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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA “PAROLA BELLA”...

Lezione N.: 
25

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto  2007         2–3–4   maggio  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO 

SULLA “PAROLA BELLA”...

     La nostra nave Sidonia, condotta dal capitano Agenore di Tiro, ancora una volta fa scalo nel porto di Catania (la città de I viceré), e di qui ha inizio l’ultimo itinerario di questo secondo Percorso dedicato al sorriso di Erodoto che ci ha permesso di viaggiare nei territori del movimento della sapienza poetica orfica: un tema che tutti noi dobbiamo studiare se vogliamo orientarci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – nella Storia del Pensiero Umano, che è la nostra storia. Da Catania abbiamo raggiunto la polis di Leòntinoi che oggi si chiama Lentini. Qualche tempo fa abbiamo già visitato questa zona della Sicilia insieme al signor Vivan Denon: ve lo ricordate ancora il creatore del museo del Louvre? Si consiglia naturalmente una visita a Lentini

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La polis di Leòntinoi, oggi Lentini, si trova in provincia di Siracusa (tra Siracusa, Catania e Piazza Armerina: un triangolo delle meraviglie da visitare subito con l’atlante e con una guida della Sicilia)… A Lentini c’è un bel museo e un’interessante zona archeologica che puoi visitare sempre utilizzando una guida della Sicilia…
Lentini è stata distrutta (e tenacemente ricostruita) da due violenti terremoti: il più disastroso è stato quello del 1693 – di cui abbiamo avuto occasione di parlare – che ha modificato l’assetto territoriale di tutta la Sicilia …
In località Piscitello, all’interno delle antiche mura della polis di Leòntinoi, si trova la Casa dello Scirocco: che tipo di monumento è?… 
Vai a fare una ricognizione e, se lo scopri, scrivi due righe in proposito…

     Ma noi siamo a Lentini per incontrare un personaggio legato alla Scuola che nello scorso itinerario abbiamo frequentato ad Atene: la Scuola dei Sofisti, che, ad Atene, è stata fondata da Protagora di Abdera.

     Il personaggio che siamo venuti ad incontrare si chiama Gorgia di Lentini ed è nato tra il 480 e il 475 a.C.. Degli anni giovanili di Gorgia di Lentini abbiamo pochissime notizie. Sappiamo qualcosa da Pausania di Magnesia (vissuto nel II secolo d.C.) e autore di una famosa opera (che noi abbiamo utilizzato nel Percorso sulla Tragedia) intitolata Ellados peri egesis che letteralmente significa Guida della Grecia. Ma i curatori delle traduzioni nelle lingue moderne, a cominciare dall’Umanesimo, hanno preferito dare a questo testo un titolo più vicino al genere letterario del romanzo: Viaggio in Grecia. Che cosa ci racconta Pausania di Magnesia a proposito di Gorgia di Lentini? Ci dice solo che suo padre si chiamava Carmantida e che suo fratello Erodico faceva il medico, e che probabilmente è stato allievo di Empedocle.

     Diodoro Siculo (90-20 a.C.) nato in Sicilia e vissuto a Roma al tempo di Augusto nella sua opera Biblioteca storica (40 libri) riferisce che Gorgia, nel 427 a.C., è stato incaricato dal governo della polis di Lentini di guidare una missione diplomatica ad Atene per ottenere un aiuto militare contro lo strapotere di Siracusa. Diodoro Siculo racconta che Gorgia si è presentato sull’agorà di Atene tutto vestito di porpora, con al suo fianco un altro oratore, Tisia, anche lui di Leòntinoi. I due ambasciatori – racconta Diodoro Siculo – si sono alternati sul podio sollevando l’ammirazione della folla: «mai prima di allora gli Ateniesi, scrive Diodoro Siculo, avevano udito oratori così affascinanti».

     I Filostrati di Lemno – li abbiamo incontrati anche la volta scorsa – sono tre autori della stessa famiglia vissuti tra il II e il IV secolo d.C.; a causa di questa omonimìa, è difficile l’attribuzione delle opere che hanno scritto, quindi vengono citati al plurale. I Filostrati di Lemno sono autori anche di un libro intitolato Vite dei Sofisti. In Vite dei sofisti dei Filostrati di Lemno leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Filostrati di Lemno, Vite dei sofisti

Gorgia di Lentini possedeva impeto oratorio, audacia innovatrice, mossa ispirata, tono sublime, distacchi di frase, inizi improvvisi, espressioni poetiche e gusto dell’ornato.

     Viene proprio voglia di ascoltarlo ma purtroppo non abbiamo registrazioni.

     Cicerone, nel De invenzione, scrive che Gorgia divenne un divo e si esibiva nei teatri e gridava alla platea: «datemi un tema» e, su quel tema, improvvisava per ore. Isocrate di Atene, autore delle celebri Orazioni (la più famosa s’intitola Panegirico [Tutti sotto la stessa guida], e questo termine è diventato un modo di dire) – che è stato discepolo di Gorgia – afferma che il suo maestro è stato il sofista che ha guadagnato più soldi di tutti. E Plinio il Vecchio, nella Storia naturale, conferma questo fatto scrivendo che «Gorgia di Lentini era così ricco che un giorno, per ringraziare Apollo, regalò all’oracolo di Delfi una statua d’oro, a grandezza naturale, che raffigurava se stesso».

     I Filostrati di Lemno raccontano, nelle Epistole, che Gorgia venne invitato in Tessaglia dal tiranno Giasone e «da quel giorno, in Tessaglia, l’arte della retorica venne chiamata la Parte di Gorgia». Sembra che Gorgia in età matura si sia sposato, ma che abbia avuto dei problemi con la moglie a causa di una cameriera con la quale lui andava molto d’accordo. Non siamo solo noi a fare questi pettegolezzi, prima di noi ci ha pensato Plutarco di Cheronea in uno dei suoi Opuscoli intitolato Precetti coniugali. Ma anche Plutarco di Cheronea, che non disdegna mai le battute salaci, tende a scaricare – su un certo Melanzio – la propria responsabilità in fatto di pettegolezzi; infatti scrive:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Opuscoli morali [Precetti coniugali]

Un certo Melanzio prendeva in giro Gorgia di Lentini dicendo: «Costui, a pagamento, dà consigli sulla concordia, quando non è riuscito a mettere d’accordo se stesso, la moglie e la serva, e pensare che sono tre soltanto».

     Il personaggio di Gorgia di Lentini (come tutti i Sofisti) è molto contraddittorio: c’è da dire, a questo proposito, che ha subìto l’antipatia (ti pareva!) di Aristotele il quale lo denigra e, parlando di lui, perde anche il senso dell’ironia. Aristotele, nell’opera intitolata Retorica, racconta un aneddoto per colpire Gorgia:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Retorica

Un giorno una rondine fece cadere un escremento sulla testa di Gorgia; il sofista alzò lo sguardo e con aria severa redarguì l’uccellino esclamando: «Vergognati Filomela!». [Filamela è un personaggio mitico: è una fanciulla la quale, un attimo prima di essere uccisa da Tereo, che è il marito di sua sorella Procne, che avrebbe voluta sedurla a tutti i costi, fu trasformata in usignolo] Così dicendo Gorgia di Lentini dimostra di saper usare la metafora nel discorso se non in modo improprio. Gorgia, in questo caso, sbaglia due volte: la prima quando impreca contro una donna defunta, e non bisogna mai evocare né in senso tragico né in senso comico, e la seconda quando finge d’ignorare che, a fare i propri bisogni all’aperto, non è stata la moglie di Tereo ma solo un ignaro uccellino»

     Aristotele, lo ristudieremo, non nutre particolari simpatie per i sofisti (usa questo termine in modo dispregiativo), e non si limita a criticare Gorgia per l’episodio della rondine, ma mette in dubbio che possa essere considerato un filosofo e questo fatto, nel corso dei secoli, non ha giovato al personaggio di Gorgia.

     Naturalmente – e tutte le studiose e gli studiosi sono concordi – il pensiero di Gorgia di Lentini ha un contenuto filosofico che deve essere preso in considerazione. Gorgia ha scritto una serie di importanti opere di retorica in cui cura soprattutto la forma ma, in tutte le sue opere, emerge una significativa riflessione sul tema del Non-essere. Infatti la sua opera principale s’intitola Su ciò che non è [Sul Non-essere], ovvero sulla natura. Ma altrettanto significative sono le sue orazioni: l’Apologia di Palamede, l’Orazione pitica, l’Orazione olimpica e l’Orazione funebre. E poi quella più famosa, che noi abbiamo già avuto occasione di studiare: l’Elogio di Elena. Forse, la straordinaria abilità di Gorgia di Lentini nell’esercizio della retorica ha portato fuori strada anche Aristotele: infatti si tende soprattutto a considerare Gorgia un eccezionale oratore dotato di uno straordinario virtuosismo. Ma sono proprio le Apologie di Palamede (che ha tradito Ulisse) e l’Elogio di Elena (che ha tradito Menelao) a indicare la strada per capire il pensiero di Gorgia: in questi discorsi infatti il sofista privilegia la forma a scapito del contenuto, non dà alcuna importanza alle azioni della donna infedele (Elena) e del traditore di Ulisse (Palamede), e scarica ogni responsabilità sulla parola come mezzo di persuasione. Ma leggiamo il primo frammento dell’opera di Gorgia così come ce lo riporta Sesto Empirico (sappiamo chi è: Cfr. la Lezione n. 19) nel trattato Contro i matematici.

LEGERE MULTUM….

Gorgia di Lentini, Su ciò che non è [Sul Non-essere], ovvero sulla natura

Nulla è; se anche qualcosa fosse, non lo potrei capire; e seppure riuscissi a capirlo, non sarei in grado di comunicarlo agli altri.

     Con questa premessa Gorgia riesce a negare la realtà (l’esistenza del Non-essere) più di Parmenide, di Zenone e di Melisso: per costoro esisteva soltanto l’Uno, per Gorgia non esiste nemmeno quello. Indubbiamente si tratta di una premessa che dà fastidio a chiunque, perché tutte/tutti tendiamo a professare una fede, aspiriamo ad avere un ideale. Gorgia non sostiene che la Verità non esiste, sostiene che la Verità, anche se esistesse (e lui dubita), non è alla nostra portata. L’unica cosa su cui possiamo confidare è la relatività del Logos, ovvero la possibilità di esercitare il potere per mezzo della parola (il logos) e attraverso il pensiero (il Logos). Gorgia è tanto convinto del concetto della relatività del Logos che, con il pensiero e la parola, con l’esercizio della retorica, riesce a mettere in discussione anche la sua stessa convinzione per dimostrare la validità – secondo lui – della sua convinzione stessa. Prima di tutto Gorgia riflette su un argomento importante (che avrà sviluppi nella Storia del Pensiero Umano): Gorgia riflette sul fatto che si dà per scontata l’impossibilità di conoscere la Verità; tuttavia sorge sempre dentro di noi una domanda: è più importante che esista o che la si riesca a conoscere? Gorgia riflette sul fatto che anche se si dà per scontata l’impossibilità di conoscere la Verità, tuttavia la ricerca non si può fermare. La Verità – riflette Gorgia – devo supporre che esista perché se non esistesse esisterebbe quanto meno il fatto che non esiste e anche questo fatto è una verità! Quindi – riflette Gorgia – l’unica strada per raggiungere, attraverso la logica, l’esistenza della Verità (o dell’Uno, o dell’Essere, o di Dio) è il metodo della negatività positiva:

«Si può dire di sicuro che esiste l’Uno o l’Essere o Dio?»

«No, non si può dire di sicuro»

«Si può dire con sicurezza che non esiste l’Uno o l’Essere o Dio?»

«No, non si può dire con sicurezza»

«Bisogna quindi ammettere che esiste qualcosa che non si sa»

     (Qui viene in mente un certo Socrate e verrà il momento che lo incontreremo faccia a faccia). E allora continua a riflettere Gorgia:

«Io posso chiamare l’Uno o l’Essere o Dio questa cosa che ammetto di non sapere»

«E se voglio chiamarla semplicemente “cosa che non so”?»

«Fa lo stesso – dichiara Gorgia –, il suo valore non cambia»

     Questo ragionamento ci fa venire in mente persino Kant perché la riflessione di Gorgia allude al fatto che il dare un valore alle cose (ai princìpi etici) è comunque necessario e il metodo della “negatività positiva” porta a pensare ai “valori”; il metodo della “negatività positiva” porta a riflettere sulle parole: autenticità, realtà, certezza, esattezza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggi queste parole: autenticità, realtà, certezza, esattezza… Ciascuna di loro a quale oggetto, o situazione o persona puoi farla corrispondere? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Le riflessioni di Gorgia, e il suo metodo della negatività positiva, fa venire in mente – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – un famoso libro di Jorge Luis Borges (1899-1986), formato da 14 racconti (scritti tra 1941 e il 1944) che s’intitola Finzioni. Uno di questi racconti – forse il più famoso – a sua volta s’intitola La biblioteca di Babele. Lo scrittore immagina di trovarsi in un immenso alveare fatto di stanze esagonali tutte ricoperte di libri. Al centro di ogni stanza c’è un pozzo di ventilazione, una specie di tromba delle scale, che lascia intravedere, sia in alto che in basso, un’infinità di altre stanze esagonali, tutte piene di libri e, anche uscendo da una di queste stanze, si finisce sempre col trovarsi in un’altra galleria verticale: ci troviamo in un grande labirinto che chiamiamo l’universo e che «altri – scrive Borges – chiama la Biblioteca». I libri della Biblioteca di Babele hanno tutti lo stesso spessore, sono di 410 pagine, e sono scritti in modo incomprensibile: la maggior parte delle parole sono formate da sole consonanti. Dopo molte riflessioni, il vecchio narratore scopre che il testo dei libri è formato da tutte le combinazioni possibili dei venticinque simboli dell’alfabeto e che pertanto la Biblioteca contiene un numero enorme di libri. Quindi le lettere sono combinate insieme in modo casuale e, di tanto in tanto, in qualche libro compare, casualmente, una frase di senso compiuto, per esempio: «oh tempo le tue piramidi». Quando si viene a sapere che la Biblioteca-Universo contiene tutti i libri possibili, qualcuno avanza l’ipotesi che tra questi libri possa esserci anche il Libro dei Libri, quello che custodisce il Segreto della Vita. A questo punto la ricerca diventa spasmodica e le persone si gettano come forsennate sui libri, prendendoli a caso, per poi buttarli via non appena si rendono conto che sono incomprensibili. Solo il vecchio narratore non si muove: egli resta appagato dalla notizia dell’esistenza del Libro. Leggiamo un frammento tratto da La biblioteca di Babele:

LEGERE MULTUM….

Jorge Luis Borges, Finzioni - La biblioteca di Babele (1941)

Sappiamo anche d’un’altra superstizione di quel tempo: quella dell’Uomo del Libro. In un certo scaffale d’un certo esagono (ragionarono gli esseri umani) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle più lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l’ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e così all’infinitoIn avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.

... continua la lettura ...

     L’importante – allude Borges – non è tanto che esista un libro che contiene la Verità, ma l’importante è che “l’enorme Biblioteca si giustifica nel nostro essere” tutte le volte che ci dedichiamo all’esercizio della lettura. La biblioteca di Babele è un racconto di nove pagine, sono – con il metodo del LEGERE MULTUM – dieci minuti più dieci minuti di lettura: un istante in cui “l’enorme Biblioteca si giustifica nel nostro essere”.

     Ma torniamo a Gorgia di Lentini il quale è maestro di retorica, è maestro nell’arte di persuadere con la parola che, come disciplina (retorica), è nata in Sicilia, nel VI secolo a.C., nelle aule dei tribunali, e noi sappiamo che l’aula del tribunale è uno dei primi spazi scenici teatrali che la storia della letteratura ci propone. I due primi grandi avvocati (prìncipi del foro) che la storia della retorica ci ricorda, sono due professionisti (sofisti) di Lentini – Coràce e Tisia – che difendono con successo i loro clienti senza porsi ulteriori finalità: erano famosissimi e poverissimi e hanno vissuto tutta la vita, sostenuti dalla pubblica assistenza: perché? Perché si facevano pagare solo in caso di perdita della causa, e loro vincevano sempre  e la gloria, per la vittoria ottenuta, era la loro ricompensa. Poi, i rètori, cominciano a farsi pagare, e questo meccanismo ha modificato le cose.

     Il discepolo più importante di Coràce e di Tisia, il quale è passato alla storia come il più famoso dei rètori è proprio Gorgia di Lentini. Gorgia da Lentini è soprattutto celebre per aver scritto il famoso Encomio, un discorso in difesa di Elena di Sparta, la donna più vituperata dell’antichità. Il personaggio di Elena di Sparta è sempre presente nei Percorsi di Storia del Pensiero Umano perché è emblematico. Isocrate di Atene, per esempio, ha scritto un Elogio di Elena  (nel 380 circa a.C.) – di cui, nel Percorso sulla Tragedia, abbiamo letto un frammento – con un intento di carattere politico: Isocrate di Atene vuol far diventare Elena di Sparta, un kallé profasé, un bel pretesto, utilizzato dagli Ateniesi, per far la guerra a Sparta. Tucidide – il primo della classe in storia – ci ricorda che la guerra è una brutta faccenda che va sempre giustificata con un bel pretesto.

     Gorgia di Lentini scrive un discorso, un Encomio, in difesa di Elena di Sparta con un diverso intento rispetto ad Isocrate. Gorgia vuole scagionare Elena – la donna (il personaggio letterario della sapienza poetica orfica) più biasimata dell’antichità – per sviluppare un suo pensiero, per affermare un’idea, per dare spazio a un ragionamento. Quale ragionamento? Andiamo con ordine.

     Sappiamo che l’Atene del V secolo a.C. è un centro internazionale che accoglie volentieri gli intellettuali di valore. Quando Gorgia di Lentini (abbiamo già accennato prima a questo fatto) giunge ad Atene, nel 427 a.C., come ambasciatore in rappresentanza delle polis siciliane che intendevano ribellarsi contro il tiranno di Siracusa, gli Ateniesi restano incantati dalla sua eloquenza. E allora dal governo di Atene è pregato di restare, viene insignito della cittadinanza onoraria e trattato con grande rispetto. Ad Atene, Gorgia di Lentini mette in atto ciò che ha imparato nella Scuola di retorica della sua città che era attiva da più di un secolo. Questa Scuola, in cui Gorgia è cresciuto e si è formato, considera la parola (logos) uno strumento capace di influenzare la psiche (l’anima), alla maniera di una medicina che agisce sul corpo, e alla maniera di un farmaco capace di creare un incantesimo che scatena fortissime emozioni. Questo concetto – la parola (la poesia) che cura e incanta l’anima – si sviluppa nel movimento della sapienza poetica orfica (Orfeo è, e rimane, il primo mitico grande incantatore).

     Gorgia da Lentini fonda una Scuola ad Atene, in cui insegna l’arte della retorica. Ma ad Atene, rispetto a Lentini, vigono spregiudicate leggi di mercato. Gorgia – dobbiamo rendere giustizia a questo personaggio – non riesce ad insegnare ai suoi studenti i valori che animano i rètori di Lentini. Ad Atene la retorica diventa subito (ce ne siamo già resi conto, e anche con la complicità di Pericle, come ci ricorda Plutarco di Cheronea) un’arte per procacciarsi – da parte di chi la pratica – non la gloria, ma il successo e soprattutto lauti guadagni. Ad Atene, non tutti vedranno di buon occhio questi maghi della parola: Platone, in un suo famoso dialogo chiama i rètori incantatori di serpenti. Questo dialogo platonico s’intitola Gorgia, e questo fatto contribuisce a gettare un discredito sul maestro di Lentini che forse non merita. Anche perché Gorgia decide – e questo fatto Platone non lo rileva – di chiudere la sua Scuola di retorica perché considera immorale il comportamento di coloro che aveva istruito, e fonda una nuova Scuola di pensiero – che lascia un’impronta nella Storia del Pensiero Umano – intitolata sofistiké, dall’accoppiamento delle parole sophia e tecné: una scuola che insegna l’arte (tecné) di trasmettere la conoscenza (sophia) attraverso la parola (logos).

     Ed è proprio per mettere in evidenza la potenza e il fascino della parola nel bene e nel male, che, un giorno, Gorgia di Lentini, dà una memorabile prova di bravura. Per dimostrare l’utilità della parola nel trasmettere la conoscenza e nel divulgare i ragionamenti, e per dimostrare – contemporaneamente – anche quanto possa essere pericoloso l’uso suadente della parola, elabora un discorso, serio, ma pervaso da una profonda ironia, dal titolo: Encomio di Elena di Sparta.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Un encomio è un elogio, è una lode: che cosa ti fa venire in mente questa parola?…

Ne hai ricevuto di encomi, di lodi, ne vuoi distribuire?… 

Scrivi quattro righe in proposito…

     L’esercitazione retorica di Gorgia appartiene al genere letterario dei  pàignia, gli scherzi con i quali, gli oratori, esibivano la propria abilità. Quale miglior scherzo, dunque, di quello di elogiare ciò che è considerato spregevole o condannabile? O insopportabile? Gorgia ha scritto in gioventù – quando ancora vive a Lentini – l’Elogio di una mosca per dimostrare che non sono le mosche ad essere noiose, ma siamo noi, «incapaci di governare la sopportazione», e questo scherzo, aveva avuto un grande successo: purtroppo è andato perduto. Poi Gorgia ha scritto la Difesa di Palamede, il giovane figlio di Climene e di Nauplio, re di Argo, il quale con l’inganno fu ingiustamente accusato da Agamennone di essere complice dei Troiani, processato e lapidato. Anche se Palamede è solo un personaggio mitico, immaginario: Gorgia lo riabilita. Poi, Gorgia sceglie Elena, l’adultera per eccellenza, con tutta la sua storia che – si sapeva già allora – non essere mai avvenuta, ma che è sempre…

     L’Encomio di Elena non è però, come poteva sembrare sulle prime agli Ateniesi, un’opera buffa, uno scherzo. L’Encomio di Elena risulta, soprattutto oggi – ed è per questo che ci interessa e lo studiamo – un serio trattato di filosofia del linguaggio. Con il pretesto di difendere Elena, in quest’opera Gorgia esemplifica una teoria importante, quella per cui l’arte della parola risulta essere un “dolce inganno”. Che cosa significa? Il mito di Elena, la moglie del re di Sparta, Menelao, lo conosciamo tutti. E Gorgia usa il mito tradizionale di Elena, quello della cultura omerica, che fa di Elena il fedifrago pretesto per la guerra di Troia.

     Sappiamo tutti che un giorno alla corte di Sparta arriva un affascinante giovanotto, il troiano Paride (un figlio del re Priamo), caro alla dea dell’amore Afrodite perché l’ha premiata come giudice in una importantissima gara di bellezza. Sappiamo che Elena e Paride si piacciono subito, per cui,  quando un giorno Menelao si assenta, i due amanti si danno alla fuga. Ne deriva la guerra raccontata dalla tradizione omerica nell’Iliade, al termine della quale Menelao ricondurrà Elena a Sparta.

     Chi non condannerebbe una donna infedele, responsabile di una tremenda carneficina decennale? Ma Gorgia di Lentini è l’avvocato dei miracoli. Chi era veramente Elena?  Si domanda Gorgia all’inizio della sua orazione. È una divoratrice di uomini, avvenente e trasgressiva? Oppure una sposa devota, bella e fedele a suo marito? In ogni caso andrebbe assolta – scrive Gorgia – perché, prima di tutto, la sua fuga non è dovuta a libera volontà, ma a cause di forza maggiore. Elena ha fatto quel che ha fatto – scrive Gorgia – per i seguenti motivi: o per «una meditata decisione di dèi», oppure perché «rapita per forza», oppure perché «presa dall’amore», oppure perché «indotta con parole».

     Se ha fatto quel che ha fatto per il primo motivo – per una decisione degli dèi –, scrive Gorgia, sappiamo che l’azione della provvidenza divina non si può impedire con la previdenza umana: chi può mettersi contro la volontà degli dèi?

     E se è stata rapita con la forza, è chiaro che la colpa è del rapitore: è lui che commette l’oltraggio, ed è la rapita – in quanto oltraggiata – che subisce una sventura. Già questi primi due motivi, propri del buon senso, darebbero ragione a Gorgia, per cui l’adulterio di Elena è inevitabile: ed Elena sarebbe già assolta.

     Ma c’è una terza causa, addotta da Gorgia nella difesa di Elena. Gorgia sostiene che lei si sia concessa a Paride, spinta dall’eterna forza dell’amore a cui, sempre, è stata attribuita una divina potenza: alla dea dell’amore, Afrodite, e al dio dell’amore, Eros, e al loro segretario, Cupido, nessun essere umano può resistere: come si doveva e si poteva pretendere da Elena di resistere ad Afrodite?

      Ma, Gorgia di Lentini, a questo punto, aggiunge la parte più originale del suo discorso, il quarto argomento di difesa. Probabilmente Elena è stata indotta con le parole, con la forza, con il fascino, con l’incantesimo delle parole a fare quel che ha fatto.

     E allora andiamo a leggere questo frammento dall’Encomio di Elena, ascoltando la viva voce di Gorgia:

LEGERE MULTUM….

Gorgia da Lentini,  Encomio di Elena  (424 ca. a.C)

Se invece fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi. La parola è infatti un gran dominatore, che con corpo assai piccolo e invisibile sa compiere cose molto divine. Riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà Chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimentoC’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che c’è tra la funzione dei farmaci e la natura del corpo. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri altri, e alcuni troncano la malattia, altri la vita, così anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispirano coraggio agli uditori, altri, infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano. Ecco così spiegato che, se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata

     Il nòcciolo del discorso di Gorgia in difesa di Elena fa leva e coincide con la stessa dottrina della retorica che lui professa. Mentre gli altri rètori sono convinti che la persuasione avvenga sempre attraverso il ragionamento, Gorgia sostiene che la forza del convincimento risiede anzitutto nella potenza delle parole con cui il ragionamento viene presentato. Non è il ragionamento che rende persuasive le belle parole, ma è la forza delle parole che rende persuasivo il ragionamento. A seconda delle parole con cui viene sviluppato, lo stesso ragionamento risulta inefficace o trascinatore. È forse questo un invito alla superficialità? Significa, forse, che anche ragionamenti futili, banali, stupidi, possono diventare decisivi se presentati con parole ad effetto? Non è così – ci spiega Gorgia – e per capirlo basta collegare il quarto argomento di difesa con il terzo. Gorgia scrive che la parola è uno strumento potente perché consegna chi l’ascolta, disarmata o disarmato, nelle mani della dèa dell’amore, di Afrodite e del dio dell’amore, Eros e del loro segretario Cupido. E così, per la prima volta nella Storia del Pensiero, il linguaggio viene inteso non come un semplice tramite di concetti, ma come una forza che permette al concetto di agire sulla psiche. Insomma: sono le parole – non i ragionamenti – che producono un effetto straordinario. Gorgia ha dato a questo effetto il nome di goèteia, di incantesimo, magia: le parole sono capaci di produrre l’incantesimo.

     Questa parola, goèteia, incantesimo, è stata mutuata dalle cultura pitagorica. I pitagorici pensano che la pronuncia di alcune parole magiche, durante la meditazione, durante la contemplazione, possano produrre una goèteia, un incantesimo, tale da favorire l’ascolto, la percezione dell’armonia universale. Gorgia pensa che tutte le parole – non solo alcune parole magiche – siano capaci di produrre una goèteia, un incantesimo, e la sua teoria retorica resterà sempre la prima tra tutte le teorie che vedono nella parola qualcosa di più che non un semplice un vocabolo.

     La dottrina di Gorgia sulla forza delle parole viene particolarmente avversata e attaccata con durezza, dai razionalisti. Per loro, chi segue questa idea perde di vista il bene supremo della Verità. Ma Gorgia ha difeso sempre con passione il suo pensiero: «la retorica, scrive, non è affatto una vuota esercitazione, ma un’autentica filosofia che soppianta il criterio del vero – che funziona poco e male – con il criterio, assai più valido, del verosimile, cioè del persuasivo». L’essere umano non è in grado di conoscere la Verità: può invece accostarsi al verosimile. E una cosa è vera, per ciascuno, sempre in modo diverso, e allora: dov’è il vero? «Ma sbaglia, scrive Gorgia, chi considera il verosimile come un nemico del vero». Una Verità ha tutto da guadagnare e nulla da perdere, se riesce anche ad essere persuasiva.

     Ma, seguendo il criterio del vero: una cosa o è vera, oppure è falsa. Seguendo il criterio del verosimile: una cosa è sempre, comunque, persuasiva.

     La storia di Elena (che tutti sanno non essere mai esistita) – come tutte le storie della tradizione mitica – non è vera: Allora è falsa questa storia? Attenzione – scrive Gorgia – Elena, Paride, Menelao, non sono mai esistiti e questa storia non è vera, ma possiamo dire che è verosimile. Se usiamo il criterio del vero, ebbene: questa storia è falsa, Se usiamo il criterio del verosimile (succedono simili cose!), ebbene, questa storia è persuasiva: c’insegna qualcosa.

     Per questo Aristotele nella Poetica scrive che:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Poetica  (341 ca. a.C.)

Il verosimile si dovrebbe preferirlo alla verità! A teatro è sempre preferibile quel che è verosimile e persuasivo a ciò che è vero senza essere convincente. Se così non fosse, sarebbero vani tutti gli artifici scenici, i finti combattimenti, le finte morti. A teatro è migliore lo spettatore che si lascia ingannare e s’immedesima nel verosimile subendo l’incantesimo della potenza delle parole, piuttosto che, colui il quale non accetta la finzione. Chi non accetta la finzione, saldo nel criterio del vero a tutti i costi, non è soggetto al salutare processo della catarsi, della purificazione Chi si lascia ingannare e s’immedesima nel verosimile subendo l’incantesimo della potenza delle parole accetta come persuasivo il fatto che: quella spada (finta) possa fare male a nessuno, e che, quel sangue, sia solo acqua tinta di rosso porpora!

     Birbante di un Aristotele! Il quale dice peste e corna di Gorgia di Lentini e poi zitto zitto (si fa per dire) ne riprende il pensiero e lo fa suo. Gorgia di Lentini anticipa il pensiero di Aristotele sostenendo che: chi non accetta il verosimile, saldo nel criterio del vero a tutti i costi, è poco affidabile, perché non è capace di assoggettarsi alla catarsi, alla purificazione data dalle parole belle.

     E a questo punto, possiamo affermare che il movimento della sapienza poetica orfica – in cui anche Gorgia di Lentini s’inserisce – è il campo, è il territorio, in cui si coltiva la parola bella, è lo spazio in cui ci si può far incantare dall’armonia della parola  (del logos).

     Dobbiamo riflettere sul fatto che c’è una differenza tra l’espressione la “bella parola” (tra lo slogan convincente ma alienante e quindi nullo e insignificante) e la “parola bella” dove l’aggettivo “bella” corrisponde al termine “chiave” nel senso di cardine, di perno, di punto strategico, di soluzione, di accesso, di metodo, di sistema, di strumento, di stile, di carattere, di punto di vista, di prospettiva: insomma l’espressione “parola bella” corrisponde all’espressione “parola-chiave” e questo è il significato autentico del termine greco logos.

     Il movimento della sapienza poetica orfica sembra voler invitare le cittadine e i cittadini a vivere nella ricerca delle parole belle, e sembra voler invitare le cittadine e i cittadini ad imparare a penetrare il significato di queste parole: in modo – scrive Aristotele (lo abbiamo un po’ brontolato ma qui va preso sul serio) – da poter accedere alla catarsi, alla purificazione, alla continua rigenerazione culturale. Che cosa ce ne dobbiamo fare delle parole-chiave, delle parole-belle? Dobbiamo utilizzarle per l’esercizio della lettura e della scrittura che sono due strumenti fondamentali per la continua rigenerazione culturale della persona. E che cosa dobbiamo scrivere (dieci minuti al giorno)? Dobbiamo scrivere – riflettendo sulle parole-chiave, sulle parole-belle – la nostra autobiografia. Perché dobbiamo scrivere – riflettendo sulle parole-chiave, sulle parole-belle – la nostra autobiografia, perché dobbiamo coltivare il nostro spirito autobiografico? Perché «solo una vita che si fa raccontare è una vita salvata» questo, in sintesi, c’insegna, in conclusione di percorso,  l’eterogeneo, complesso movimento della sapienza poetica orfica.

     Questa citazione è difficile attribuirla a qualcuno in particolare: possiamo attribuirla, sulla scia della tradizione mitica, ad Orfeo, ma, nella tradizione storica, possiamo fare come esempio  qualche nome; il primo nome è quello di Erodoto che sorride accanto a noi (è uno degli ultimi sorrisi) e quindi, solo per fare alcuni nomi, possiamo pensare a Agostino di Ippona, ad Ildegarda di Bingen, a Eloisa di Troyes, a Dante Alighieri, a Jean Jacques Rousseau. L’elenco sarebbe lungo e di questo elenco fanno parte anche tutte/tutti coloro che (con semplicità e con umiltà) trasformano in scrittura I REPERTORI E LE TRAME che la Scuola propone. La Scuola pubblica che progetta, che programma e che attua (con i suoi miseri mezzi) i Percorsi di alfabetizzazione non ha (e non deve avere) propriamente un ruolo salvifico ma deve costantemente (al di là delle mode e dei consumi) indicare gli strumenti che favoriscono i processi di apprendimento in modo che le cittadine e i cittadini della polis possano capire che la vita è vissuta se si fa raccontare. E ogni vita raccontata (incardinata con semplicità nella scrittura) forma la memoria collettiva, forma l’essenza dell’Intelletto universale o dello Spirito (direbbe Hegel). Se l’Intelletto universale, vale a dire un sentire comune orientato al Bene, non prevale sugli interessi di parte la vita umana (il Pensiero umano) è destinata ad estinguersi prima del tempo sul Pianeta che ci ospita.

     Gorgia di Lentini – secondo la tradizione mitica – è vissuto più di cento anni (108 anni, anche perché scrive dieci minuti al giorno) e non appena si accorge che le forze lo stanno abbandonando per sempre, sembra abbia proferito queste armoniose parole «Ede Hypnos epì-trepo auton Thanatos», che tradotte significano «Già Hypnos comincia a consegnarmi a sua sorella Thanatos». Hypnos, in greco, è il sonno, e Thanatos è la morte. Insomma, la morte è come un bel sonno tranquillo: perché averne paura?

     Sappiamo che molti illustri pensatori, a partire dall’antichità, hanno esalato l’ultimo respiro, solo dopo aver pronunciato una bella frase di congedo da questo mondo. Dell’autenticità di quasi tutte queste frasi è lecito dubitare, ma la frase bella attribuita a Gorgia di Lentini dobbiamo pensare che sia autentica, perché dobbiamo immaginarci che egli abbia voluto morire, così come è vissuto: nel culto della parola bella, dell’armonia della parola, nel culto di Orfeo, in linea con la sapienza poetica orfica, con il movimento culturale che ci ha accompagnato in questo viaggio.

     E a proposito di parole belle, Erodoto esprime il desiderio di tornare a casa e noi lo dobbiamo accontentare. Che cosa c’entrano le parole belle con il desiderio di Erodoto di tornare a casa? Da Lentini, dopo essere tornati a Catania, stiamo navigando a bordo della nave Sidonia: il capitano Agenore di Tiro sta facendo rotta verso nord-est, verso la costa ionica della Calabria. Ci stiamo avvicinando alla polis di Turi da dove siamo partiti esattamente 25 itinerari fa: eravamo all’inizio del mese di ottobre dello scorso anno…

     Il porto di Turi, che è lo stesso dell’antica Sibari, si trova alla foce del fiume Crati e noi sappiamo che krάtos-krátos, in greco, significa vigore, esuberanza, floridezza, fecondità, abbondanza.

     Dal ponte della nostra nave, prima ancora di entrare in porto, possiamo osservare la fonte Thoùria (impetuosa), facilmente individuabile, anche da lontano, per merito di un punto di riferimento fondamentale: accanto alla fonte si erge, in tutta la sua mole, un grande albero, l’albero genealogico lessicale, l’albero delle parole belle. I rami più bassi (il primo piano) dell’albero genealogico lessicale contengono le parole degli albori, mentre i rami del secondo piano contengono le parole dell’Età assiale della storia. Su questo secondo piano c’è un ramo nuovo che si è formato in questi mesi ed è il ramo che contiene le parole-chiave e le idee-cardine del movimento della sapienza poetica orfica. Queste parole e queste idee noi le abbiamo incontrate strada facendo e hanno formato due cataloghi presentati sotto forma di questionario.

     In questa prima parte troviamo l’elenco delle parole-chiave più significative del movimento della sapienza poetica orfica: possiamo sceglierne non più di tre e scriverle sulla riga apposita nel riquadro.

PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA

parola per parola …

Leggete con attenzione queste parole che stanno sul ramo della sapienza poetica orfica…

l’albero   la maschera   la statua   la prosopopea   il delfino   il mare   il labirinto

la fisica   l’umido   la necessità   il soffio   il numero   il contrario   la logica

la verità   l’opinione   l’apparenza   la radice   la mente

la materia   la misura   l verosimile

Scegliete non più di tre parole-chiave e scrivetele …

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     Nella seconda parte troviamo l’elenco delle frasi che contengono una serie di idee-cardine che emergono dal movimento della sapienza poetica orfica: accanto ad ogni frase c’è un quadretto nel quale possiamo fare un segno (una crocetta) per indicare la nostra scelta, non possiamo sceglierne più di due…

idea per idea …

Scegli non più di due frasi facendo una crocetta nel riquadro…

□  Il principio di tutte le cose [l’arché] è nei fenomeni della natura …

□ Il numero [aritmós] è il “punto fermo” su cui si regge l’Armonia                 

      dell’ Universo …

□  [Panta rei] Tutto diviene e nulla è …

□ L’Uno è Tutto, infinito, immobile, eterno

□ L’Essere è e il Non-essere non è

□ A mescolare tra loro le radici di tutte le cose [rhixomata] intervengono   

       Odio [neikos] e Amore [philotes] …                                    

□ Tutto è in Tutto come stabilito dall’ Intelletto [Noùs]

□  Tutto è Materia: la patria dell’animo virtuoso è l’ intero Universo

□  L’Uomo [anthropos] è misura di tutte le cose: di quelle che sono, per ciò che  

      [in quanto] sono, e di quelle che non sono, per ciò che [in quanto] non sono …

□  Nulla è; se anche qualcosa fosse, non si potrebbe capire; e seppure si   

      riuscisse a capire, non si sarebbe in grado di comunicarlo agli altri

     Dopo aver fatto le nostre scelte (le parole e le idee che ci piacciono di più) vedremo in autunno quale fisionomia assume – per i nostri gruppi di studio – il territorio del movimento della sapienza poetica orfica.

     E ora dobbiamo salutare Erodoto (naturalmente capiterà di incontrarlo ancora nei nostri Percorsi): credo di poter dire che siamo contenti di aver incontrato e conosciuto (un po’) questo personaggio, Di lui adesso sappiamo poche cose ma significative. Le fonti (i grammatici alessandrini) c’informano che Erodoto, ancora giovane, viene coinvolto in un’azione politica proprio dal padre Lyxes e dallo zio Paniassi. I due, infatti, partecipano alla rivolta contro Ligdami, tiranno di Alicarnasso, che riesce comunque con le sue guardie a domare l’insurrezione. I ribelli devono scappare e si rifugiano sull’isola di Samo, a due giorni di navigazione da Alicarnasso verso nord-ovest. Erodoto ha così la possibilità di frequentare la Scuola di Samo: un’istituzione culturale che insegna a coniugare, in modo pratico (soprattutto attraverso la scultura), la parola poesia  con la parola perfezione.

     C’è da fare un inciso per quanto riguarda il catalogo [parola per parola] su cui dobbiamo fare la nostra scelta: ebbene ci accorgiamo che nell’elenco mancano le parole poesia e perfezione. Questa scelta è strategica ed è determinata dal fatto che queste due parole sono già determinanti per il movimento della sapienza poetica orfica. La parola poesia è già un termine scelto in quanto incardinato nel titolo: si parla di sapienza poetica. La parola perfezione è un termine di cui non c’è niente da dire, una parola la cui funzione – come abbiamo studiato – è in relazione al termine poesia nel senso di ciò che è compiuto.

     Erodoto, in fuga, trascorre a Samo alcuni anni, e forse è da qui che parte per i suoi viaggi nel mondo, ed è anche presumibile che Erodoto ad Alicarnasso non abbia messo mai più piede. Erodoto giunge ad Atene nella metà del V secolo a.C.. Le navi, ad Atene, attraccano nel porto del Pirèo e da qui all’Acropoli, all’agorà, ci sono otto chilometri da percorrere a cavallo, e più spesso a piedi. Sappiamo che, quel tempo, Atene è una metropoli internazionale, la più importante città del mondo. Erodoto è solo un provinciale, un non-ateniese, un  meteco cioè uno straniero (letteralmente: uno che ha bisogno del permesso di soggiorno), e come tale è destinato a venir trattato meglio di uno schiavo, ma non alla stregua dei veri cittadini ateniesi. Gli Ateniesi si distinguono per essere una comunità molto sensibile alle questioni di razza, con un forte senso di superiorità e di esclusività, per non dire di arroganza.

     Ma, a quanto pare, Erodoto si adatta rapidamente a vivere nella metropolis anche se c’è un’ulteriore aggravante: dal suo passaporto risulta che ha soggiornato e studiato a Samo, e noi sappiamo che Samo (ricordate l’ammiraglio Melisso?) è avversaria storica di Atene e questo fatto alza probabilmente, nei confronti di Erodoto, l’indice di non gradimento.

     Quando giunge ad Atene, Erodoto ha poco più di trent’anni, è una persona aperta e socievole, un tipo molto simpatico. Ad Atene egli tiene conferenze in cui racconta quello che ha visto nei suoi viaggi, organizza incontri con il pubblico dai quali, probabilmente, ricava da vivere. Conosce persone importanti: Socrate, Sofocle, Pericle.

     Non è un’impresa difficile inserirsi lì: Atene è una piccola città di centomila abitanti, costruita in modo caotico in uno spazio ristretto. Ci sono due luoghi fondamentali che emergono e si distinguono: uno è il centro dei culti religiosi, l’Acropoli, e l’altro è la sede degli incontri, dei comizi, del commercio, della politica e della vita sociale, l’Agorà, la piazza, dove, dal mattino alla sera, la gente si riunisce, parla, discute, tratta, manifesta. L’Agorà è sempre affollata e piena di vita ed Erodoto certamente la frequenta anche per organizzare il suo lavoro.

     Erodoto, ad Atene, non si ferma molto tempo: più o meno nel periodo del suo arrivo, le autorità ateniesi adottano la legge draconiana secondo la quale i diritti politici (i pieni diritti di cittadinanza) spettano solo a chi ha entrambi i genitori nati in Attica, ossia nella regione circostante ad Atene. Erodoto, quindi, non può avere la cittadinanza ateniese e allora decide di lasciare la metropoli e di mettersi in viaggio; poi quando decide di fermarsi viene a stabilirsi nell’Italia meridionale, nella Mega Ellas, nella Magna Grecia, nella colonia greca di Turi, di cui, probabilmente, ha partecipato alla fondazione.

     Non ci meraviglia più il fatto che Erodoto non colga l’occasione per raccontare la storia della fondazione della polis di Turi. Come non ci sorprende il fatto che non abbia mai citato il celebre e famoso architetto Ippodamo di Mileto che, secondo la tradizione, ha fornito il piano regolatore (un piano regolatore all’avanguardia) alla polis di Turi. Erodoto – lo sappiamo – pensa che sia utile tenere fuori dalla Storia gli avvenimenti della cronaca.           

     Erodoto muore, forse, all’età di sessant’anni, ma dove nessuno lo sa. Ce lo immaginiamo mentre trascorre i suoi ultimi anni a Turi, scrivendo il suo libro seduto all’ombra di un platano. Oppure mentre lo detta ad uno scriba, per via della vista indebolita, all’ombra di una quercia. Il tipo della pianta non lo conosciamo: sicuramente però si tratta di un albero genealogico lessicale. Erodoto ha preso appunti nel corso dei suoi viaggi, o si basa solo sulla memoria? A quel tempo la gente aveva una memoria eccezionale, molto più allenata della nostra.

     Può anche darsi che Erodoto sia morto sul ponte di una nave che solcava il Mediterraneo, o magari durante il cammino, dopo essersi seduto a riposare su una pietra, magari sotto un fico (per unire l’utile al dilettevole), da cui non si è più rialzato. Sta di fatto che venticinque secoli fa, in una data non meglio identificata e in un luogo sconosciuto, Erodoto ci lascia. Ma come protagonista della Storia del Pensiero Umano Erodoto non ci abbandonerà mai: sarà sempre al suo posto, sul ponte della nave Sidonia, a seguire la rotta, tenuta saldamente sotto controllo, dal capitano Agenore di Tiro.

     Che cosa abbiamo imparato da questo viaggio? Abbiamo imparato che l’opera di Erodoto, Le Storie, allude al catalogo delle parole-chiave e delle idee-cardine del periodo degli albori, al catalogo delle parole-chiave e delle idee-cardine del periodo dell’Età assiale della storia e anche al catalogo delle parole-chiave e delle idee-cardine del movimento della sapienza poetica orfica che taglia trasversalmente il periodo degli albori e quello dell’Età assiale. Erodoto, ne Le Storie, parla continuamente di coincidenze (chairòi) e di corrispondenze (syntesis): queste due parole attirano l’attenzione di qualcuno. Eccolo, difatti, che avanza, questo personaggio a noi già famigliare: sono settimane che lo evochiamo, è Georg Hegel. E siccome lo conosciamo fin da “giovane” viene spontaneo dire: «Vieni avanti, Hegel!» Ma forse è meglio usare un’altra espressione perché se conosce i fratelli De Rege può aversela a male. Meglio dire allora: «Accomodati, caro Hegel!». Il fatto è che anche l’espressione «Accomodati!» è poco appropriata visto che Hegel, in questo momento, sta fuggendo di qual e di là e non ha nessuna possibilità di accomodarsi.

     Georg Hegel (e lo salutiamo con riconoscenza: se non altro si è degnato di comparire) è venuto ad invitarci a studiare la civiltà greca perché il viaggio che ci propone e che dobbiamo intraprendere nella nostra coscienza risulti più comprensibile. Le parole-chiave che il giovane Hegel ricerca, analizza, studia, impara, utilizza per costruire e realizzare la propria formazione intellettuale sono profondamente radicate nella cultura greca e c’è anche lo zampino di Erodoto. Se andiamo a leggere con attenzione scopriamo che Hegel – anche senza citare esplicitamente Erodoto – manda dei messaggi per farci capire che lui il testo de Le Storie lo conosce. Sono messaggi misteriosi quelli che invia? Ma no: questi messaggi sono coincidenze culturali (chairòi) e corrispondenze intellettuali (syntesis).

     Leggiamo un frammento da un’opera che dobbiamo conoscere un po’ meglio: quest’opera – pubblicata alla fine di marzo del 1807 – ha appena compiuto 200 anni.

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807)

Allora, nella Ionia, nacque la filosofia, allora nacque, se non proprio la scienza, lo “spirito scientifico” che ha dato forma all’Occidente, anzi al mondo moderno. Non si può fare una storia della geografia, della cosmologia, della matematica, della medicina senza partire dalla Ionia. È da allora che l’universo fisico è apparso come uno spazio misurabile e occupato da esseri governati da una medesima legge. È da allora che il pensiero dell’essere umano ha posto a suo fondamento l’osservazione diretta delle cose, scrollandosi di dosso la pesante ipoteca delle tradizioni religiose che rischiano di svuotare l’individuo di ogni autonomia e di ogni ardimento critico.

In confronto alla sapienza millenaria custodita dalle caste sacerdotali d’oriente, la vivacità spregiudicata dei Greci doveva dare l’impressione di una specie di infantile tracotanza, gravida di errori ma anche di forza creativa capace di dare valore simbolico alle cose. Viene a mente quanto disse a Solone, secondo un racconto platonico, un sacerdote egizio: «Voi Greci siete sempre dei fanciulli: restate tutti giovani nelle vostre anime e conservate integra la vostra memoria».

Per fortuna lo Spirito coglie gli avvenimenti umani che con il tempo non si sono dissolti nella dimenticanza e le grandi e meravigliose imprese dell’animo umano non sono rimaste senza gloria.

     Il linguaggio di questo frammento risulta consueto alle nostre orecchie. E poi le ultime tre righe: «Per fortuna lo Spirito coglie gli avvenimenti umani che con il tempo non si sono dissolti nella dimenticanza e le grandi e meravigliose imprese dell’animo umano non sono rimaste senza gloria» che cosa ci fanno venire in mente? Ve lo ricordate l’inizio, l’incipit, de Le Storie di Erodoto? Leggiamolo:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie (incipit)

Questa è l’esposizione che fa delle sue ricerche Erodoto di Turi, affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano nella dimenticanza e le imprese grandi e meravigliose, compiute tanto dai Greci che dagli Stranieri, non rimangano senza gloria

     A Hegel – come possiamo constatare – sono piaciute le parole dell’incipit de Le Storie di Erodoto tanto che le utilizza per definire meglio l’itinerario dello Spirito: il cammino che lo Spirito ha già compiuto nella storia dell’Umanità e che ciascuna e ciascuno di noi può ripercorrere nella propria coscienza. Ecco che cosa significa letteralmente: “Fenomenologia dello Spirito”! E Fenomenologia dello Spirito è il titolo ad una delle opere più complicate della Storia del Pensiero Umano. Quest’opera racconta un viaggio intellettuale, e questo viaggio – breve ma intenso – inizia la prossima settimana.

     Certo che facciamo un bel salto dal V secolo a.C. al 1807! Il salto è lungo ma – come dire – possiamo controllarne la traiettoria attraverso le parole. Il termine Fenomenologia – si constata facilmente – contiene due parole propulsive: fenomeno e logos: quante volte le abbiamo incontrate nel viaggio che abbiamo appena concluso. Sono infatti due parole significative del movimento della sapienza poetica orfica che fanno da ponte.  Spesso le parole sono un tratto d’unione e, in questo caso, sappiamo di poterle definire come parole-belle, come parole-chiave. Chissà di quante “chiavi” disponiamo per aprire alla comprensione – fin dove è possibile – il termine Fenomenologia?

     Bisogna scoprirlo, accorrete: questo Percorso si è concluso ma la Scuola è qui, e l’anno scolastico non è ancora terminato.

     E Agenore di Tiro?

Non lo abbiamo neppure salutato dopo tutto il servizio che ci ha reso

dopo tutti i suggerimenti che ci ha dato?

Chissà chi si nasconde dietro a questa figura?

Ebbene non dobbiamo aver paura perché questo personaggio

renderà agevole ancora il nostro viaggio …

     Come si fa a non finire in rima in un percorso sulla sapienza poetica orfica?...

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 4, 2007