del mondo, dell’anima mortale, dell’unità della sostanza divina (negando il concetto della Trinità) gli vale l’accusa di essere empio da parte delle gerarchie cristiane. Averroè è un personaggio scomodo perché cerca di unire e non di dividere, e quando muore le sue opere vengono bruciate ma non vanno perdute: ci sono pervenute, ricopiate in caratteri ebraici dai rabbini di Spagna, e tradotte in latino da molti intellettuali cristiani: perché il pensiero ha le ali – scrive Averroè – e nessuno può arrestare il suo volo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In cineteca si può trovare un film (che molte e molti di voi hanno visto, ma si rivede sempre volentieri) del regista egiziano Yousseh Chahine che s’intitola Il destino (1998): è un film molto spettacolare sulla vita e l’opera di Averroè, un manifesto a favore del dialogo tra le diverse culture e contro chi vuole “monopolizzare Dio”: buona visione…

Cogliamo l’occasione per commemorare Yousseh Chahine che è morto alla fine di luglio: aveva appena finito di girare il suo ultimo film

     Il pensiero di Averroè ha influenzato positivamente molti pensatori ebrei, cristiani e laici: anche Dante Alighieri lo conosce, lo ammira e lo cita nel Canto IV dell’Inferno della Commedia, dove descrive il Limbo, nel quale ci sono le anime dei grandi saggi, non cristiani, non battezzati, ma comunque salvati, tutti riuniti intorno ad Aristotele: il maestro di color che sanno.

     Leggiamo questi pochi versi, ma significativi:

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Commedia - Inferno  (Canto IV)

Poi che inalzai un poco più le ciglia

Vidi il maestro di color che sanno

seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor gli fanno:

quivi vid’io Socrate e Platone,

che innanzi agli altri più presso gli stanno;

Democrito, che il mondo a caso pone,

Diogenès, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;

e vidi il buon accoglitor del quale,

Discoride dico; e vidi Orfeo,

Tullio e Lino e Seneca mortale,

Euclide geomètra e Tolomeo,

Ippocrate, Avicenna e Galieno,

Averroè che il gran commento feo.

     Dante Alighieri conosce e ammira Averroè e lo cita nel Canto IV dell’Inferno della Commedia proprio per ricordare il gran commento che Averroè ha fatto delle opere di Aristotele.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A questo proposito potete cogliere l’occasione – visto che tutte e tutti noi abbiamo in casa una Divina Commedia – per leggere o per rileggere il Canto IV dell’Inferno: il testo della Commedia è patrimonio universale perché Dante è capace di camminare insieme a noi su tutti i Percorsi, tanto che trattino di cose antiche quanto di cose recenti…

     Poi ancora è doveroso consigliare la lettura o la rilettura di un testo (formato da poche pagine) dello scrittore Jorge Luis Borges (1899-1986) che s’intitola La ricerca di Averroè, collocato nel libro intitolato L’Aleph:  lo si trova facilmente in biblioteca. Per propiziarne la lettura, leggiamo solo un frammento di questo racconto, ma basta un solo frammento per essere trasportati nella affascinante città di Cordova, ospiti, in casa di Averroè.

LEGERE MULTUM….

Jorge Luis Borges, La ricerca di  Averroè in L’Aleph  (1949)

Scriveva con lenta sicurezza, da destra a sinistra; l’esercizio di formare sillogismi e di concatenare vasti paragrafi non gli impediva di sentire con benessere la fresca e spaziosa casa che lo circondava.

Il meriggio risuonava del roco tubare di amorose colombe; da un patio invisibile si levava il rumore di una fontana; qualcosa nella carne di Averroè, i cui antenati venivano dai deserti dell’Arabia, era grato al fluire dell’acqua. In basso erano i giardini, l’orto; più in basso ancora il Gadalquivir e l’amata città di Cordova e intorno, anche questo sentiva Averroè, si estendeva fino al confine la terra di Spagna, nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra starvi in modo sostanziale ed eterno.

     Riprendiamo il filo del nostro itinerario: la prima corrente, o setta, aristotelica viene chiamata Averroistica e si costituisce, nel 1472, a Padova, all’interno dell’Università, e utilizza le idee elaborate da Averroè nel suo Grande commento alle opere di Aristotele. Gli Aristotelici Averroisti dell’Università di Padova sviluppano soprattutto l’idea fondamentale elaborata da Averroè: siccome il primo dono fatto da Dio all’Essere umano è la ragione questo significa che, attraverso la ragione, ogni persona può dar vita alla propria anima e la può curare attraverso la cultura, attraverso l’investimento in intelligenza.

     Ed ecco il primo punto nodale della disputa tra Platonici ed Aristotelici: per i Platonici l’anima è creata da Dio, è spirituale, e viene insufflata nell’Essere umano, per gli Aristotelici l’anima è una creazione del pensiero umano che si riflette in Dio, è un oggetto intellettuale. I pensieri elaborati dagli Esseri umani attraverso lo studio, che è l’attività fondamentale utile e necessaria per curare e per creare la propria anima, vanno a costituire – così lo chiama Averroè – un Intelletto universale- Questa idea dell’Intelletto universale ha stimolato particolarmente gli intellettuali Aristotelici Averroisti e, ancora oggi, affascina: il risultato della ricerca, il prodotto dell’Intelligenza umana, rimane sospeso come patrimonio dell’Umanità.

     Averroè – sulla scia del pensiero di Aristotele – capovolge il concetto del Mondo delle idee di Platone: in Platone l’Intelligenza scende dall’alto verso il basso, in Aristotele sale dal basso verso l’alto e questo è un secondo motivo di scontro nella disputa tra Platonici e Aristotelici.

     L’Intelletto universale si è costituito come il grande deposito della Storia del Pensiero che l’Intelletto umano continua ad arricchire e a cui l’Intelletto umano attinge per sviluppare nuova ricerca. L’Intelletto universale, in quanto patrimonio culturale e intellettuale dell’Umanità, – scrive Averroè e lo ribadiscono gli Aristotelici Averroisti dell’Università di Padova – è immortale e trascendente (ha gli stessi attributi di Dio), ed è attraverso questo patrimonio che la persona entra in contatto con Dio. L’anima umana, l’intelletto umano – scrive Averroè e lo ribadiscono gli Aristotelici Averroisti dell’Università di Padova – muore col corpo perché l’anima è mortale e quando si spegne la ragione si spegne anche l’anima: di immortale rimane il Pensiero che l’Essere umano è stato capace di elaborare e ne consegue che è grazie allo studio e alla scienza che l’Intelletto umano può rispecchiarsi in Dio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tu referisci pensare che l'anima sia un oggetto spirituale e immortale oppure che sia un oggetto intellettuale e mortale?  Basta una riga per rispondere… 

Averroè ha scritto: «Il pensiero ha le ali, e nessuno può arrestare il suo volo»… Verso che cosa o verso chi vola, in questo momento, il tuo pensiero? 

Scrivi quattro righe in proposito

     Prima che ognuna e ognuno di voi lo faccia per conto proprio, facciamolo anche insieme questo esercizio: ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, il nostro pensiero vola di nuovo verso Dante Alighieri, perché il nostro poeta all’inizio del 1300 – siamo già in pieno Umanesimo – sebbene  debba sostenere l’immortalità dell’anima, è fortemente affascinato da questa idea dell’Intelletto universale, per lui è motivo d’ispirazione. Che cos’è la Commedia di Dante? La Commedia di Dante è soprattutto uno straordinario deposito di intelligenza a cui attingere; funziona come un itinerario di studio che favorisce l’avvicinarsi a Dio: la contaminazione culturale di Averroè è completamente presente in Dante e gli Aristotelici Averroisti dell’Università di Padova lo citano spesso per sostenere le loro tesi. Dante – e molti Umanisti – è stato decisamente spronato dallo studio del pensiero e dell’opera di Averroè e, difatti, non può che volerlo (insieme all’altro grande filosofo mussulmano Avicenna) sulla strada del Paradiso. Il Limbo di Dante – descritto nel Canto IV dell’Inferno di cui abbiamo già consigliato la lettura o la rilettura – è come l’immagine, è come la figura dell’Intelletto universale di Averroè: un grande contenitore di intelligenza e di saggezza. Il Limbo di Dante si presenta come se fosse il modello di un grande piano di studio di Storia del Pensiero Umano: sono anche lì le radici della nostra esperienza didattica, e sono lì le radici del ruolo universale che la Scuola deve avere. Il Limbo descritto da Dante nel Canto IV dell’Inferno ha la struttura di una Scuola, e il poeta lo scrive in un verso lapidario: Così vidi adunar la bella scuola, di quei signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola.(sta parlando di voi!). La Chiesa ha ultimamente (dopo un lungo dibattito che è iniziato, nel 1962, con il Concilio Ecumenico Vaticano II) rimosso il Limbo dalla sua dottrina e lo ha giustamente restituito, con una oculata scelta averroistica e dantesca, al mondo della cultura, al mondo dell’al di qua.

     Per concludere la nostra incursione nel campo della corrente Aristotelica Averroistica leggiamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – una pagina della bella prosa di Averroè tratta dal Grande commento alla Fisica di Aristotele dove incontriamo due temi che approfondiremo a suo tempo:

LEGERE MULTUM….

Averroè, Grande commento alla Fisica di Aristotele  Libro VIII  (1198)

La Fisica di Aristotele si conclude nell’ottavo libro con la dimostrazione dell’esistenza di un principio primo del movimento, cioè di un Motore immobile, che muove senza essere mosso.

La struttura argomentativa del libro pone in primo luogo che il movimento è eterno, in quanto esso non ha né inizio né fine; quindi dall’eternità del tempo e del movimento Aristotele deduce l’eternità del mondo. Già nel libro precedente, il settimo della Fisica, Aristotele aveva affermato che tutto ciò che è in movimento è mosso da altro, con questa asserzione si dimostra che anche il movimento degli esseri viventi, che sembra movimento del tutto autonomo, in realtà anch’esso è mosso da altro, e quindi richiede un principio ulteriore del movimento.  Ma quest’ultimo principio, a sua volta, deve essere infine non mosso, altrimenti l’intero movimento rimarrebbe senza alcuna giustificazione.  Dunque in questa catena che congiunge motore e mosso, si deve infine pervenire a un principio primo e assoluto del movimento, che deve essere eterno e non mosso.  Inoltre, ciò che è mosso da questo principio eterno, deve essere eternamente in movimento, in quanto effetto di una causa eterna.

Ma a questi requisiti un solo movimento risponde, cioè il moto locale circolare, infatti tra i diversi moti locali, soltanto il moto circolare ha il requisito dell’eternità, dell’uniformità e dell’identità.  Dunque il movimento locale circolare è il primo di tutti i movimenti.  Ma questo moto circolare eterno, richiede un principio a sua volta eterno, a sua volta non mosso e incorporeo. Quindi ci deve essere un primo Motore immobile, collocato nella sfera più esterna dell’universo.

Perciò dobbiamo commentare che la Fisica si conclude con il rinvenimento di un principio di carattere metafisico, analogamente a quanto avviene nel XII libro della Metafisica.  Un principio primo che è eterno, immobile, incorporeo, cioè una realtà che trascende la totalità del divenire, anche se a questo è strettamente legato, in quanto sua condizione incondizionata.

     Lasciamo aperto il discorso – presentato con la bella prosa, chiara e precisa, di Averroè (la lingua araba medioevale coltivata in Andalusia si presta molto alla speculazione filosofica) – perché fra qualche mese, quando saremo in quella parte del territorio dell’Ellade dove incontreremo Aristotele, saggeremo il concetto del movimentoche induce a pensare all’eternità (e se il mondo è eterno è difficile pensare che qualcuno lo abbia creato) e osserveremo da vicino anche il famoso Motore immobile(l’unico motore che non inquina e che non consuma nulla).

     Della prima corrente, o setta, Aristotelica detta Averroistica, che si costituisce e sviluppa il suo pensiero presso l’Università di Padova, abbiamo studiato gli elementi portanti, ma c’è una seconda corrente, altrettanto importante, che ha una diffusione maggiore.

     Nella maggior parte delle Università europee va per la maggiore il commento alle opere di Aristotele di un altro importante personaggio: Alessandro di Afrodisia. Di lui conosciamo quasi nulla: è uno di quei personaggi importanti che, sebbene misteriosi, hanno un posto significativo nella Storia del Pensiero Umano. Alessandro di Afrodisia è vissuto tra il II e III secolo ed è stato il (mitico) direttore della Scuola cosiddetta Peripatetica (la Scuola che aveva fondato Aristotele e dove le studentesse e gli studenti studiavano passeggiando sotto un portico), ma questo è un dato sul quale non ci sono prove certe, di sicuro sappiamo che Alessandro di Afrodisia è stato il primo commentatore, il primo esegeta, delle opere di Aristotele e per questo fatto ha lasciato il segno nella Storia della cultura. Altro elemento certo e molto interessante è che Alessandro è nato ed è vissuto in una città importante, Afrodisia, conosciuta anche con il nome di Afrodisiade di Caria.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La città di Afrodisia o di Afrodisiade di Caria, naturalmente, merita una visita: si trova in Asia Minore nei pressi della cittadina turca di Gëyre e per raggiungerla potete utilizzare l’enciclopedia o una guida della Turchia oppure la rete La città di Afrodisia o di Afrodisiade di Caria è famosa per la Scuola d’Arte dove dal I al IV secolo si sono formati molti bravi scultori   Di Afrodisia o di Afrodisiade di Caria rimangono notevoli resti archeologici, tra cui due teatri, l’agorà, le terme, il tempio ionico di Artemide: fate una visita a questa bella città, buon viaggio

     Ebbene, riprendiamo il filo.

     Nel 1495 viene tradotta in latino l’opera di Aristotele intitolata De Anima (L’Anima) commentata da Alessandro di Afrodisia. Intorno a questa operazione culturale si consolida la corrente, o la setta, Aristotelica detta Alessandrina. Diciamo subito che le due anime dell’Aristotelismo (la tendenza Averroistica e quella Alessandrina) non si distinguono così nettamente, non sono così bene identificabili: è facile scantonare dall’una all’altra perché entrambe le correnti del cosiddetto Aristotelismo Umanistico non hanno un interesse specifico per la Religione (per il problema di Dio e della Fede), entrambe sono piuttosto interessate alla Metafisica (al tema dell’esigenza di conoscere), alla Psicologia (al tema dell’Anima) e all’Antropologia (al tema della persona dotata di Ragione).

    Quali temi l’Aristotelismo Umanistico mette sul tappeto e come si comportano le due tendenze di fronte a questi temi? Sono tre i grandi temi che interessano all’Aristotelismo Umanistico: l’Anima (Psiché), l’Ordine del Mondo (Kosmos) e la Ragione (Logos).

     Per quanto riguarda il primo tema, il tema dell’Anima, la domanda che gli Aristotelici si pongono è d’obbligo: l’Anima, in greco Psichè, è mortale o immortale? Aristotele, nelle sue opere, non è stato chiaro su questo tema, ha lasciato aperto il problema, e quindi è interpretabile. La tendenza Averroistica sostiene che l’Anima si identifica con l’intelletto individuale, che Aristotele chiama passivo, e di conseguenza: è mortale. Aristotele definisce immortale l’elemento che chiama l’intelletto universale o attivo, che corrisponde al grande bagaglio culturale che, con i loro pensieri, tutti gli Esseri umani contribuiscono a costruire: quello che Averroè chiama l’Intelletto universale. L’Anima del singolo è destinata a morire, invece l’Anima del Mondo, comune a tutti gli Esseri umani, è immortale. La tendenza Alessandrina non fa distinzioni e sostiene che tanto l’Anima individuale quanto quella universale (del Mondo) è mortale. Il grande bagaglio culturale, essendo di natura intellettuale, è legato alla memoria, è soggetto al ricordo, e quindi c’è, esiste, solo se non lo si oblia, se non lo si dimentica: se si dimentica, il patrimonio della cultura universale, non c’è, e se si perde la memoria di ciò che l’intelletto ha prodotto, l’Anima del Mondo muore.

     Per quanto riguarda il secondo tema, il tema dell’Ordine del Mondo, gli Aristotelici di entrambe le tendenze, tanto di Averroisti quanto gli Alessandrini, concordano sui concetti principali.  Pensano – come pensa Aristotele – che il Mondo si regga su principi propri e non ci siano interventi miracolosi di Dio, pensano che non ci sia una Provvidenza: ritengono che il miracolo rientri nelle possibilità della Natura e che spesso la Natura faccia miracoli perché contiene un suo ordine provvidenziale, dettato dalla necessità.

     Per quanto riguarda il terzo tema, il tema della Ragione, gli Aristotelici credono che la Ragione debba seguire, nella ricerca della verità, la sua via, senza che vi siano interferenze da parte della Fede. A questo proposito la tendenza Averroistica ammette la cosiddetta dottrina della doppia verità. Se la verità raggiunta con la ragione non coincide con quella proposta dalla fede, il credente si atterrà alla fede, quindi ufficialmente prevale la fede. Ma appare evidente che questo è un accorgimento tattico per evitare la sorveglianza ecclesiastica (islamica o cattolica che sia), e per garantire autonomia alla Ragione. Per la tendenza Alessandrina, invece, fede e ragione devono rimanere separate e i due campi devono rimanere completamente divisi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale dei tre temi di cui si occupa l’Aristotelismo Umanistico prenderesti in considerazione per primo: la cura dell’Anima, la forma da dare al Mondo, lo spazio di autonomia della Ragione?… Basta una parola per esprimersi, scrivila

     L’esponente più significativo dell’Aristotelismo Umanistico è Pietro Pomponazzi. Noi sappiamo che una sua opera è aperta sul tavolo dell’ufficio di papa Giulio II. Chi è Pietro Pomponazzi? Pietro Pomponazzi è un medico: è nato a Mantova nel 1462 e ha studiato a Padova e, proprio all’Università di Padova, dal 1487, comincia ad insegnare filosofia. L’Università di Padova viene chiusa nel 1509 in seguito alla guerra tra il papa, Venezia, la Francia e la Spagna (abbiamo ricordato questo avvenimento studiando il personaggio di Giulio II). In seguito alla chiusura dell’Università di Padova Pietro Pomponazzi si trasferisce a Ferrara e poi a Bologna, dove con grande impegno scrive, lavora, studia, insegna. Nel 1524 Pietro Pomponazzi muore suicida (anche lui come Cesare Pavese era attratto dai sacrifici umani), e nel suo messaggio di addio scrive: non fatene una questione di straordinaria importanza, è solo un piccolo dettaglio ideologico (Pavese ha scritto: non fate troppi pettegolezzi). Il pensiero di Pietro Pomponazzi ruota attorno ad alcuni elementi fondamentali.

     Il primo elemento è che Pietro Pomponazzi è uno studioso del De Anima di Aristotele, e lo traduce e lo commenta. L’Anima umana – spiega Pietro Pomponazzi – non può esistere né agire senza il corpo perché l’attività dell’Anima, che è un’attività intellettiva, ha bisogno di immagini, di icone, per conoscere. Ma le immagini sono fornite dai sensi, dall’attività del corpo e quindi è evidente che una volta spenti i sensi, una volta spente le immagini, si spegne anche l’Anima. Ne consegue che l’Anima non è immortale. Ma proprio per questo l’Anima è un valore e ha valore: sono proprio le cose deperibili – spiega Pietro Pomponazzi – che ci stanno più a cuore, sono proprio le cose mortali quelle che curiamo di più, di cui abbiamo più cura, a cui dedichiamo più studio. Aristotele scrive nel De Anima – e Pomponazzi lo rimarca nel suo Commento – che una categoria, cioè una cosa definita (come la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo, il tempo, l’azione, la passione, lo stato, il possesso), è comunque un pozzo di assoluto, un territorio di ricerca dell’Assoluto. Così è per l’Anima intellettuale: proprio perché non è immortale è un territorio di ricerca dell’Assoluto.

     Questo ragionamento – scrive Pietro Pomponazzi – produce degli effetti sul piano della morale e dell’etica, infatti il premio della virtù, non collegato all’immortalità dell’Anima, è la virtù stessa e rende le persone felici, realizzate. Così come il castigo del vizio è il vizio stesso e rende gli individui infelici e non realizzati. La Morale – afferma Pietro Pomponazzi – è una componente autonoma rispetto alla Rivelazione divina, rispetto alla Storia della salvezza. Una vita fondata sull’Ethos (coerente con i principi morali) si uniforma naturalmente ai valori della Rivelazione, ai valori della Charis (dell’amore solidale), e questo indipendentemente dall’immortalità e dalla salvezza dell’Anima. Infatti – spiega Pietro Pomponazzi – se facciamo un’esegesi dell’Antico Testamento e della Letteratura dei Vangeli leggiamo chiaramente che il kerigma, cioè il nocciolo dell’annuncio messianico, il punto centrale del messaggio cristiano, proclama la resurrezione della carne, non dell’Anima: per constatarlo, basta leggere – spiega Pietro Pomponazzi – la Prima Lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso, i versetti dal 23 al 26 del capitolo 11 e i capitoli 12 e 13.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tutte voi e tutti voi possedete una Bibbia e quindi potete leggere – su indicazione di Pietro Pomponazzi – questi brani…

     Come sia avvenuta la mediazione culturale tra la risurrezione della carne (secondo la tradizione della Letteratura dei Vangeli) e la risurrezione dell’Anima (secondo la tradizione orfica) è un tema che dovremo studiare strada facendo.

     Pietro Pomponazzi ci indica una pagina da leggere tratta dal Commento al “De Anima” di Aristotele di Alessandro di Afrodisia, e noi di buon grado seguiamo il suo consiglio per capire tutta la complessità di questo tema.

LEGERE MULTUM….

Alessandro di Afrodisia, Commento al De Anima di Aristotele Libro I (II-III sec.)

In questo magistrale libro Sull’Anima il Maestro (Aristotele) tesse l’elogio della psicologia, del suo valore e della sua utilità. Due sono i problemi fondamentali analizzati in questo trattato: come è fatta l’Anima e quali sono le sue funzioni.

Il Maestro non nasconde le difficoltà nel reperimento di un metodo per la definizione dell’Anima e dei principi della psicologia.

Egli cataloga otto aporie (contrapposizioni) sulla definizione di Anima e sulle sue facoltà e funzioni: l’Anima è sostanza o accidente (attributo), è atto o potenza, è divisibile in parti o è priva di parti, la sua definizione è univoca o equivoca, deve avere la precedenza lo studio dell’Anima intera o quello delle sue parti?

Quali sono le facoltà dell’Anima distinte tra loro? Deve precedere l’esame di quello che l’Anima è o di quello che l’anima sa fare? Deve precedere lo studio dell’oggetto che l’Anima è o degli oggetti che l’Anima possiede?

Oltre le aporie (contrapposizioni) altri problemi pone il Maestro: la psicologia è da studiare con il metodo deduttivo (dal particolare all’universale) o con il metodo induttivo (dall’universale al particolare)?

E i pathemi (i sentimenti) dell’Anima sono tutti comuni anche al corpo o esiste un sentimento che è proprio della sola Anima? Comunque quali sono i sentimenti certamente comuni tra l’Anima e il corpo? Di certo possiamo dire che c’è un’Anima naturalistica tutta legata al corpo, una dialettica in continuo dialogo con il corpo e una intellettuale indipendente dal corpo. 

Di sicuro le discipline che studiano l’Anima sono le discipline che si occupano di studiare le forme: la dialettica, la tecnica, la matematica, la fisica e la filosofia-prima o metafisica.

Dopo aver enumerato i quesiti e tracciato il percorso del metodo, il Maestro inizia la sua lezione sulla realtà certa, quella dell’esistenza di una facoltà dell’Anima indipendente dal corpo: l’intelletto. È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima.

     Pietro Pomponazzi nello scrivere il Commento al Commento al “De Anima” di Aristotele di Alessandro di Afrodisia utilizza questa pagina come introduzione per portarci nel cuore del problema: ecco su quale pagina è aperto il libro di Pomponazzi che abbiamo visto sul tavolo nell’ufficio di Giulio II. «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima»: questa sintetica affermazione che – sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – Alessandro di Afrodisia conia e Pietro Pomponazzi riprende è come se fosse un manifesto che, pur mantenendo acceso il dibattito sulle tre questioni fondamentali, unisce in un unico intento le correnti Platoniche (la mistica, la politica e la conciliativa) e le sette Aristoteliche (l’averroistica e l’alessandrina). Tutte le intellettuali (perché ci sono anche le donne sebbene non compaiano mai ufficialmente) e tutti gli intellettuali Platonici e Aristotelici concordano nell’affermare che è necessario investire nell’intelligenza e nella memoria se si vuole che la persona abbia un’Anima, se si auspica che il mondo abbia un’Anima e se si desidera che la ragione abbia un’Anima. L’Anima – indipendentemente da tutti gli interrogativi che, su questo tema, si pone e pone a noi Alessandro di Afrodisia nella pagina che abbiamo letto – è considerata, tanto dai Platonici (mistici, politici e conciliativi) quanto dagli Aristotelici (averroisti e alessandrini), il contenitore del Bello, del Buono e del Giusto.

     «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima»: questa proposizione, oggi, va imparata a memoria come una presa d’atto per una strenua difesa. Viviamo (a livello planetario) in un sistema telecratico che tiene i suoi strumenti sempre accesi e che tende, per motivi di potere, a far spegnere l’attività dell’intelletto (e quindi anche l’Anima) sostituendola con un crogiuolo di sensazioni e di emozioni amplificate artificialmente e con una ridda di messaggi che invadono tutti i reali spazi di riflessione impedendo di coltivare l’intelligenza, di preservare la memoria, di praticare lo studio.

     «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima»: imparate a mente questa proposizione in modo che vi serva da incentivo per dirigervi verso il libro che state leggendo (quattro pagine al giorno) e vi serva da motivazione per sedervi dinnanzi al quaderno sul quale state scrivendo (quattro righe al giorno): non ci vuole molto a porre un’alternativa allo spegnimento dell’Anima intellettuale (la bontà) in modo da preservare l’Anima del Mondo (la bellezza) e da garantire un’Anima alla ragione (la giustizia).

     «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima»: se questa sera avessimo imparato anche solo questa proposizione credo che sia valsa la pena essere qui a Scuola...

     Perché (e la domanda è retorica) questa sera ci siamo presi la briga di percorrere un itinerario che passa in mezzo alla disputa tra le correnti del Platonismo e dell’Aristotelismo Umanistico, mettendo in gioco argomenti complicati e appena accennati? Ci sono una serie di questioni significative da imparare in questo itinerario: siamo passate, siamo passati da questo sentiero per tre motivi.

     Il primo motivo riguarda la ricognizione dei temi, difatti dobbiamo, in funzione del nostro Percorso e quindi in funzione della didattica della lettura e della scrittura, conoscere e capire i tre temi fondamentali che – sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – il Platonismo e l’Aristotelismo Umanistico hanno elaborato e ci hanno lasciato in eredità: il tema dell’Anima (la Psiché), il tema dell’Ordine del Mondo (il Kosmos) e il tema della Ragione (il Logos). Questi tre temi hanno dato linfa alla Storia del Pensiero Umano e ancora oggi sono, e dovrebbero maggiormente essere, al centro dell’attenzione. Questi tre temi fondamentali, Anima Mondo e Ragione, in sinergia tra loro, sono entrati nella Storia della Letteratura dell’età moderna e contemporanea per sollecitare le lettrici e i lettori a riflettere sul senso da dare all’esistenza umana.      Prima di dire gli altri due motivi che ci hanno portato su questo sentiero – li diremo alla fine – cambiamo registro in funzione della didattica della lettura e della scrittura e incontriamo un personaggio sicuramente noto a tutte e a tutti noi. Questo personaggio è uno scrittore inglese che si chiama Daniel Defoe.

     Quando sentiamo nominare lo scrittore londinese Daniel Defoe (1659 o 1660 - 1731) il nostro pensiero corre subito a quell’isola deserta sulla quale, per sua fortuna, è naufragato Robinson Crusoe. Chi non conosce questo romanzo? Anche se la maggior parte degli Italiani non l’hanno letto, magari hanno visto i films tratti da questo capolavoro della Letteratura e credono di averlo letto, e di solito lo dichiarano anche nei questionari delle ricerche che vengono fatte sullo stato della lettura in Italia per cui i dati sui numeri delle lettrici e dei lettori (già di per sé preoccupanti) sono anche sovrastimati. Il personaggio di Robinson Crusoe ha un’origine reale, Defoe si rifà ad un episodio realmente accaduto e ad un marinaio sopravissuto ad un naufragio su un’isola deserta e poi salvato da una nave di passaggio.

     Perché Robinson si salva, in virtù di che cosa? Robinson si salva in relazione ai temi fondamentali che nell’itinerario di questa sera abbiamo messo in evidenza: è lo scrittore, naturalmente, che coltiva questi temi nella sua mente. Robinson sopravvive perché s’ingegna a mettere Ordine nel suo Mondo (a fare Kosmos), perché fa appello alla propria Ragione (si rifà al Logos) e si sforza di dare una risposta all’inospitalità (comunque salvifica) del luogo che lo accoglie coltivando la sua Anima (costruendosi una Psiché). Probabilmente il romanzo intitolato Robinson Crusoe (1719) merita di essere letto o riletto tenendo conto di questa chiave interpretativa. Questo non è solo un libro di avventure ma è soprattutto un romanzo di formazione nel quale emerge, in modo aristotelico, una significativa allegoria: è Adamo a creare, con la sua industria (il Logos) e la sua fantasia (la Psiché), il giardino dell’Eden (il Kosmos), e non viceversa.

     Ma questa sera vogliamo presentare un altro romanzo di Daniel Defoe, non meno importante, il quale contiene gli stessi temi che stiamo studiando e proprio per questo motivo risulta rilevante nella Storia del Pensiero Umano. Questo romanzo, uscito nel gennaio del 1722, ha uno di quei lunghi titoli, che usavano nel 1700, e che fanno da sommario, s’intitola: Le fortune e le sfortune della famosa Moll Flanders che nacque nella prigione di Newgate, e, durante una vita incessantemente variata di tre volte vent’anni, oltre alla sua infanzia, fu dodici anni prostituta, cinque volte sposata (una delle quali col suo proprio fratello), dodici anni ladra, otto deportata nella Virginia, e che finalmente diventò benestante, visse onesta e morì pentita, e ciò scrisse secondo le sue stesse memorie.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Oggi questo romanzo s’intitola semplicemente Moll Flanders : cercalo in biblioteca anche solo per leggerne qualche pagina…

     Come al solito Defoe vorrebbe far credere che questo testo è stato scritto nel 1683, cioè finge di pubblicare delle memorie autentiche. Defoe – che di professione fa il giornalista – coltiva il gusto della mistificazione perché vorrebbe rimanere fedele al realismo insito nella sua natura e vuol sempre far credere che la sua narrazione sia assolutamente autentica.

     Il romanzo Moll Flanders ha, del resto, come il Robinson Crusoe, un’origine reale. Defoe, nel suo romanzo, si riferisce alla vita di una celebre ladra, detta Moll la tagliaborse (1584-1659). Le avventure di Moll la tagliaborse, pubblicate nel 1662, avevano già suggerito la composizione di una serie di drammi popolari di grande successo.

     La storia narra che Moll Flanders è nata nella prigione di Newgate (che Defoe conosce bene, essendoci stato un anno e mezzo lui stesso), sua madre è una condannata a morte che s’è lasciata mettere incinta da un carceriere per scampare all’impiccagione. Moll vien rapita dagli zingari, poi viene accolta dalla carità pubblica e messa a imparare a cucire, in una specie di allevamento di serve, ed essendo particolarmente intelligente e graziosa attira su di sé l’attenzione di una ricca signora, che l’assume in casa. In questa casa ci sono anche due giovinetti: uno la seduce e l’altro la sposa. Rimasta vedova trova, per secondo marito, un mercante gentiluomo, che poi la abbandona per salvarsi dal creditori. Ritornata nuovamente libera Moll lascia credere di esser ricca per trovare più facilmente un terzo marito, e lo trova: costui è un proprietario di terre in Virginia e così i due si recano in America, dove Moll si scopre per suocera la sua stessa madre, che, ottenuta la grazia, era stata però deportata in Virginia. Suo marito è quindi il suo fratellastro e Moll finisce col lasciarlo senza svelargli il segreto della sua nascita, e torna in Inghilterra. A Bath, città galante, ha nuovi amori e si sposa una quarta volta: questo nuovo marito è, come lei stessa, un avventuriero e i due coniugi scoprono di essersi imbrogliati reciprocamente avendo ciascuno fatto credere all’altro di essere un ricco partito, ma prendono la cosa con spirito. L’avventuriero irlandese, però, dopo un po’ lascia libera Moll e diventa un bandito da strada. Il quinto marito è, invece, un brav’uomo e Moll non domanderebbe di meglio che di vivere onesta e tranquilla: ma rimane un’altra volta vedova. Moll non si è fatta una rendita per affrontare la vecchiaia e, ridotta in miseria, diventa a poco a poco un’abilissima ladra. Ma colta sul fatto dopo molti colpi fortunati, finisce in quella stessa prigione di Newgate dove era nata. Fra i compagni di prigionia ritrova anche il marito irlandese. Subisce il processo e viene condannata a morte, viene però graziata e deportata in Virginia con lui. Là ritrova un figlio, e può finalmente passare anni tranquilli, in riflessione. A settant’anni ritorna in Inghilterra, è sinceramente pentita dei suoi errori, e per dare Ordine al suo Mondo (il Kosmos) e per utilizzare a fin di bene la sua Ragione (il Logos) e per curarsi l’Anima (la Psiché), decide di scrivere le sue memorie: ecco le radici della terapia autobiografica di cui anche Daniel Defoe è cultore.

     Moll Flanders è una creatura sanguigna, poligama, ladra, prostituta, incestuosa, ma risulta e risalta come una figura edificante proprio perché sa mettere al centro i temi dell’Anima, del Mondo e della Ragione, i temi fondamentali per far riflettere le lettrici e i lettori sul significato dell’esistenza umana. Il romanzo Moll Flanders ha avuto un grande e comprensibile successo: ne sono stati fatti una miriade di riassunti che hanno molto incrementato l’attività dell’editoria popolare nell’Inghilterra settecentesca e ottocentesca. Noi lettrici e lettori italiani abbiamo la fortuna di potere leggere quest’opera nella traduzione di un grande scrittore, il quale ha cominciato a guadagnarsi da vivere traducendo le grandi opere della letteratura inglese e americana, questo scrittore si chiama Cesare Pavese, e noi così continuiamo a commemorarlo. La prima, e insuperata, traduzione in lingua italiana di Moll Flanders  la dobbiamo a Cesare Pavese.

     Ora noi leggiamo l’incipit, l’inizio di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Daniel Defoe, Moll Flanders  (1722)

Il mio vero nome è così noto negli archivi dei tribunali o nei registri della galera di Newgate e ci sono ancora in sospeso riguardo la mia condotta personale cose di una tale gravità che non si può pretendere che riporti qui il mio nome o la storia della mia famiglia; forse questi particolari si verranno a sapere meglio dopo la mia morte; per il momento non sarebbe davvero conveniente, anche se concedessero un’amnistia generale, pur senza eccezione di persone o di crimini. Basti dire che alcune delle mie compagne peggiori che non possono più farmi del male perché han lasciato questo mondo con la scala e la corda, come spesso pensavo sarebbe capitato anche a me, mi conoscevano col nome di Moll Flanders; lasciate dunque che passi sotto questo nome fintanto che non oserò confessare chi sono stata e insieme chi sono.

Mi hanno detto che in una delle nazioni nostre vicine – non so se in Francia o altrove – per ordine del re, quando un criminale è condannato a morte, alle galere o alla deportazione, se lascia dei bambini, poiché questi di solito rimangono senza sostegno dopo la confisca dei beni paterni, lo Stato se li prende immediatamente a carico e li mette in un ospizio chiamato Casa degli Orfani, dove vengono allevati, vestiti, nutriti, educati, e quando sono in grado di uscire, messi a mestiere o a servizio in modo che possano provvedere a se stessi con una onesta e laboriosa condotta.

Se tale fosse stata l’usanza nel nostro paese, io non sarei rimasta una povera derelitta, senza amici, senza vestiti, senza protezione o protettore, come fu mio destino; per cui mi trovai non soltanto esposta a grandi pericoli ancor prima di poter capire la mia situazione o di saperla affrontare, ma anche spinta verso un genere di vita di per sé vergognoso e che di regola conduce alla rapida rovina dell’anima e del corpo insieme. Ma il caso qui fu diverso. Mia madre venne dichiarata colpevole di crimine per un piccolo furto che non val quasi la pena di ricordare: s’era presa, cioè, tre pezze di tela fine di Olanda nel negozio di un mercante a I particolari sono troppo lunghi a ripetersi e li ho sentiti raccontare in così tante maniere che a stento saprei dire qual è quella esatta. Comunque sia, tutti confermano che mia madre protestò di avere la pancia, e, accertato che era gravida, ebbe una proroga di circa sette mesi. Dopo di che fu chiamata a scontare, come dicono, la vecchia condanna, ma in seguito ottenne la grazia di esser deportata in colonia, e mi lasciò di circa sei mesi e, credetemi, in mani tutt’altro che buone.

Ero allora troppo vicina alle prime ore della mia vita perché possa riferire qualcosa di me se non per sentito dire; basti ricordare che, essendo nata in un luogo così disgraziato, durante l’infanzia non ebbi parrocchia a cui ricorrere per il mio sostentamento, né sono in grado di spiegare minimamente come feci a vivere.

So soltanto, giacché mi è stato detto, che una parente di mia madre mi portò via con sé, ma a spese di chi o per ordine di chi altro, proprio non lo so.

La prima cosa che riesco a ricordare, o che abbia mai potuto sapere di me stessa, fu che andavo girovagando con una banda di quelli che chiamano zingari o egiziani. Credo però di esser rimasta con loro ben poco tempo, perché non cambiai neppure il colore della pelle come succede a tutti i bambini che quella gente si porta appresso. Ma non posso dire né com’ero finita in mezzo a loro né come riuscii a svignarmela. Fu a Colchester nell’Essex che essi mi abbandonarono; e ho la vaga impressione che fui io a lasciarli (cioè che mi nascosi e non volli più seguirli), ma a tal proposito non posso esser precisa. Ricordo soltanto che, raccolta da uno dei consiglieri della parrocchia di Colchester, dissi che ero arrivata in città con gli zingari, ma che siccome non volevo continuare con loro, quelli mi avevano lasciato. Non sapevo dove si erano diretti e, infatti, sebbene li mandassero a cercare per tutta la regione non riuscirono a trovarli.

Bisognava dunque che provvedessero a me

     Ci siamo già domandati (e abbiamo detto che la domanda è retorica): perché questa sera ci siamo presi la briga di percorrere un itinerario che passa in mezzo alla disputa tra le correnti del Platonismo e dell’Aristotelismo Umanistico, mettendo in gioco argomenti complicati e appena accennati? Ebbene, sappiamo che siamo passate, siamo passati da questo sentiero per tre motivi.

     Il primo motivo lo abbiamo espresso e riguarda la ricognizione dei tre temi fondamentali che – sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – il Platonismo e l’Aristotelismo Umanistico hanno saputo elaborare: il tema dell’Anima (la Psiché), il tema dell’Ordine del Mondo (il Kosmos) e il tema della Ragione (il Logos).

     Il secondo motivo per cui siamo passati da questo sentiero è collegato al primo e riguarda una constatazione fondamentale: le forme e i contenuti che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele sono stati così efficaci da influenzare la Storia del Pensiero Umano per tutto il medioevo e per tutta l’età moderna fino ai giorni nostri, e ancora oggi continuiamo a guardare il mondo – spesso senza averne la consapevolezza – con i concetti di Socrate, con le idee di Platone e con le categoria di Aristotele. Questo significa che dobbiamo obbligatoriamente studiare le forme e i contenuti che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele se vogliamo capire chi siamo e come si esplica la nostra identità culturale, e difatti siamo sulla strada che ci porta ad incontrare questi tre personaggi e le molte altre figure che ruotano intorno ad essi.

     Il terzo motivo per cui siamo passati da questo sentiero è collegato al primo e al secondo e ci riporta sulla corsia che stiamo percorrendo: la corsia (moderna) che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco intitolato La Scuola di Atene. Con l’itinerario di questa sera abbiamo intuito quale sia l’intenzione del committente, abbiamo percepito il senso della lotta solitaria che papa Giulio II sostiene con i membri del Collegio cardinalizio per imporre la sua decisione di far affrescare in un certo modo la sala, che poi diventa la Stanza della Segnatura dove (ancora oggi) il papa firma i Documenti ufficiali della Chiesa. Dovendo sostenere una certa spesa decide di tagliare la prebenda, di diminuire lo stipendio ai cardinali, imponendo un prelievo fiscale in ragione della ricchezza delle loro famiglie e scatenando infiniti malumori.

     Perché si chiama Stanza della Segnatura invece di sala (che sarebbe il nome più appropriato)? Perché per raggiungere il suo obiettivo Giulio II s’inventa anche che in quella sala avrebbe voluto fare la sua camera da letto, la sua stanza privata, e quindi il colore delle pareti e gli imbianchini li avrebbe voluti scegliere lui, e se poi i colori da usare sono molti e molto costosi e il capo degli imbianchini si chiama Raffaello Sanzio (ed è la ditta più cara del momento), ebbene, questi sono solo dei dettagli perché – sostiene Giulio II – per tradizione i papi hanno, da sempre, scelto autonomamente sulla loro camera da letto. Poi, Giulio II, naturalmente, ha continuato a dormire nel suo ufficio – che era una specie di sottoscala – e quella che, per sua invenzione, avrebbe dovuto essere la sua stanza ha mantenuto il nome di Stanza ed è diventata, molto probabilmente, una delle sale più famose del mondo.

     Papa Giulio II ha ben compreso la cultura del suo tempo ed è perfettamente consapevole che la Chiesa può fare da ago della bilancia nella disputa in corso tra Platonici e Aristotelici, capisce che questa è una partita importantissima per l’acquisizione del potere culturale in Occidente alla quale il papa deve partecipare riuscendo a svolgere, preferibilmente, il ruolo dell’arbitro. In questo modo la Chiesa avrebbe potuto assorbire in seno a se stessa tutta la rendita dell’investimento in intelligenza che la disputa ha suscitato: accogliendo tutte le tendenze e disponendole sullo stesso piano sotto l’ala potente e misericordiosa del Santissimo Sacramento che sta sul gradino più alto e riassume in sé tutta la Verità.

     Voi sapete che, sulla parete di fronte a La Scuola di Atene, Raffaello ha ricevuto l’ordine di dipingere anche l’Apologia del Santissimo Sacramento, un affresco intitolato La disputa sul Santissimo Sacramento (che osserveremo strada facendo): è molto importante conoscere questo dettaglio per poter visitare con consapevolezza i Palazzi vaticani.

     Giulio II ha capito perfettamente il valore della proposizione: «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima». Questa proposizione descrive perfettamente l’essenza dell’affresco intitolato La Scuola di Atene: infatti, per realizzarlo, bisogna saper leggere l’opera dell’intelletto, e qual è – pensa Giulio II – l’opera più efficace che l’intelletto umano abbia realizzato se non quella data dalla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele? La Chiesa, questa sapienza orfico-ellenistica, deve farla sua definitivamente perché è con questa sapienza, frutto dell’intelletto, che si può dare forma ultima (con la scrittura o con la dipintura) all’Anima cristiana.

     Giulio II, se avesse potuto, avrebbe fatto scrivere a Raffaello questa proposizione unificante sul frontone della basilica che fa da scenografia all’affresco, ma lui non può, non deve e non vuole comunque schierarsi: non è conveniente fare delle esplicite affermazioni – e poi lui in quanto papa, ufficialmente, non avrebbe dovuto simpatizzare proprio con Pietro Pomponazzi che è una persona rispettosa ma fermamente laica – quindi Giulio II sa che, in certi momenti, la Chiesa deve tacere perché è preferibile che si esprima attraverso le immagini ben composte dagli artisti i quali sanno dare voce alle allusioni, e le allusioni (come ci ha insegnato Erodoto) lasciano un segno nei secoli dei secoli (possiamo negare questa lungimiranza?).

     La stessa cultura di cui è in possesso Giulio II appartiene anche a tutti i personaggi che ruotano intorno a lui, a cominciare dagli artisti come Raffaello e Michelangelo, tanto per fare due nomi. Nelle opere di questi personaggi traspare la grande disputa in corso tra Platonici e Aristotelici, e questo clima culturale è un valore aggiunto, un valore in più, il valore della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Perché Giulio II sceglie Raffaello per far affrescare quella che poi è diventata la Stanza della Segnatura? Chi è e che cosa rappresenta sul piano intellettuale e culturale di questo periodo Raffaello Sanzio? Lo incontreremo la prossima settimana.

     Quando, con Fedra Inghirami, siamo andati in ricognizione nell’ufficio del papa, per osservare a quali letture si stava dedicando, abbiamo visto, aperti sul suo tavolo, la Teologia platonica di Marsilio Ficino, l’Orazione sulla dignità della Persona di Giovanni Pico della Mirandola e il Commento al Commento al “De Anima” di Aristotele di Alessandro di Afrodisia di Pietro Pomponazzi; ebbene, i testi di queste opere, fondamentali per la Storia del Pensiero Umano, hanno qualcosa in comune: esse propongono una cura per l’Anima. Il fatto è che questa proposta viene da personaggi che appartengono a strutture culturali come l’Accedemia Platonica Fiorentina e le sette Aristoteliche che diffondono una mentalità improntata piuttosto verso la laicità che verso la religione. Giulio II – come abbiamo potuto capire e come confermano le studiose e gli studiosi – ha una mentalità profondamente laica ma non può esporsi più di tanto perché quegli ipocriti (e questo è già un complimento) dei re di Francia e di Spagna non aspettano altro che poter denunciare il papa di scarsa religiosità per poter fomentare i loro cardinali contro di lui.

     Sul tavolo del papa – quando di soppiatto siamo entrati nel suo ufficio sotto l’occhio vigile del bibliotecario Fedra Inghirami – abbiamo visto, sul suo tavolo, anche un altro libro, oltre a quelli che abbiamo già recensito di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e di Pietro Pomponazzi: un altro libro, non ancora aperto o forse già letto, intitolato De medicina animae cioè (è facile tradurre dal latino) La medicina dell’anima, un trattato scritto da un certo Hugone de Folieto, sulla cui copertina di questo testo (sulla copertona di cuoio) abbiamo letto anche una data: anno 1140. Che cosa sta facendo Giulio II, perché va così indietro nel tempo (di circa tre secoli e mezzo) con le sue letture? Lo sappiamo già che deve e vuole giustificare il suo operato davanti ai cardinali che stanno lì sempre con il fucile puntato (va bene che lui spara con il cannone ma loro sono in tanti e di pochi di loro il papa si può fidare), e, per giustificare il suo operato, Giulio II vuole dimostrare che le idee che sta formulando mentre si appresta a dare l’incarico a Raffaello di affrescare La Scuola di Atene hanno già una tradizione nella Chiesa.

     Che tipo di trattato è il De medicina animae, La medicina dell’anima? È chiaro che c’è già qualcuno, nella tradizione della Chiesa, prima dei Platonici e degli Aristotelici Rinascimentali, che ha coltivato l’idea di curare l’Anima e questo è un elemento utile da mettere in evidenza soprattutto perché coinvolge gli Ordini monastici pauperisti che, contrariamente ai cardinali, sono sempre stati fedeli a Giulio II il quale, non dimentichiamocelo, appartiene all’Ordine francescano.

     Come si articola questa mossa strategica che sarà molto efficace? E chi è il monaco – prima agostiniano e poi benedettino – autore del trattato De medicina animae? Chi è Hugone de Folieto? Uno che vuol curare deve essere anche un medico, e sappiamo che anche Pietro Pomponazzi, alla cui opera Giulio II è molto interessato, è un medico). Che tipo di medico è Hugone de Folieto?

     La prossima settimana incontreremo il monaco Hugone de Folieto (trasferendoci in pieno Medioevo) e il laico Raffaello Sanzio (in pieno Rinascimento) e, naturalmente, incontreremo anche tutta una serie di figure che si muovano intorno a loro sempre  seguendo la scia delle forme e dei contenuti che caratterizzano la sapienza orfico-ellenistica di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Non perdete, quindi, l’occasione di fare questi incontri: accorrete, la Scuola (anche quella di Atene, anche se solo riprodotta in immagine) è qui...

    

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 7, 2008