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LO SGUARDO DI ERODOTO SUGLI ATOMI CHE SI MUOVONO NEL VUOTO ...

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007      11 – 19-20   aprile  2007  

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUGLI ATOMI CHE SI MUOVONO NEL VUOTO ...

     La scorsa settimana siamo sbarcati ad Atene ed abbiamo incontrato - in compagnia di Erodoto e di Agenore di Tiro - alcuni importanti personaggi, anche se siamo sbarcati per incontrarne uno in particolare: Anassagora., il tragediografo, ed ha contatti col giovanissimo  Socrate.

     Sappiamo che Anassagora è nato, tra il 500 e il 496 a.C., a Clazòmene, nella Ionia, e che si trasferisce nel 462 a.C. ad Atene dove vive per trent'anni in rapporti di amicizia con Pericle, che abbiamo incontrato e conosciuto la scorsa settimana. Anassagora è maestro di Euripide

     Ad Atene c’è una severissima legge contro la blasfemìa e, questa legge, prende di mira più di una volta Anassagora, che nel 431 a.C. viene accusato di empietà, processato e condannato. La condanna a morte è commutata nell’esilio, per l’appassionata difesa di Pericle. Anassagora si rifugia a Làmpsaco, una città dell’Asia minore, dove muore nel 428 a.C..

     Di Anassagora ci restano numerosi frammenti della sua opera intitolata La Natura. Quest’opera s’inserisce nel movimento della sapienza poetica orfica e rappresenta un punto d’arrivo e di ulteriore partenza nell’evoluzione di pensiero di questa importante corrente culturale. I pensatori di Mileto (Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle: li abbiamo incontrati tutti) hanno scandito l’emergere del pensiero razionale dal grande calderone della religione orfica. Con Anassagora, il pensiero diventa totalmente laico e noncurante dei miti se non come allegorie utili per spiegare concetti razionali.

     Anassagora emigra ad Atene dalla Ionia portando con sé l’eredità dei fisici di Mileto, che hanno saputo tessere l’alleanza tra la razionalità naturalistica e l’ascensione sociale del demos, della parte attiva del popolo, in conflitto con l’aristocrazia. L’Atene di Pericle – come abbiamo studiato la scorsa settimana – accoglie, con Anassagora, l’eredità di Mileto.

     E, accanto a Pericle c’è una donna intellettuale che anch’essa è ionica, anzi viene proprio da Mileto: Aspasia, l’affascinante etèra il cui “salotto”, a dispetto dei suoi denigratori, non è solo una casa di appuntamenti ma è soprattutto un luogo di spregiudicato dibattito intellettuale. La casa di appuntamenti è “tollerata” e fa da copertura al “salotto” perché il dibattito intellettuale, a causa della legge sulla blasfemìa, è meno tollerato. Al centro di questo dibattito – a cui contribuisce anche di Zenone di Elea in visita ad Atene (un visita che dura vent’anni) – c’è Anassagora, finché gli avversari di Pericle non riescono a metterlo sotto processo insieme ad Aspasia. L’accusa contro Anassagora è di empietà, ed è documentata soprattutto con le sue affermazioni cosmologiche, fra le quali la più grave è che «il sole è pietra e la luna è terra». Ma che razza di accusa sarebbe questa? Ci chiediamo. Ridurre gli astri a pura e semplice materia equivale – secondo la legge sulla blasfemìa – a negare brutalmente la loro divinità.

     Per questo Anassagora viene condannato, viene graziato con l’esilio ma, in esilio, si lascia morire. Anassagora – e lo abbiamo già studiato la scorsa settimana – sostiene che la realtà non può non avere una connotazione materiale, straordinariamente diversificata, formata dalla commistione di innumerevoli elementi, le omeomerìe [homoiomerèia], le particelle materiali. Le omeomerìe, ciascuna delle quali ha i caratteri dell’essere di Parmenide [sono «eterne», si trovano «ovunque» e permangono «identiche a se stesse»] sono per Anassagora, infinite tanto per il numero quanto per la qualità. Anassagora – metaforicamente – considera le omeomerìe [homoiomerèia] come se fossero i semi di tutte le cose. L’ipotesi di Anassagora nasce da una osservazione molto elementare: se noi ci nutriamo (anche per un certo periodo di tempo) di pane e di acqua, due elementi in apparenza semplicissimi, noi cresciamo in tutte le parti del corpo: carne, ossa, arterie, peli. Questo significa che nel pane e nell’acqua ci sono, «non visibili alla mente», i semi della carne, delle ossa, delle arterie, dei peli. «Come potrebbe – scrive Anassagora – il capello nascere da ciò che non è capello o la carne da ciò che non è carne». Quando il pane si trasforma in carne, in realtà – riflette Anassagora – non c’è un passaggio dell’Essere al Non-essere (il pane che cessa di essere pane) e non c’è un passaggio dal Non-essere all’Essere (la carne che comincia a essere), ma c’è soltanto una trasposizione di semi da un miscuglio (il pane) a un altro miscuglio (la carne), perché nel pane ci sono infiniti semi, ci sono le omeomerìe [homoiomerèia], e, tra questi infiniti semi, ci sono anche quelli della carne. Se il pane è pane è solo perché in quella particolare aggregazione i semi del pane hanno una predominanza.

     Questo è il ragionamento che porta Anassagora ad affermare che: «tutto è in tutto». Questa affermazione – che abbiamo già conosciuto la scorsa settimana – vale non solo per le cose sottoposte alla nostra esperienza (come il pane e la carne dell’esempio che abbiamo fatto) ma anche per ciascun seme, per ciascuna omeomerìa. Non solo in ciascun seme sono compresi tutti gli altri semi ma in ogni sua particella, dato che ogni seme, ogni omeomerìa, è divisibile all’infinito, come vuole la logica di Zenone di Elea che insegna ad Atene.

     C’è però una differenza: che per Anassagora la divisione all’infinito non conduce al nulla ma all’infinitamente piccolo. Anassagora ha il merito di avere introdotto il discorso sul doppio infinito, quello dell’infinitamente piccolo e quello dell’infinitamente grande. Noi capiamo che c’è anche una contraddizione nella tesi di Anassagora sugli elementi semplici, qualitativamente diversi l’uno dall’altro ma tutti compresenti in ciascuno e tuttavia divisibili ciascuno all’infinito.

     Anassagora mette la Scienza sulla strada dello studio degli elementi semplici. Aristotele scrive che: «L’incongruenza di Anassagora sta nel non aver distinto la qualità e il suo substrato, nel non aver distinto la sostanza che “sta sotto” le qualità». Per sanare, per dare una certa coerenza logica a questa incongruenza, interviene un certo Democrito che incontreremo tra breve.

     Anassagora scrive – e la scorsa settimana lo abbiamo studiato – che, in principio, nel miscuglio indifferenziato degli elementi, delle omeomerìe, si determina un movimento rotatorio che forma un vortice il quale provoca la separazione dei semi a seconda della loro maggiore o minore pesantezza, e produce una loro riaggregazione infinitamente diversificata e mutevole, di cui le nascite e le morti non sono che episodi apparenti, dato che nulla nasce e nulla veramente si distrugge.

     Ma chi ha svegliato nel cuore del miscuglio originario questo vortice rotatorio?

     Nella risposta a questo interrogativo c’è il momento geniale del sistema di Anassagora, il concetto che ha dato addito ad una riflessione successiva che non si è più interrotta. A mettere in moto il vortice originario è stato il Noùs, l’Intelletto. E con questo concetto abbiamo concluso l’itinerario scorso. E, allora, dopo aver preso la rincorsa, ripartiamo rileggendo, da La natura di Anassagora il famoso frammento 12.

LEGERE MULTUM….

Anassagora di Clazòmene, La natura  [Fr. 12]

Tutte le altre cose partecipano di tutto: l’Intelletto [Noùs] invece è infinito e autonomo, e non si mescola a nulla, ma è solo e chiuso in se stesso È la più sottile e la più pura delle cose: ha perfetta conoscenza di tutto e il supremo dominio su tutto, e per quante cose abbiano esistenza, grandi o piccole che siano, su tutte ha potere l’Intelletto. Tale e tanto è questo potere che fu l’Intelletto ad avviare il processo iniziale: ha fatto cominciare il rivolgimento più piccolo, poi la rivoluzione è diventata più grande e diventerà sempre più grande. Tutte le cose che si mescolano, si separano e si dividono, la Mente le ha conosciute; e qualunque cosa doveva essere o è stata in passato e ora non è più, e ciò che ora esiste e qualsiasi cosa esisterà un giorno, tutto l’Intelletto ha ordinato

     Il testo di questo frammento – fin dall’antichità – ha dato origine ad innumerevoli questioni. Platone e Aristotele rimproverano (questo significa che, da questo testo, sono stati invitati a riflettere) ad Anassagora il fatto che l’Intelletto [il Noùs], come lo pensa lui, provvede al movimento delle cose (a creare il vortice originario) però senza ordinarlo a un fine, cioè in modo puramente meccanico (come fosse un frullatore?). L’Intelletto [il Noùs] di Anassagora non appare come una Mente flessibile e creativa ma come uno strumento rigido e meccanico.

     Anassagora probabilmente si rende conto che la sua intuizione può andare al di là dei limiti fisici che lui non vuole superare e quindi, volutamente, non attribuisce all’Intelletto [al Noùs] un’intenzione finalistica, una capacità creativa in modo che l’Intelletto [il Noùs] non possa essere considerato una Divinità o anche semplicemente lo Spirito. Quindi l’Intelletto [il Noùs] viene descritto da Anassagora come un concetto simile a quello dell’aria [aer] di Anassimene (che, secondo la tradizione, sarebbe stato maestro di Anassagora) e simile anche al fuoco di Eraclito: vale a dire che l’Intelletto [il Noùs] assomiglia a due concetti che ne fanno un principio vitale interno al cosmo fisico, separato dalle cose e insieme presente in ciascuna di esse così come l’anima in un corpo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se l’intelletto è conoscenza a quale di queste cose, ultimamente avete avuto l’occasione di avvicinarvi più volentieri: un quadro, una poesia, una fotografia, un teorema di geometria, una pagina musicale… o a che cos’altro? 

Scrivete...

     Naturalmente queste virtù limitate che Anassagora attribuisce all’Intelletto [al Noùs] deludono e spingono alla critica Platone e Aristotele, cioè la generazione successiva dei filosofi ateniesi. La scorsa settimana abbiamo verificato – non so se avete approfondito la ricerca – che Platone cita Anassagora e la sua opera intitolata La natura (c’informa anche sul prezzo) nel dialogo Apologia di Socrate. Ma Platone cita anche Anassagora, nel dialogo intitolato Fedro. Fedro è, dal punto di vista letterario, uno dei capolavori di Platone, ed è uno dei dialoghi che contiene l’elaborazione del concetto di anima. C’è un pathos particolare in quest’opera che è l’unica a porre il luogo d’azione “alle porte della città” in un posto sacro dove si sente il canto delle cicale (delle Muse), e dove si percepisce la presenza del dio Pan.

      Ma questa è materia di un altro Percorso, venturo, a noi ora interessa e la citazione di Platone – beffarda, sarcastica, pungente – che contiene la critica al concetto dell’Intelletto [del Noùs] di Anassagora come strumento rigido finalizzato solo a muovere le cose e non a creare la conoscenza sulle cose. Leggiamo il testo di Platone:

LEGERE MULTUM….

Platone, Fedro

«Avendo udito un tale, che diceva di aver letto il libro dove Anassagora afferma essere l’Intelletto l’Ordinatore e la Causa di tutte le cose, godetti di questa spiegazione e pensai che, se la cosa fosse stata in questi termini, l’Intelletto avrebbe messo in ordine tutto e avrebbe disposto ogni cosa nel modo migliore Ragionando in tal modo ero tutto contento e credevo di aver trovato in Anassagora la verità sulla causa degli esseri, secondo il mio intendimento, e che egli mi avrebbe detto in primo luogo se la terra è piatta o è rotonda, e, dopo avermelo detto, me ne avrebbe spiegato lo scopo e la necessità sennonché, andando avanti con la lettura, ho visto che il mio eroe non si serviva affatto dell’Intelletto e non gli attribuiva nessuna causa nell’ordinamento delle cose, bensì ricorreva, come al solito, all’aria, all’etere, al fuoco, all’acqua e ad altre strane cose» …

     Teniamo conto che quando Platone scrive il Fedro (nel 370 circa a.C.) Anassagora è morto da sessant’anni e le idee hanno fatto la loro strada. Tuttavia dobbiamo dire che il pensiero di Anassagora sull’Intelletto acquista grande rilievo se collocato nel contesto sociale, nel dibattito culturale e nella polemica intellettuale del suo tempo (circa un secolo prima di Platone e di Aristotele). Anassagora è certamente una persona che si dedica alla riflessione e potremmo definirlo anche un mistico, ma in senso prettamente laico: non è un metafisico in senso religioso, quindi è normale che Platone e Aristotele se ne accorgano.

     Come il suo amico Pericle trasferisce il tesoro della Confederazione ellenica da Delfi ad Atene, secolarizzando, con un gesto spregiudicato, un patrimonio religioso, così Anassagora utilizza le tradizioni mitiche precedenti, della sapienza poetica orfica, per operare una sintesi rigorosamente laica. In questa sintesi l’Intelletto potrebbe sembrare un “creatore”, ma Anassagora vuole che questo strumento serva a dare una razionalità autonoma al cosmo, diventato materiale in ogni sua parte, terrena o celeste.

     E Anassagora, in un suo frammento, descrive perfino il metodo della ricerca razionale che sarà approfondito e adottato dalla scienza moderna.

LEGERE MULTUM….

Anassagora di Clazòmene, La natura  [Fr. 21]

Per debolezza dei sensi non siamo capaci di discernere il vero: ma possiamo valerci dell’esperienza, delle memorie e dell’arte [techne] nostre proprie: perché ciò che appare è un fenomeno di ciò che non si vede con gli occhi                                                       

     I dati della conoscenza sensibile vanno organizzati anche con l’uso di strumenti (techne) e dunque di tecniche appropriate, e solo allora diventano esperienza. E l’esperienza, una volta conservata nella memoria, costituisce un patrimonio fatto di confronti utili alla ragione per ulteriori ipotesi. Anche Anassagora ha una sua teoria dell’evoluzione, scrive: «I primi uomini nacquero dall’umido, per poi nascere gli uni dagli altri; i maschi dalla parte destra dell’utero e le femmine dalla parte sinistra».

     Ma uno dei frammenti più interessanti dell’opera La natura di Anassagora è quello cosiddetto: “delle mani”. «Gli esseri umani diventano i più intelligenti dell’universo, essendo i soli ad avere le mani». Questa è un’intuizione molto significativa che gli studiosi odierni (gli etologi e i paleontologi in particolare) tendono a convalidare, ma questa affermazione è stata anche molto criticata. (Il solito) Aristotele, per esempio, non è d’accordo, e scrive in un’opera intitolata Le parti degli animali: «Secondo Anassagora l’essere umano è il più sapiente dei viventi perché ha le mani. A mio avviso sarebbe più ragionevole dire che ha le mani perché è il più intelligente». Secondo Aristotele prima viene l’intelligenza e poi lo sviluppo dell’uso delle mani, ma 

     gli etologi e i paleontologi moderni sono più propensi a pensare – in linea con Anassagora – che il possesso delle mani, da parte degli ominidi, abbia contribuito allo sviluppo dell’intelligenza. Ma cogliamo l’occasione per prendere in considerazione le nostre mani, che sono un bene prezioso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Che cosa dicono le vostre mani?… Le mani servono anche per gesticolare: quando si parla, quando si comunica senza parlare, quando si ritualizza… Quale gesto delle vostre mani volete descrivere? 

Scrivete – e meno male che ci sono le mani - quattro righe in proposito…

     Sapete che una volta a Scuola si bacchettava sulle mani? Non potete saperlo (siete nate e nati tutti dopo il 1956, o no?) perché questo succedeva tanto tempo fa: ai tempi di Giulio Cesare. Rileggiucchiando le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (che ci è diventato famigliare insieme a molti altri nostri compagni di viaggio), nella vita di Giulio Cesare ho scoperto questo frammento.

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Vite parallele. Cesare

Era la festa dei Lupercali [15 febbraio: antica festa pastorale propiziatrice della fertilità femminile], a proposito della quale molti scrivono che era in antico una festa di pastori, e che ha qualche relazione con le feste licee [sul monte Liceo in Arcadia è nato Pan] dell’Arcadia. Molti giovani nobili, e anche magistrati, corrono nudi per la città colpendo per gioco e per ridere, con cinghie di cuoio peloso, i passanti; molte donne, anche dell’aristocrazia, non scansano i colpi, convinte che se sono incinte sarà fortunato il parto, se sono sterili concepiranno: offrono i loro corpi come gli scolari a scuola protendono le mani alle percosse

     Questo gustoso frammento è un ulteriore invito alla lettura delle Vite parallele di Plutarco di Cheronea.

    Per Anassagora l’essere umano si distingue dagli animali non tanto perché è dotato di ragione ma perché possiede le mani ed è quindi in grado di adoperare e trasformare le cose: questo concetto di Anassagora ricorda molte correnti filosofiche dell’800 e ricorda anche il pensiero di Karl Marx (1818-1883). A proposito di Karl Marx dobbiamo dire che si è laureato a Jena (e qui ci viene in mente il giovane Hegel e non solo lui ) in filosofia, nel 1841, con una tesi che comprende anche il pensiero di Democrito di Abdera. Abbiamo, prima, già citato Democrito e anche lui è emigrato nella grande metropoli  dell’Attica e, quindi, lo possiamo incontrare ad Atene.

     Democrito è nato ad Abdera: una florida cittadina della Tracia meridionale fondata dai Fenici: la tradizione mitica racconta che è stata fondata da Eracle. Oggi l’antica Abdera corrisponde al villaggio di Àvdira e lo potete individuare sull’atlante e trovare sulla guida della Grecia e sulla rete. Otto chilometri più a sud di Àvdira, sul mare, ci sono gli interessanti scavi della città ellenistica, con mura e torri rifatte in epoca bizantina (intorno al VI secolo) e alcune basiliche paleocristiane.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Fate quindi una visita – con l’atlante e con la guida della Grecia – all’antica Abdera e all’odierna Àvdira orientandovi sul centro più grande della zona che è meta della vostra visita: la cittadina di Xànthi…  Buon viaggio…

     Democrito è nato tra il 472 3 il 457 a.C. e, ad Abdera, sarebba stato discepolo di Leucippo, che viene considerato come il fondatore della scuola atomistica. E allora, a questo punto, dobbiamo domandarci che è Leucippo? Parlare di Leucippo non è una cosa facile perché di lui si sa poco e perché anche c'è chi sostiene che non sia mai esistito e che Leucippo e Democrito siano la stessa persona. Ma noi vogliamo comunque cavalcare la tigre (da queste parti - nella Ionia - bisognerebbe dire "cavalcare il toro" o "il delfino") della tradizione mitica.

     La data di nascita di Leucippo viene prudentemente, dalle esperte e dagli esperti, collocata tra il 490 e il 470 a.C.. Su dove sia nato i pareri sono discordi: Diogene Laerzio (che continua ad accompagnarci in questo viaggio), nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

C’è chi sostiene che Leucippo è nato a Mileto, chi a Elea, chi ad Abdera e chi in nessun luogo: Epicuro, il quale, pur professandosi un estimatore delle teorie atomiste, nega, nella Lettera a Euriloco, che sia mai esistito un filosofo chiamato Leucippo.

     A dir la verità questa affermazione di Epicuro non sembra credibile: Aristotele nella sua opera La Generazione e la Corruzione nomina Leucippo ben undici volte ed è alquanto improbabile che uno meticoloso come Aristotele si sia messo a ragionare su un filosofo immaginario. Sulla scia di Aristotele, le studiose e gli studiosi, hanno ipotizzato che Leucippo sia nato a Mileto e che sia vissuto lì fin verso il 450 a.C., fino ai tempi della rivolta di Mileto contro i Persiani (un periodo che noi ben conosciamo grazie a Le Storie di Erodoto). Poi, probabilmente, – come quasi tutti i personaggi che abbiamo incontrato – Leucippo comincia a viaggiare per il mondo. La presenza di Leucippo ci viene segnalata a Elea, dove rimane per un certo periodo di tempo a polemizzare violentemente con Zenone: a quanto pare hanno idee diverse. Poi Leucippo, da Elea si sposta ad Abdera, la città di mare della Tracia – di cui ci siamo occupati poc’anzi in funzione della visita – che si trova a mezza strada tra la Grecia e la Ionia.

     Leucippo ad Abdera fonda una Scuola e a questa Scuola s’iscrive uno studente in possesso di grandi capacità intellettuali: Democrito [che giudica in nome del popolo]. Democrito è uno studente che è stato capace di offuscare la figura del maestro da suscitare dei dubbi sulla sua stessa esistenza. Il fatto è che Democrito non ha mai nominato Leucippo nelle sue numerose opere. E tutti gli storici – con la sola eccezione di Diogene Laerzio – citano sempre Leucippo in coppia con Democrito, rendendo difficile distinguere il pensiero del maestro da quello dell’allievo.

     A Leucippo viene attribuita un’opera, un poema filosofico, intitolato il Grande Ordinamento: ebbene anche questo testo è stato inserito nel Corpus Democriteum ed è diventato anch’esso uno scritto di Democrito. Al di là dell’invadenza di Democrito – che è senza dubbio un personaggio di valore – è doveroso riconoscere a Leucippo il merito di avere messo a punto due concetti fondamentali della Storia del Pensiero: il vuoto e l’atomo.

     Del vuoto, tutti i pensatori che abbiamo incontrato, o non ne hanno parlato oppure si sono affrettati a negarne l’esistenza. Empedocle, con l’esperimento della fanciulla che immerge nell’acqua una brocca di rame capovolta, ha dimostrato che quella cosa che chiamiamo «aria» ha una sua consistenza e non corrisponde affatto al vuoto. Anassagora ci ha mostrato un otre pieno d’aria per farci toccare con mano lo «spessore» del vuoto. Parmenide, non solo dà per scontata l’inesistenza del vuoto, ma addirittura se ne serve per dimostrare l’impossibilità del movimento: «L’Uno» dice «è immobile; se potesse muoversi dovrebbe occupare uno spazio vuoto, il che è impossibile, quindi il movimento non esiste».

     Per quanto riguarda l’atomo, bisogna riconoscere che Anassagora con le sue omeomerìe (i semi) si è avvicinato a questo concetto. La sostanziale differenza tra le omeomerìe di Anassagora e gli atomi di Leucippo sta nel fatto che le prime (le omeomerìe) sono suddivisibili all’infinito, i secondi (gli atomi), oltre ad essere piccolissimi, vengono immaginati come particelle solide che non è possibile tagliare, che non è possibile rompere. In pratica gli atomi – secondo Leucippo – sono gli ultimi corpuscoli in cui è possibile dividere la materia. E infatti atomos, in greco, significa appunto indivisibile. Questi due concetti – del vuoto e dell’atomo – messi a punto da Leucippo vengono sviluppati da Democrito.

     Ebbene, che cosa sappiamo su Democrito? Abbiamo già raccolto alcuni dati, ma è comunque interessante seguire la trafila della tradizione mitica per conoscere quello che ci viene raccontato su di lui. Diogene Laerzio – nostro puntuale informatore – scrive che Democrito è il più piccolo di quattro figli: aveva due fratelli, Damaste ed Erodoto (omonimo del nostro accompagnatore), e una sorella di cui non si conosce il nome. Democrito nasce e cresce in una ricca famiglia di latifondisti e, quando muore il padre, rinuncia alla sua parte di terreni e si fa dare solo un po’ di soldi in contanti. Deve però essere una bella sommetta quella che riceve (erano ricchi!) perché Diogene Laerzio parla di cento talenti, come dire circa cinquecentomila euro. Democrito accetta questo denaro – scrive Diogene Laerzio – solo per poter realizzare un progetto a cui lui tiene particolarmente: quello di girare tutto il mondo e di incontrare quanti più maestri fosse stato possibile.

     Questo progetto di Democrito è documentato, è ricordato nella letteratura: facciamo un esempio, che è anche uno dei più famosi. Il poeta latino Orazio (65-8 a.C.) – che ultimamente (ai primi di marzo) abbiamo incontrato sulla spiaggia di Velia, l’antica Elea, mentre faceva i bagni per curarsi i reumatismi – descrive nella sua Epistola prima (la prima Lettera), con una pennellata poetica, lo spirito di Democrito viaggiatore. Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Epistole [I  12,12]

Qual meraviglia se il bestiame entra nei campi di Democrito e guasta le messi, mentre l’animo di lui, immemore del corpo, se ne va errando veloce   

     Democrito, secondo la tradizione, – come quasi tutti i personaggi che abbiamo incontrato – è stato un viaggiatore instancabile: ha studiato l’astronomia con i Caldei, la teologia con i Magi e la geometria con gli Egizi. Diogene Laerzio c’informa che Democrito ha visitato l’Etiopia, si è bagnato nel Mar Rosso e ha raggiunto perfino l’India dove ha avuto modo di conoscere i Gimnosofisti [gymnos, in greco, significa nudo, quindi ci vengono in mente i “santoni indiani”]. Clemente Alessandrino nella sua opera intitolata Stromata [Tappeti] riporta un’affermazione fatta da Democrito che fa invidia a Erodoto. Leggiamola questa affermazione:

LEGERE MULTUM….

Clemente Alessandrino, Stromata [Tappeti]  (tra il 202 e il 215)

«Io, Democrito, tra i miei contemporanei, sono quello che ha percorso la maggior parte della Terra, facendo ricerca delle cose più strane; e vidi delle terre numerosissime; e udii la maggior parte degli uomini dotti; e nella composizione di figure geometriche, con relativa dimostrazione, nessuno mi superò»

     Democrito – scrive Diogene Laerzio – nei suoi viaggi è stato sempre aiutato dai re di Persia, e il re Serse, quando ha attraversato la Tracia all’epoca della seconda guerra persiana, è stato ospite a casa di suo padre. Naturalmente Democrito capita anche ad Atene e qui – sostiene Diogene Laerzio – «non si curò di diventare noto perché disprezzava la gloria. Egli conobbe Socrate ma non fu conosciuto da Socrate e le sue parole furono: Venni ad Atene e nessuno mi conobbe».  Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ha avanzato anche un’ipotesi che deve essere spiegata. Platone ha scritto un’opera (per lo meno, a lui viene attribuita) che s’intitola I rivali d’amore. Ebbene, Diogene Laerzio sostiene che Democrito potrebbe essere il personaggio anonimo, il giovanotto sconosciuto che, in quest’opera, parla con Socrate. Socrate infatti, in questo dialogo, sostiene che il filosofo è come un pentatleta (il pentatlon è un’antica disciplina in cui l’atleta deve misurarsi in cinque discipline diverse), una persona cioè capace di essere il primo nella graduatoria finale, pur non avendo vinto in nessuna specialità particolare, e Democrito, per l’appunto, si vanta di essere un esperto in Fisica, in Etica, in Scienze Enciclopediche, in Arte e in Matematica.

     Quando torna ad Abdera, dopo tutti questi viaggi, non ha più nemmeno una dracma e allora non può far altro – scrive Diogene Laerzio – che andare a vivere in casa dei suoi fratelli come parente povero. Ma una legge della Tracia – prosegue Diogene Laerzio – punisce il cittadino che dilapida le sostanze ereditate dal padre, e la pena consiste nel non poter essere sepolto in patria. Democrito viene condannato come dilapidatore e, allora, per evitare di esser buttato in mare dopo morto, legge in pubblico – scrive Diogene Laerzio – uno dei suoi libri: la Grande Cosmologia [che in realtà assomiglia molto all’opera di Leucippo intitolata il Grande Ordinamento]. Le cittadine e i cittadini di Abdera, colpiti da tanta scienza, non solo gli garantiscono i funerali a spese dello Stato, ma – scrive Diogene Laerzio – fanno una colletta e gli restituiscono pure i cento talenti.

     Dalla Raccolta di Diogene Laerzio il personaggio di Democrito appare assai contraddittorio: da una parte è un burlone, sempre pronto a ridere e a scherzare, dall’altra è un serio studioso che ama ritirarsi in solitudine. Probabilmente in Democrito ci sono entrambi questi aspetti: non a caso è stato soprannominato contemporaneamente sia il Derisore che il Sapiente. Celebre in tutta la Grecia è la risata fragorosa di Democrito. Per questo motivo – scrive Diogene Laerzio – è stato sempre criticato nei circoli intellettuali ateniesi. Di lui si dice: «È di Abdera, dove di solito nascono gli idioti».

     Ci sono alcuni paesi che vengono bersagliati in questo senso e questo nasce anche dalla rivalità che si sviluppa tra le varie polis (permangono ancora – qui in Toscana per esempio – i modi di dire fortemente ironici tra Pisani, Fiorentini, Livornesi). Uno dei paesi bersagliati, per esempio, è Nazareth. Nella letteratura dei Vangeli tutti si domandano come sia possibile pensare che il Messia possa venire da Nazareth, un posto «dove di solito nascono gli idioti».

     E qui, a questo proposito, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo (senza perdere il filo) aprire una parentesi. Democrito di Abdera – in particolare, tra i filosofi antichi – ha avuto molto successo nel periodo che sta a cavallo tra l’Illuminismo e il Romanticismo. Nel Percorso sul Romanticismo titanico, nell’anno 2004, ci siamo già occupati di questo tema ma, ora, dobbiamo riprenderlo da un’altra angolazione: allora noi guardavamo verso l’Atene del V secolo a.C. dalla Sassonia (dalla Germania) del 1800, questa sera, da l’Atene del V secolo a.C., torniamo a dare uno sguardo alla Sassonia del 1800.

     Che cosa significa questo? Significa che dobbiamo compiere una breve passeggiata nel territorio del Romanticismo: per essere più precisi dobbiamo entrare nel ducato (è un momento in cui sul suolo tedesco ci sono tanti piccoli Stati) di Sassonia-Weimar. Questo ducato è governato da una donna: la duchessa Anna Amalia di Sassonia-Weimar, la quale – rimasta vedova – prende su di sé la responsabilità del governo del piccolo ducato e riesce, con grande intelligenza, a far diventare – ai primi dell’800 – la città di Weimar simile all’Atene del V secolo a.C.. Anna Amalia si cura soprattutto della formazione culturale, dell’educazione intellettuale dei suoi figli: ha due figli Carlo Augusto e Costantino, e in particolare vuole occuparsi della formazione del primogenito Carlo Augusto, in modo da prepararlo ad assumere degnamente il governo di quel piccolo Stato.

     La duchessa Anna Amalia invita nella capitale del suo piccolo Stato molte e molti intellettuali (persone che abbiamo incontrato a suo tempo) radunandoli intorno ad un Cenacolo perché possano costruire (anche se non era cosa facile farli lavorare insieme) un progetto culturale che possa avere una ricaduta positiva sulla convivenza sociale, sull’economia, sulla politica dello Stato: un’esperienza veramente degna di nota. Adesso noi non facciamo neppure l’elenco di tutti i personaggi che sono passati dal Cenacolo intellettuale del programma culturale di Weimar. Concentriamo la nostra attenzione – è solo una parentesi quella che abbiamo aperto – su una sola persona.

     La duchessa Anna Amalia chiama a corte, come precettore del figlio, Christoph Martin Wieland: un professore di filosofia, ma soprattutto uno scrittore, un poeta. Ora, al di là delle chiacchiere (sembra che lo scrittore e la duchessa si piacessero), perché la duchessa Anna Amalia invita proprio Wieland alla corte di Weimar a occuparsi dell’educazione dei figli? Non certamente soltanto per ragioni di simpatia e di affetto, ma le ragioni della scelta stanno in quello che Wieland ha prodotto come intellettuale.

     Chi è Christoph Martin Wieland? L’esperienza culturale di Christoph Martin Wieland (1733-1813) è esemplare, e ricalca quella di molti intellettuali europei del settecento. Wieland cresce e viene educato – come Kant – nella tradizione pietista: la corrente più intransigente del movimento protestante, e, fino a trent’anni coltiva un pensiero mistico-religioso, poi aderisce – come Kant – alle idee dell’Illuminismo e, il suo modo di pensare, diventa laico, con un accento di carattere politico, e anche un po’ libertino, nel senso di anti-conformista.

     Christian Martin Wieland è autore di molte opere (saggi, poemi, romanzi) importanti: noi siamo venuti su questo territorio per occuparci di una sola delle sue opere, che ci riguarda. A Weimar, nel 1781, Christian Martin Wieland pubblica (ne ha pubblicati altri precedentemente) un romanzo satirico che, in parte, aveva già messo in circolazione dal 1774, a puntate, sulle pagine della rivista Mercurio tedesco: questo romanzo s’intitola Gli Abderitani. Qual è il significato di questo titolo? Gli Abderitani sono gli abitanti della città di Abdera e ora si capisce anche perché abbiamo aperto questa parentesi. Questo romanzo è scritto con lo stile delle opere di Voltaire – cioè in perfetto stile illuminista – e consiste in una serie di episodi che avvengono in Abdera, nel periodo della piena fioritura della civiltà ateniese.

     Sappiamo già che gli Abderitani, nell’antichità, hanno avuto – soprattutto presso gli Ateniesi e i Romani – una fama particolare: sono considerati gente sciocca e sempliciotta: dei bischeri! Da questo concetto Wieland prende spunto – ne fa un pretesto – per fare ironia, sulla superficialità, sulla banalità, che lui riscontra nella società in cui vive. Questo non è un tema – purtroppo – che è passato in secondo piano: si tramanda da Atene, a Weimar, fino ai nostri giorni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è qualcosa, nella società o nella vostra vita (perché nessuno è immune), che voi considerate “superficiale”, “banale”, che, oggi, v’infastidisce particolarmente? 

(Vedete degli  Abderitani in circolazione?)… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Gli Abderitani – scrive Wieland – prendono ogni parola, detta in metafora, per pura verità. Si lasciano trasportare dalla loro fantasia, e agiscono sotto l’impulso delle prime impressioni, senza riflettere, passando con rapidità e senza alcun nesso logico da un’azione all’altra. Ignorano completamente l’importanza dell’arte, della filosofia e della scienza, mentre le frivolezze diventano “eventi”, diventano “faccende di Stato”. Una sola cosa importa agli Abderitani: imitare la grande  Atene e sentirsi pari agli Ateniesi.

     Per descrivere – in modo satirico – la mentalità frivola degli Abderitani lo scrittore utilizza il personaggio di Democrito di Abdera e ora si capisce sempre meglio perché abbiamo aperto questa parentesi. Christian Martin Wieland, nel testo del suo romanzo, approfitta anche per “spiegare” che Democrito di Abdera, discepolo di Leucippo ha scoperto gli atomi e ha fondato la Scuola atomistica (che l’Illuminismo considera con molto interesse): non tutti erano grulli ad Abdera, ma la stragrande maggioranza – secondo la tradizione – era considerata tale. Democrito – scrive Wieland – dopo dieci anni di viaggi per il mondo, torna in patria con idee nuove e ragionamenti nuovi: ha imparato molte cose viaggiando, soprattutto in Oriente – e vorrebbe riformare la vita, gli usi, i costumi della città secondo le esperienze che ha fatto. Ma gli Abderitani non ne vogliono sapere, ritengono che ogni rinnovamento, in Abdera, sia un male e sia un errore, anzi: «per salvarsi dalla sventura di avere altri cittadini come Democrito, gli Abderitani fanno una legge con la quale si proibisce ai giovani di viaggiare». Un giorno – scrive Wieland – ad Abdera arriva Euripide con la sua compagnia  per rappresentare una sua tragedia in versione musicale. Ma, i bravi Abderitani, che in un primo momento sono entusiasti della presenza del grande tragediografo nella loro città, non gradiscono affatto la rappresentazione e, annoiati dai temi esistenziali proposti dalla “tragedia”, abbandonano il teatro prima ancora che lo spettacolo si concluda, preferiscono il loro teatro: il varietà, che non affatica troppo il cervello e non mette la mente in movimento.

     Tutta la seconda parte del romanzo di Wieland verte su un singolare processo intentato da un mercante d’Assiria a un dentista di strada. Il mercante ha affittato al dentista, un asino, per svolgere il suo lavoro di cavadenti in città: i dentisti allora erano ambulanti. Il dentista, attraversando un luogo assolato della città, si siede all’ombra dell’asino. Il mercante pretende di essere pagato anche per l’ombra fornita dal suo asino al dentista, e tutta la città finisce per essere coinvolta in questo terribile caso. Si formano subito: il partito dell’ombra e il partito del cavadenti e il processo non avrà mai fine. Intanto, tra gli Abderitani, si scatena una controversia religiosa di grandissima importanza intorno ai rospi sacri a Latona: in quale tonalità dovessero cantare per rendere onore alla dèa? Poi una serie di contrattempi fa sì che una gran parte della popolazione di Abdera emigri verso nuovi lidi. E così gli Abderitani – scrive ironico Wieland – si sparpagliano per il mondo, pur rimanendo sempre Abderitani e, molti di loro, sono arrivati fin qui! (Non qui: quelli a Scuola non ci vengono, quelli sono coloro che quando li incontrate esclamano meravigliati: «Vai a Scuola? Ma che cosa vuoi diventare?».

     Ne Gli Abderitani, Wieland, prende soprattutto di mira la sua città natale, Biberach, raffigurando se stesso in Democrito, inascoltato e sbeffeggiato dai suoi concittadini sciocchi e superficiali. Wieland, nelle sue opere, e anche in questa, difende il cosmopolitismo (siamo cittadini del mondo) contro lo stretto nazionalismo che si andava affermando: proprio lo studio delle tradizioni popolari (degli stampi, dei modelli culturali delle origini) deve servire per allargare i nostri orizzonti non, scrive Wieland: «Per chiuderci in un localismo asfittico, inconcludente e pericoloso». Leggiamo – per chiudere la parentesi – una pagina da Gli Abderitani:

LEGERE MULTUM….

Christoph Martin Wieland,  Gli Abderitani   (1781)

Una volta venne loro in mente che una città come Abdera era giusto possedesse anche una bella fontana. Doveva essere eretta nel mezzo della loro grande piazza del mercato, e per sopperire alle spese fu istituita una nuova imposta. Fecero venire un celebre scultore da Atene per eseguire un gruppo di statue, le quali rappresentavano il dio del mare su un cocchio tirato da quattro cavalli marini e circondato da ninfe, tritoni e delfini. I cavalli marini e i delfini avrebbero dovuto schizzare dalle narici copiosi getti d’acqua. Ma quando tutto fu pronto, essendoci sulla piazza del mercato solo un umile pozzo, si trovò che vi era appena abbastanza acqua per inumidire il naso di un unico delfino, quindi al momento in cui si fece sprizzare l’acqua parve che tutti quei cavalli marini e tutti quei delfini avessero il raffreddore. Decisero allora di trasportare tutto il gruppo di statue nel tempio di Nettuno, ma, anche lì, dove sgorgava solo un esile zampillo naturale la fontana non funzionava! Ogni volta che il gruppo di statue veniva mostrato a qualche forestiero, il custode con grande serietà esprimeva in nome dell’esimia città di Abdera il rincrescimento che una così magnifica opera d’arte fosse condannata a rimanere inservibile per l’avarizia della natura, e quando il visitatore domandava: «Ma non vi eravate accorti prima che in quel luogo e in questo luogo c’è penuria d’acqua?». La guida cittadina, piccata, rispondeva: «Ma non s’è mai visto che una fontana dedicata a Nettuno, bella e costosa per giunta, non attiri acqua di per sé, pensate forse che sia Nettuno che debba andare all’acqua? Sarà ben l’acqua che va a Nettuno! È l’acqua che va alla fontana, quando mai è la fontana che va all’acqua?».   

Un’altra volta acquistarono una bellissima statua di Afrodite in avorio, che era annoverata tra i capolavori di Prassitele. Era alta cinque piedi circa e doveva esser posta su un altare della dea dell’Amore. Quando la statua giunse, tutta Abdera andò in visibilio per la bellezza della sua Afrodite: gli Abderitani infatti si spacciavano per fini intenditori ed entusiastici amanti dell’arte. «È troppo bella – esclamarono unanimi –per stare su un posto basso; un capolavoro che fa tanto onore alla città ed è costato tanto denaro, deve sorgere più in alto possibile: dev’essere la prima cosa che balzi all’occhio del forestiero quando entra in Abdera!». Conforme a questa felice idea posero la piccola leggiadra immagine in cima a un obelisco alto ottanta piedi; e sebbene ormai fosse impossibile riconoscere se raffigurasse Afrodite o un caprone pretendevano che ogni forestiero dichiarasse che: una cosa più perfetta non si era mai vista! Infatti, l’Afrodite di Abdera, divenne famosa perché: non si era mai vista! Ma loro, gli Abderitani erano convinti che, quello che in alto sta, sempre più bello è

     Christoph Martin Wieland, nell’utilizzo della vena satirica, s’identifica con Democrito. E Democrito colpisce, con la sua satira, soprattutto Anassagora.

     Democrito – scrive Diogene Laerzio – prende in giro Anassagora per la teoria dell’Intelletto che definisce senza capo né coda, e lo accusa di aver formulato ridicole dottrine sul Sole e sulla Luna. Ma – prosegue Diogene Laerzio – tutta l’antipatia di Democrito per Anassagora sembra sia dovuta al fatto di essere stato bocciato all’esame per l’ammissione alla Scuola di Atene e, il presidente della commissione d’esame, era proprio Anassagora. Democrito è un burlone che sa essere un estroverso ma tende anche ad essere introverso. La tendenza – scrive Diogene Laerzio – all’introversione si manifesta in Democrito fin da giovanissimo: da bambino si costruisce, nella zona più nascosta del giardino di casa, un capannino, una specie di tana, dove si rifugia per tenersi lontano dagli occhi di tutti. In età matura, per poter dare maggior spazio alla propria immaginazione, – racconta sempre Diogene Laerzio – è solito trascorrere lunghi periodi di tempo nella solitudine del deserto o tra le tombe dei cimiteri.

     E ora leggiamo un frammento, tratto dalle Lettere dell’imperatore Giuliano detto l’Apostata (331-363) che racconta un episodio [di natura allegorica] della vita di Democrito:

LEGERE MULTUM….

Giuliano l’Apostata, Lettere [CCI]

Un giorno Democrito, non sapendo come consolare il Grande Dario, il re dei Persiani, per la morte della moglie, gli disse: «Procurami tutte le cose che ho scritto su questo foglio e io ti prometto che la farò resuscitare». Il re si dette subito da fare affinché il saggio fosse accontentato in ogni particolare, ma non fu possibile soddisfare l’ultima delle sue richieste, quella cioè d’incidere sulla lapide della regina il nome di tre uomini che nella vita non avessero mai provato un dolore. Al che Democrito disse: «O uomo irragionevole, tu piangi senza ritegno come se fossi il solo essere al mondo ad aver sofferto una simile sventura»

     La tradizione mitica racconta che Democrito, una volta diventato vecchio, si sia privato spontaneamente della vista, esponendo i propri occhi ai raggi del sole riflessi da uno scudo argentato: non voleva – scrive Cicerone nelle Tusculanae disputationes che «la vista del corpo gl’impedisse quella dell’anima». Tertulliano, invece, sostiene, nell’Apologeticum, che il vecchio gaudente Democrito «si è accecato per non vedere più le belle donne, dal momento che non era più in condizione di amarle». A testimonianza di questo fatto drammatico, rimane una poesia di Laberio Decimo, tramandataci da Aulo Gellio, nelle Notti Attiche, un’opera su cui abbiamo soffermato (ai primi di febbraio) la nostra attenzione.

LEGERE MULTUM….

Aulo Gellio, Notti Attiche (seconda metà del II secolo)

Laberio Decimo porta testimonianza, nei suoi versi, sul dramma della cecità di Democrito di Abdera:

Democrito di Abdera, nello studio della  fisica, campione

rivolse uno scudo d’argento proprio verso la parte dove sorge Iperione

per potersi togliere la vista nell’intenso celeste  splendore,

così coi raggi del sole egli si privò della luce degli occhi, per vedere solo col cuore…

     Porfirio di Tiro (un altro personaggio che abbiamo incontrato, sulla scia di Pitagora) in una sua opera intitolata L’astinenza scrive che Democrito ha affermato: «Spesso il vivere a lungo non è un lungo vivere ma un lungo morire». Democrito, superati i cento anni, decide di togliersi la vita. Leggiamo come Diogene Laerzio descrive la morte di Democrito.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Democrito, superati i cento anni, decide di togliersi la vita e diminuisce progressivamente la propria razione di cibo fino a non mangiare più nulla. Giunto allo stremo delle forze, stava quasi per rendere l’anima, quando la sorella, anch’essa centenaria, si lamentò che, se fosse morto, il lutto le avrebbe impedito di partecipare alle feste Tesmoforie. Il filosofo allora, con molta pazienza, chiese che gli venissero portati dei pani caldi e se li accostò al viso. Sopravvisse ancora tre giorni, poi chiese alla sorella: «Sono finite le feste?». Lei rispose «» e lui chiuse gli occhi per sempre.

Democrito di Abdera per tre giorni trattenne in casa la morte offrendole solo il caldo odore dei pani.

La sua fama si diffuse e di lui parlò bene persino Timone di Fliunte….  

     L’unico irriducibile detrattore di Democrito di Abdera è Platone. Platone si rifiuta sempre di nominarlo e vorrebbe che le opere di Democrito sparissero dalla circolazione ma gli scritti di Democrito erano diffusi dappertutto e dappertutto riscuotevano consensi. Platone – e non ci vuole molto a capirlo – non condivide il pensiero di Democrito di Abdera, soprattutto Platone non sopporta il fatto che Democrito lasci troppe domande in sospeso.

     Ma in che cosa consiste il pensiero di Democrito e quali sono le domande che lascia in sospeso? Per Democrito la realtà è costituita dagli atomi e dal vuoto. Gli atomi sono dei corpuscoli, infiniti di numero, assolutamente compatti, quindi indivisibili, uguali per qualità, ma diversi per forma geometrica e per grandezza. Il vuoto invece è semplicemente un «non-qualcosa», in greco oudén. Il vuoto, il «non-qualcosa», esiste così come esiste il «qualcosa». Il termine den in greco è l’ente, e oudén vuol dire «niente» o, per meglio dire, «ni-ente». Quindi il mondo – come dice Cicerone nel De finibus, citando Democrito – sarebbe formato da pezzettini di materia, durissimi, fatti a forma di palline, di cubetti, di dodecaedri e via dicendo, che si muovono all’interno di uno spazio fisico fatto di niente. Questi pezzettini, chiamati atomi, a volte s’incollano tra di loro e altre volte si staccano. Questa descrizione su come è fatto il mondo non fa una piega però – come ci ricordava Platone poco fa – viene subito spontaneo chiedersi: chi ha fatto gli atomi e il vuoto, chi fa muovere gli atomi, chi ha dato loro la prima spintarella, chi li incolla e chi li stacca? Qui le risposte di Democrito sono meno convincenti. Gli atomi – risponde Democrito – sono infiniti ed esistono da sempre, così come da sempre si muovono nel vuoto. Gli atomi ruotano in un turbine [dìnos] e, di tanto in tanto, si urtano. I rimbalzi [apopàllesthai], le scosse [palmós], gli sfioramenti [epìspasis] e i contraccolpi [sunkroùesthai] danno luogo a formazioni di ammassi che poi, in definitiva, sarebbero gli oggetti che ci circondano.

     La teoria fisica e cosmologica di Democrito è facilmente criticabile. Se gli atomi si muovano «da sempre» lungo percorsi circolari, due sono le ipotesi: o le traiettorie sono parallele, e allora non si capisce come sia avvenuto il primo scontro (a meno che non si sia trattato di un tamponamento!), o le traiettorie non sono parallele e allora gli scontri hanno avuto luogo fin dal primo istante. Ma come si fa ad ipotizzare un primo istante, se Democrito ha appena detto che gli atomi si muovono «da sempre»?

     Epicuro, estimatore di Democrito e convinto atomista, cercherà più tardi di risolvere questo problema e avanzerà l’ipotesi che gli atomi, in quanto diversi per grandezza lo siano anche per peso, e che questa diversità abbia provocato un’inclinazione nei loro percorsi: una parénklisis secondo la terminologia di Epicuro, un clinamen secondo quella di Lucrezio, altro convinto atomista. Ma tanto l’intervento di Epicuro, quanto quello di Lucrezio non elimina i dubbi sul modo di aggregarsi degli atomi.

     Nel pensiero atomistico di Democrito non c’è posto per niente che non sia il pieno o il vuoto, perfino l’anima, il pensiero e le sensazioni sono fatti di materia. Gli atomi dell’anima sono più rotondi, più mobili e più lisci di quelli del corpo. L’essere umano – secondo Democrito – vive fin tanto che riesce, con la respirazione, a equilibrare gli atomi dell’aria con quelli dell’anima. Le sensazioni vengono percepite perché ogni oggetto emana un effluvio materiale, anche se invisibile, chiamato éidolon, che si scontra con l’aria interposta e che, dopo una serie di urti a catena, impressiona gli atomi dei sensi, i quali, a loro volta, trasmettono l’urto agli atomi del pensiero.

     Tutto – secondo Democrito – avviene attraverso contatti fisici. La conoscenza è un fatto soggettivo in quanto dipende dal mezzo interposto e dalla capacità del soggetto che riceve.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Democrito pensa che dagli oggetti scaturiscano degli effluvi materiali: c’è un oggetto che impressiona in modo particolare i vostri sensi per cui, venendone a contatto, ricordate odori, sapori, suoni, immagini, impressioni tattili? 

Scrivete…

     La differenza sostanziale tra gli atomi di Democrito e le omeomerìe di Anassagora sta nella divisibilità della materia: in entrambi i casi si tratta di particelle piccolissime ma, mentre l’atomo è un pezzo di materia durissimo, inattaccabile dall’esterno, l’omeomerìa, almeno con l’immaginazione, può essere suddivisa all’infinito. Democrito ha tentato di mettere d’accordo le due scuole di pensiero che hanno caratterizzato il suo secolo: la corrente di Parmenide con quella di Eraclito.

     Da una parte ci sono i sostenitori dell’Essere di Parmenide e dall’altra quelli del divenire di Eraclito. Per i sostenitori di Parmenide l’Uno è qualcosa d’immobile, di eterno e di indivisibile. Per i sostenitori di Eraclito non c’è nulla al mondo che riesca a stare fermo o che possa essere paragonato a se stesso nemmeno dopo un istante. Come fare per conciliare le due opposte tesi?

     Democrito propone la teoria atomistica anche con l’intento di conciliare le due tesi, di mettere insieme l’Essere con il Divenire. Il concetto dell’atomo è vicino al pensiero di Parmenide perché l’atomo è l’essere immutabile, eterno, indivisibile e, al suo interno, è privo di vuoto. L’atomo ha le prerogative dell’Uno a eccezione dell’immobilità: l’atomo è mobile. Il concetto del vuoto è vicino al pensiero di Eraclito: il vuoto è uno spazio fisico dove gli atomi possono muoversi a loro piacimento e dove la materia può aggregarsi e disfarsi in un continuo divenire.

     Con la teoria atomistica Parmenide ed Eraclito potrebbero (il condizionale è d’obbligo) ritenersi entrambi soddisfatti. Invece ad essere scontenti sono i filosofi successivi: Socrate, Platone, Aristotele. Costoro vogliono fare luce sulla causa prima delle cose e sullo scopo finale della realtà. Per Socrate, per Platone, per Aristotele, è come se Democrito avesse raccontato la trama di una commedia saltando la prima e l’ultima scena. D’altra parte l’affermazione che gli atomi sono stati mossi, in principio, da un Creatore, non risolverebbe il problema: Democrito, da buon materialista, chiederebbe subito: «E il Creatore chi l’ha creato?».

     Con il pensiero di Democrito, nella Storia del Pensiero Umano, prendono forma due temi importanti: il materialismo e l’universalismo. Abbiamo detto che, per Democrito, anche l’anima è composta di atomi: l’anima, per Democrito, è corporea.

     Solo che gli atomi di cui è fatta l’anima – non solo quella degli esseri umani, ma l’anima del mondo intero – hanno caratteristiche particolari: sono, cioè, sferici e mobilissimi, come quelli del fuoco. Quindi – secondo Democrito – non c’è nessuna diversità sostanziale tra l’anima e il corpo: anche le anime, come i corpi, risultano da combinazioni meccaniche e si dissolvono quando cambiano le combinazioni. Però – secondo Democrito – proprio per la sua raffinata complessità, l’anima è in grado di conoscere il mondo, in quanto è in grado di accogliere gli influssi che le vengono dalle cose. Questi influssi sono – secondo Democrito – veri e propri “effluvi” di atomi, che, attraverso la porosità dell’aggregazione corporea, penetrano e s’imprimono nell’anima: quindi, per conoscere la realtà, non bastano i sensi, è necessario che ci sia qualcosa che autentifica la conoscenza. Scrive Democrito:

LEGERE MULTUM….

Democrito di Abdera, Frammenti [Fr. 11]

Ci sono due forme di conoscenza, una autentica e l’altra falsata; a quella falsata appartengono tutte queste cose: vista, udito, odorato, gusto e tatto.

L’altra forma, quella autentica, ha per oggetto le cose che non appaiono.

Quando gli oggetti sono così piccoli che la conoscenza falsata non riesce più a coglierli né con la vista né con l’udito, né con l’odorato, né col gusto, né col tatto, e la ricerca deve rivolgersi agli oggetti più sottili, subentra la conoscenza autentica, che possiede uno strumento più fine, adatto allo scopo

     Qui c’è già la distinzione tra i due momenti conoscitivi, quello sensibile e quello razionale, che sarà elaborata successivamente dal pensiero greco e che in Democrito ha un impianto nettamente naturalistico, i cui confini sono: il mondo come aggregato oggettivo e l’essere umano come aggregato soggettivo. In questa cornice materialista non c’è nessuno spiraglio metafisico, non c’è nessuna possibilità di prendere contatto con realtà ultraterrene che, per Democrito, sono un’ipotesi assolutamente impossibile. Anche per Democrito, come per Parmenide, l’Essere corrisponde alla necessità: solo che la necessità democritea non è quella della giustizia o del destino, ma è una necessità causale che mette insieme, anello dopo anello, l’intera serie dei fenomeni della natura. Di conseguenza – pensa Democrito – i princìpi della morale non sono scritti nel Destino (non è il Destino che premia e punisce) ma devono essere elaborati con la ragione.

     Democrito, riflettendo sulla necessità causale, ha descritto l’origine della vita sul pianeta, lo sviluppo delle specie animali e, fra queste, della specie umana, fino al costituirsi della vita associata e all’invenzione del linguaggio (il lògos). In questo quadro evolutivo Democrito spiega l’origine delle leggi e della religione, generata dal timore che gli esseri umani, fin dagli albori, provano di fronte ai grandi fenomeni della natura. Il nostro mondo è, per Democrito, uno degli infiniti mondi possibili nati dal vortice originario degli atomi: la persona, chiusa in una vicenda meccanica che la precede e la sovrasta, non ha altra via di saggezza che quella di sentirsi cittadina del mondo, secondo le misure date dalla ragione e non secondo le passioni egoistiche o gli interessi speculativi. Il materialismo – secondo Democrito – dà all’essere umano, in virtù della ragione, una visione della vita di respiro universale. Leggiamo ancora un frammento tratto dalla sua opera:

LEGERE MULTUM….

Democrito di Abdera, Frammenti [Fr. 247]

Ogni paese della terra è aperto alla persona saggia: perché la patria dell’animo virtuoso è l’intero universo

     Democrito, durante la sua lunga vita – vive fin verso il 370 a.C. –, fa esperienza del sorgere e del disgregarsi del sistema democratico ateniese che sfocia nella demagogia, nel populismo. Essendo un sincero democratico, fautore della divisione dei poteri, ad un certo punto  preferisce tenersi in disparte per meglio tutelare la virtù che egli vuole insegnare nella sua Scuola. La virtù che Democrito vuole insegnare attraverso il suo piano di studi è l’euthymia: il buon umore, la gioia di vivere. Questa virtù – l’euthymia – si acquisisce se la persona impara a vivere con moderazione e con benevolenza, e anche con fermezza di carattere e con una solida disciplina interiore. Di questa disciplina fa parte anche la serena accettazione dei limiti temporali della vita umana, a diversità di coloro «che – scrive Democrito – non sanno che la natura materiale è destinata a dissolversi e si mettono in mente un mucchio di favole su ciò che avviene dopo la morte».

     Dal materialismo di Democrito – che invita la persona ad accettare serenamente i suoi limiti – comincia a svilupparsi l’Umanesimo. E nell’umanesimo di Democrito ogni eco dell’angoscia dionisiaca appare superata, mentre si sente già – anche se ancora molto lontana – una prefigurazione dell’ideale di vita del Rinascimento. E nel Rinascimento – sulla scia di Democrito – la parola euthymia: il buon umore, la gioia di vivere, l’allegria, si sente citare spesso. Facciamo un esempio (proveniente dalla casa medicea fiorentina, datato 1490) che tutti conosciamo a memoria.

LEGERE MULTUM….

Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia!

Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco e Arianna, belli, e l’un dell’altro ardenti:

perché ’l tempo fugge e ’nganna, sempre insieme stan contenti.

Queste ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia.

Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.

     Questo invito alla gioia e alla vita, all’euthymia è tuttavia velato di grande malinconia e anche questo sentimento viene da lontano. Difatti nell’umanesimo di Democrito ogni eco dell’angoscia dionisiaca appare definitivamente superata: l’angoscia, sentimento improduttivo, lascia il posto alla malinconia, un impulso orfico ricco di potenzialità creative, soprattutto dal punto di vista poetico. «Di doman non c’è certezza», ma tra otto giorni siamo ancora qui e incominceremo a “sofisticare”.

     Visto che siamo nella Scuola degli Adult-èri continueremo ad “adulterare” la nostra mente. Non fraintendete questa affermazione che vuole trascendere il significato classico del termine (non è solo un lapsus). (Intanto finché siete qui sotto l’occhio vigile della Scuola non ci sono pericoli adulterini neppure in senso classico: sono le/gli assenti che preoccupano).

     Educazione agli Adult-èri suona come una metafora: le persone che frequentano la Scuola pubblica degli Adulti tradiscono (vogliono tradire, devono tradire) un sistema che contrabbanda per “cultura” le cose più insensate, che spaccia per “eventi culturali” le più grandi esibizioni di stupidità, e che obbliga le persone a rimanere ignoranti, a non esprimere un proprio pensiero sui grandi temi della Cultura Umana. In questo senso: lasciate che la vostra mente si adulteri! In questo senso, nel senso di tradire l’imbecillità: l’adulterio è un dovere!

     Ci aspetta, sul nostro Percorso, una nuova disciplina: la dialettica …

     Correte a Scuola la prossima settimana a “sofisticare”: a rendere “sofisticato” il vostro Pensiero…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 20, 2007