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LO SGUARDO DI ERODOTO SUI PARADOSSI E SU L’ESSERE INFINITO, UNO, ETERNO ...

Lezione N.: 
20

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007     21-22-23   marzo  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUI PARADOSSI E SU L’ESSERE INFINITO, UNO, ETERNO ...

     Da tre settimane siamo ospiti della celebre polis di Elea dove, in compagnia di Erodoto e del capitano Agenore di Tiro, abbiamo incontrato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, alcuni famosi personaggi della Storia del Pensiero Umano.

     Il primo personaggio che abbiamo incontrato ad Elea si chiama Senofane di Colofone e ci ha invitato a riflettere sull’idea che l’Uno è Tutto. Noi abbiamo capito che la Scuola di Elea riflette (continua a riflettere) sul tema della conformazione della realtà: la realtà è un oggetto unico (è un Uno) oppure è una molteplicità di cose (un Tutto diversificato)? Questo interrogativo (che continua, oggi ad accompagnarci, sotto forma di altri interrogativi) prende forma nell’Età assiale della storia e nel movimento della sapienza poetica orfica. Questo interrogativo – la realtà è Uno o è Molteplice? – mette in evidenza due vie che disegnano, nel movimento dell’Età assiale della storia, l’incessante moto pendolare del pensiero umano. Difatti c’è una cosiddetta“via in su”, che indica il passaggio dal Molteplice all’Uno, e una “via in giù”, che  segnala il passaggio dall’Uno al Molteplice.

     La via in su porta, come abbiamo già studiato a suo tempo (nel primo Percorso su Erodoto), i taoisti cinesi, i maestri indiani delle Upanishad, l’Illuminato (Budda) di Benares, a isolare il Molteplice (tutte le cose) nella zona dell’illusione, da cui occorre liberarsi.

     La via in giù porta i pensatori di Mileto (ci siamo stati qualche settimana fa) a identificare l’Uno con gli elementi della molteplicità, facendone il principio permanente (l’arché) di tutte le cose.

     La via in su sembra riservata agli asceti, ai “mistici”, che obbediscono, più che agli argomenti della ragione, al bisogno morale di liberarsi dal dolore o dall’intollerabile caos dell’esperienza quotidiana. La via in giù sembra riservata ai “fisici” che, invece, mirano a dare un ordine razionale al mondo, senza però perdere il legame esistente con l’immaginazione sensitiva.

     La Scuola di Elea – come già aveva cominciato a fare la Scuola di Mileto, e la Scuola di Pitagora e quella di Eraclito – opera in modo tale da spingere la ragione, provvista soltanto dei suoi propri mezzi, oltre la sfera dell’esperienza sensibile su un territorio che è stato definito metafisico. I pensatori di Elea (Senofane, Parmenide), nel paesaggio intellettuale della metafisica, cercano di dimostrare che il Molteplice e l’Uno coincidono, e coincidono non nel modo inesprimibile di cui parlano i mistici, ma in un modo traducibile nei concetti della ragione umana con i suoi mezzi e con i suoi limiti.

     Ecco perché abbiamo riassunto il pensiero di Senofane di Colofone nella frase: l’Uno è Tutto.

Per Senofane il Molteplice e l’Uno coincidono, e si incontrano nei concetti logici elaborati dalla ragione umana.

     Su questo presupposto imbastisce la sua riflessione il secondo celebre personaggio che abbiamo incontrato nella polis che ci ospita: Parmenide di Elea. Il pensiero di Parmenide, che abbiamo studiato la scorsa settimana nelle sue linee fondamentali, si riassume nell’idea che l’Essere (l’Uno) è e il Non-essere (il Molteplice) non è. Ci siamo anche resi conto (con l’ausilio di Platone che compie il “parricidio di Parmenide”) che l’affermazione «l’Essere è e il Non-essere non è» esalta e salva il concetto dell’Essere ma annulla i fenomeni. L’affermazione di Parmenide dichiara la perdita dei fenomeni naturali e quindi la sparizione della realtà, e anche la svalutazione totale delle opinioni e delle apparenze. Per questo motivo il pensiero di Parmenide ai suoi tempi (l’analisi di Platone arriva circa un secolo dopo) viene violentemente criticato.

     E qui entra in scena il terzo personaggio che, già dalla scorsa settimana, abbiamo incontrato: Zenone di Elea. Di Zenone di Elea sappiamo che nasce attorno al 490 a.C.. Della sua scomparsa non conosciamo la data precisa, sappiamo però – dalla tradizione mitica, supportata anche, successivamente, dagli scrittori cristiani (Tertulliano, Clemente Alessandrino) – che Zenone si è mostrato sprezzante di fronte alla morte avvenuta secondo la tradizione sotto le torture del tiranno di Elea, Nearco, contro cui Zenone ha organizzato una congiura per ridare valore alle Istituzioni democratiche della polis.

     Zenone ha propagato ad Atene il pensiero di Parmenide difendendolo dai continui attacchi dei suoi denigratori. Molti irridono Parmenide, lo scrive Platone nel dialogo omonimo intitolato appunto Parmenide (di cui conosciamo l’indice) e questo fatto non poteva far piacere a un allievo così affezionato come Zenone. Dai pochi dati che abbiamo a disposizione Zenone doveva essere un tipo assai polemico e molto permaloso.

     Zenone si occupa di difendere il principio su cui si basa il pensiero di Parmenide e che è racchiuso nella famosa affermazione: «l’Essere è e il Non-essere non è». È facile criticare l’incongruenza di fondo di questa affermazione. Dicono i critici: come è possibile concepire l’Essere, se non si ha contemporaneamente anche l’idea del Non-essere? Come si fa a intuire l’Uno senza conoscere il Molteplice? È come parlare della Luce, senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Buio. È come parlare del Bene, senza aver mai avuto, almeno una volta, l’esperienza del Male. E allora, siccome per intuire l’Essere c’è bisogno, come elemento pregiudiziale, della conoscenza del Non-essere, – dicono i critici della Scuola di Elea – il pensiero di Parmenide va modificato, va completato, non si può dire «l’Essere è e il Non-essere non è» ma bisogna affermare che: «l’Essere è, e il non essere non è, pur essendo necessario». Questa è la formula usata da Platone nel dialogo il Sofista per compiere il celebre “parricidio di Parmenide”.

     Circa 70 anni prima di Platone, Zenone vuole controbattere e vuole difendere il pensiero originario del suo maestro contenuto nell’affermazione: «l’Essere è e il Non-essere non è». Per raggiungere questo difficile obiettivo Zenone mette a punto un metodo che, partendo dalle certezze dei suoi avversari, segue un itinerario logico e giunge a conclusioni impossibili, assurde, paradossali. Ma l’importante per lui è che in ogni punto del ragionamento sia sempre rispettato il principio di non contraddizione: se non c’è contraddizione come si fa a dire che questo ragionamento non è vero? Questo ragionamento sarà assurdo, sarà paradossale, ma non falso, quindi, sostiene Zenone, se non è falso è vero.

     In realtà, Zenone, come pensatore, si è sempre limitato a sostenere le teorie di Parmenide, e allora a quale titolo occupa un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano? Zenone occupa un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano per la sua capacità dialettica: per l’arte di ragionare, per l’arte di argomentare, per l’abilità nell’utilizzo della logica. Insieme alle esperte e agli esperti ci domandiamo se esisterebbe il pensiero di Socrate senza la dialettica di Zenone di Elea: lo dovremo constatare a suo tempo…

     Zenone difende il pensiero di Parmenide mettendo a punto un metodo da cui prendono forma i suoi celebri paradossi. I critici del pensiero di Parmenide ironizzano affermando: come si fa a negare la pluralità delle cose, a negare il Molteplice, questa negazione porta anche a negare il movimento, e come si fa a negare il movimento? Zenone ribatte dimostrando a quali assurdità si può arrivare ammettendo l’esistenza del Molteplice.

     Il primo paradosso di Zenone di Elea ci è stato tramandato da Aristotele nel VI libro della Fisica. Supponiamo che una persona voglia fare un viaggio: ebbene, dice Zenone, questa persona non riuscirà mai ad arrivare alla fine del viaggio perché prima di raggiungere la meta, dovrà passare per il punto di mezzo del percorso e prima di arrivare al punto di mezzo del percorso, dovrà superare un altro punto di mezzo, quello che sta tra la partenza e la metà del percorso, ma prima di raggiungere questa metà della metà dovrà transitare per un altro punto intermedio e così di seguito fino all’infinito. In altre parole, dice Zenone, un segmento può essere diviso in due parti e ciascuna di queste parti, a sua volta, può essere divisa in altre due parti più piccole e non accadrà mai che, a forza di dividere, un pezzetto di segmento possa diventare così piccolo da non poter essere diviso ancora in due parti. In conclusione, per arrivare alla meta, la persona deve toccare tutti gl’infiniti punti intermedi del percorso e per farlo dovrà impiegare un tempo infinito, e quindi non arriverà mai a destinazione. Forse questo non ci sembra vero ma il ragionamento è esemplare: questa situazione è assurda ma non falsa-

     Il secondo paradosso di Zenone di Elea ce lo racconta sempre Aristotele nel VI libro della Fisica. Questo paradosso ha come protagonista Achille che era soprannominato «piè veloce». Eppure, secondo Zenone, il «piè veloce» Achille non sarebbe stato capace di raggiungere una tartaruga. Supponiamo infatti che Achille si trovi seduto sul punto A e che la tartaruga lo guardi da lontano, stando ferma nel punto B, ad un tratto Achille parte di corsa velocissimo verso il punto B per raggiungere la tartaruga. La tartaruga però, non appena lo vede partire di corsa nella sua direzione, si muove e, nel tempo in cui Achille percorre il tratto A-B, la tartaruga si è spostata di qualche centimetro raggiungendo il punto C. A questo punto Achille non può far altro che ripartire dal punto B per raggiungerla nel punto C  ma ancora una volta la tartaruga si sposta e malgrado la lentezza dei suoi movimenti raggiunge il punto D e questa situazione, dice Zenone, continua all’infinito: Achille, quindi, non raggiungerà mai la tartaruga, a meno che questa non muoia prima (ma le tartarughe, si sa, vivono a lungo); comunque sia il ragionamento è esemplare: questa situazione è assurda ma non falsa.

     Il terzo paradosso di Zenone di Elea ce lo racconta ancora Aristotele nel VI libro della Fisica. Se un arciere scaglia una freccia contro un bersaglio, noi la vediamo volare: Zenone invece sostiene il contrario. In ogni istante, dice Zenone, la freccia è immobile e sommando tante immobilità non è possibile ottenere come risultato il movimento. Sul piano della logica il ragionamento di Zenone non fa una grinza, sul piano pratico è bene non sostare nei pressi dei bersagli.

     È ancora Aristotele nel VI libro della Fisica a spiegarci il quarto paradosso di Zenone di Elea, anche se non si tratta proprio di un paradosso. Tre atleti sono nello stadio: i primi due scendono in pista e si mettono a correre, uno in un senso, l’altro nel senso opposto; il terzo atleta è stanco e decide di sedersi al centro della tribuna. Dopo un giro di campo, i due atleti che corrono s’incrociano proprio davanti al posto dove è seduto il terzo. Ebbene, in quell’istante uno dei corridori, visto dall’altro corridore, sembra essere due volte più veloce di quanto non appaia a quello che sta seduto. Zenone, che crede nel principio della non contraddizione, conclude dicendo: «Il movimento risulta diverso a seconda di chi lo osserva, quindi non esiste». La teoria della relatività di Einstein ci ha insegnato che non ha senso dire che un oggetto si muove, a meno che non si precisi anche «rispetto a chi» questo oggetto si muove. È normale che la velocità di un corridore sembri essere più lenta a chi sta fermo e più veloce a colui che corre in senso inverso. Questo fenomeno colpisce Zenone il quale, non essendo mai salito su un treno, non ha mai visto gli alberi – sebbene fermi lungo le rotaie – corrergli incontro a gran velocità: se avesse potuto osservare questo fenomeno non avrebbe avuto più dubbi sul fatto che il movimento è un’illusione…

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole: assurdità, contraddizione, controsenso, stravaganza, esagerazione … metteresti per prima accanto alla parola “paradosso”? 

Scrivi…

     I primi tre paradossi di Zenone di Elea (del viaggio, di Achille e la tartaruga e della freccia) nascono dalla stessa matrice di stampo matematico, di natura teoretica, quella della divisibilità all’infinito di uno spazio limitato o di un tempo finito: bisognerebbe essere dei matematici e riflettere di conseguenza; noi, comuni mortali che cosa possiamo dire? Noi possiamo dire che lo Zero e l’Infinito sono due numeri come tutti gli altri e facilmente reperibili nelle equazioni e nelle formule matematiche: noi magari non abbiamo troppa dimestichezza con numeri così particolari come l’Infinito. Questi due numeri – lo Zero e l’Infinito – però, a differenza dei numeri comuni, hanno alcuni requisiti particolari: lo Zero, ad esempio, moltiplicato per qualsiasi numero, dà sempre zero come risultato, e l’Infinito, anch’esso moltiplicato per qualsiasi numero, non può che dar luogo a un altro infinito. E che cosa succede quando si moltiplicano tra loro lo Zero e l’Infinito? Non succede niente perché si tratta di due entità limite della matematica: il risultato che ne viene fuori resta indefinito.

     Per concludere questo discorso dobbiamo dire che i paradossi di Zenone di Elea sono esercizi che servono per affinare lo strumento della dialettica, l’arte di ragionare, l’arte di argomentare, l’abilità nell’utilizzo della logica. Naturalmente questi esercizi infastidiscono: Antistene il cinico, ad esempio, non sopportava gli eleati e le loro dimostrazioni contro il movimento. Si racconta che un giorno, non riuscendo a controbattere Zenone sul paradosso della freccia, Antistene si sia messo a camminare su e giù per la stanza fino a farlo esclamare: «Ma ti calmi un momento!». «Allora ammetti che mi muovo?» gli disse Antistene. E Zenone gli rispose: «No, non mi dai fastidio perché illusoriamente credi di muoverti, mi dai fastidio perché mi sei molto antipatico!».

     Zenone di Elea rimase sempre fedele fino in fondo ai suoi “paradossi”. Anche la Scuola di Elea, come la Scuola di Mileto, annovera tra i suoi anche un quarto personaggio importante destinato ad apparire (paradossalmente) in secondo piano. Il quarto importante pensatore di Elea – dopo Senofane, Parmenide e Zenone – si chiama Melisso di Samo.

     Melisso attrae l’attenzione del capitano Agenore di Tiro, perché? Perché Melisso di Samo è un ammiraglio. Forse Melisso di Samo non sta molto simpatico ad Erodoto, perché? Perché Melisso, in quanto comandante della flotta di Samo, ha dato del filo da torcere agli Ateniesi e noi sappiamo che Erodoto parteggia per Atene.

     È una cosa rara trovare un ammiraglio tra i protagonisti della Storia del Pensiero Umano e soprattutto ci domandiamo come Melisso abbia potuto conciliare l’immobilità professata da Parmenide e sostenuta da Zenone con l’azione richiesta dal suo mestiere di stratega navale (è un paradosso?). Anche Melisso – nello stile della sapienza poetica orfica – ha scritto un trattato sotto forma di poema intitolato Sulla natura o Sull’Essere, di cui ci rimangono una serie di frammenti. Chissà se Melisso ha scritto quest’opera nella sua cabina mentre andava per mare con la flotta di Samo di cui aveva assunto il comando?

     Della vita di Melisso sappiamo pochissimo: una segnalazione ci viene  da Plutarco di Cheronea (una nostra conoscenza), dalla sua opera più famosa, Vite parallele, per la precisione dalla Vita di Pericle. Plutarco di Cheronea racconta che Melisso, a capo della flotta di Samo, vince una battaglia contro gli Ateniesi. Sconfiggere la flotta di Atene non è impresa facile, perchè Atene, nella seconda metà del V secolo a.C., è già una potenza nel mondo greco, e schierarsi contro Atene vuole dire farsi emarginare, se non altro dagli uomini di cultura della corte di Pericle (Erodoto compreso?): può essere questo uno dei motivi per cui il nome e l’opera di Melisso di Samo sono stati rimossi. Poi, più di cento anni dopo, ci si è messo anche Aristotele, il quale – come sappiamo – ha deciso a suo arbitrio chi (dei cosiddetti pensatori presocratici) meritava di essere ricordato e chi doveva scomparire. Aristotele decide che Zenone di Elea e Melisso di Samo (ma non sono i soli) andavano rimossi dalla Storia del Pensiero Umano. Zenone gli stava molto antipatico per via dei paradossi e Melisso non gli andava a genio per aver conferito alla materia il carattere dell’infinità, argomento che dobbiamo studiare incontrando Melisso (piaccia o non piaccia ad Aristotele).

     Chi è Melisso di Samo? Racconta Diogene Laerzio che Melisso, figlio di Itegene, è nato nell’isola di Samo tra il 490 e il 480 a.C.. Non si sa nulla dei suoi primi quarant’anni di vita ma il fatto che è un ammiraglio fa presumere che abbia compiuto numerosi viaggi. È probabile che sia stato per qualche tempo a Mileto, la città di Anassimandro, e per qualche tempo a Elea, la città di Parmenide: questi due pensatori sono quelli che hanno influito di più sul suo pensiero. C’è un’ipotesi, secondo la quale Melisso avrebbe incontrato i filosofi di Elea ad Atene nel 450 a.C., durante il famoso incontro-scontro a casa di Pitodoro, di cui ci racconta Platone nel dialogo intitolato Parmenide (che conosciamo nelle sue linee generali). Ma questa ipotesi non convince: Parmenide è ripartito quasi subito per far ritorno a Elea e quindi, lì ad Atene, non ha avuto il tempo d’insegnargli nulla, e Zenone, pur restando molti anni alla corte di Pericle, ha frequentato gli Ateniesi in un periodo in cui i rapporti tra Samo e Atene sono molto tesi e si presume che Melisso non sarebbe stato gradito ad Atene.

     Melisso di Samo assurge agli onori della cronaca nell’anno 442 a.C.. L’anno 442 a.C., come ci racconta Tucidide ne La guerra del Peloponneso, è l’anno dello scontro tra Samo e Mileto  per il possesso della polis di Piene. La flotta di Mileto viene sconfitta da quella di Samo (l’ammiraglio è Melisso), e il giorno dopo le autorità di Mileto corrono subito a lagnarsi ad Atene perché Priene le sia restituita. Poiché Atene esercitava il ruolo di città madre (metropolis) su tutte le coste del mar Egeo, è normale che la si tiri in ballo in un caso del genere. Visto però che si trattava di Samo le autorità ateniesi ne fanno subito un caso non diplomatico e mandano una flotta di quaranta navi a circondare l’isola. Poi le truppe ateniesi prendono d’assalto Samos, la polis capoluogo dell’isola, e cacciano via il governo in carica e lo sostituiscono con una giunta collaborazionista; quindi prelevano cinquanta ostaggi tra i figli delle famiglie più in vista e lasciano una guarnigione a difesa dei loro interessi. Un gruppo di cittadini impegnati nelle Istituzioni però riesce a fuggire ed è lecito supporre che tra di loro ci sia anche Melisso. Gli esuli ottengono asilo politico da Pissutne, il tiranno di Sardi, e con il suo aiuto armano una spedizione di settecento guerriglieri per riconquistare Samo. La spedizione riesce perfettamente: gli esuli riprendono il controllo dell’isola e scacciano le truppe di occupazione; sul viso di ogni soldato ateniese viene tatuata una civetta, simbolo delle loro monete, e questo per vendicarsi del fatto che durante l’invasione gli Ateniesi avevano tatuato una samena [un’imbarcazione caratteristica dell’isola di Samo] sulla fronte di alcuni senatori dell’Assemblea di Samo.

     Ma i Sami sanno che prima o poi Pericle, inviperito per questa sconfitta, sarebbe riapparso. Si mette in moto tutta un’attività diplomatica: Pissutne, tiranno di Sardi, offre anche diecimila stateri d’oro a Pericle perché lasci perdere: sa che Pericle è attirato dal denaro ed è una bella sommetta. Questa volta però l’affronto per Atene (che ha un nome, e soprattutto un potere economico, da difendere) è stato troppo grave e, anche se a malincuore, Pericle è costretto a rifiutare l’offerta: deve dare una lezione esemplare a Samo perché altri non alzino la cresta.

     Comunque, nel mentre è in atto questa attività diplomatica, Melisso si è dato da fare a organizzare la difesa: ha potenziato le mura e ammassato all’interno della città quante più riserve possibili. Gli Ateniesi non si fanno attendere e si muovono con sessanta navi, al comando dello stesso Pericle e, dopo aver vinto una prima battaglia navale, stringono d’assedio la polis di Samos circondandola da ogni lato. Ed è in questa circostanza che Melisso si fa onore: una notte, approfittando del fatto che Pericle si è allontanato con alcune triremi, organizza e mette in atto una sortita e distrugge le rimanenti navi ateniesi. Questa azione naturalmente non ribalta le sorti della guerra, ma costringe Pericle ad armare una nuova flotta, ancora più potente della prima, e questa volta i Sami non si salvano: l’assedio dura nove mesi e alla fine la città viene espugnata grazie anche alle nuove macchine da guerra inventate da un certo Artemòne detto “periforeto”.

     Questo Artemòne “periforeto” – ci racconta Plutarco di Cheronea nella Vita di Pericle – è un architetto ateniese, zoppo, il quale sembra abbia condotto una vita lussuriosa. Artemòne non esce mai di casa per paura di qualche disgrazia e vive costantemente seduto, scrive Plutarco, e per evitare che gli cada addosso qualcosa ha sempre due schiavi ai lati che gli reggono uno scudo sulla testa. E poi, se proprio è costretto ad uscire, si fa portare su una lettiga coperta: da qui il suo soprannome “periforeto”, colui che si fa portare di qua e di là.

     Questi avvenimenti – la guerra di Atene contro Samo, condotta personalmente da Pericle – sono contemporanei ad Erodoto, ma Erodoto naturalmente nel testo de Le Storie non ne tratta: come mai Erodoto non fa cenno a questi avvenimenti? Sappiamo che Erodoto non vuole occuparsi di fatti che per lui risultano essere di cronaca e che quindi non considera “avvenimenti storici”. Poi c’è da dire anche che questi avvenimenti non sono particolarmente luminosi per Atene e per Pericle (di cui sappiamo che Erodoto non vuole dire male): sono guerre di aggressione (non come le gloriose guerre difensive contro i Persiani, contro l’impero che lui ha descritto), sono conflitti preventivi, diretti contro altre polis (fratelli), combattuti dichiaratamente per motivi economici, per ragioni egemoniche.

     C’è da dire che a questo proposito è molto più graffiante Plutarco di Cheronea sebbene voglia esaltare lo spirito greco. Quando Plutarco di Cheronea racconta nella Vita di Pericle, questi avvenimenti sono, per lui, ormai molto lontani nel tempo, più di 500 anni, ma non lesina critiche nei confronti di Atene e della gestione di Pericle che lui considera troppo spregiudicata dal punto di vista morale. Leggiamo solo un frammento tratto da Vita di Pericle, di cui si consiglia la lettura, di Plutarco di Cheronea:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Vite parallele. Pericle

Quanto a Pericle, sottomessa Samo, tornò ad Atene, celebrò solenni onoranze funebri per i cittadini caduti in guerra e pronunciò, come è costume, un discorso sulle loro tombe, suscitando la generale ammirazione. Ma quando scese dalla tribuna, mentre le altre donne gli stringevano la mano e gli cingevano il capo di corone e di nastri, come a un atleta vittorioso, Elpinice (sorella, molto affezionata, di Cimone, uno dei caduti) si accostò a lui e gli disse: «Bella la tua impresa, Pericle, e degna di corone (stephanoi)! Hai fatto morire tanti nostri valorosi cittadini, come mio fratello Cimone, non in una guerra contro i Fenici o contro i Medi ma per sconfiggere una città confederata e per di più affine alla nostra stessa stirpe». A queste parole si dice che Pericle abbia risposto citando, con un tranquillo sorriso, il verso di Archiloco: «Vecchia come sei, non dovresti profumarti d’unguenti».

Ione sostiene che Pericle era molto superbo e orgoglioso di aver sconfitto i Sami: diceva infatti che mentre Agamennone aveva impiegato dieci anni a espugnare una città barbara, a lui erano bastati nove mesi per battere i primi e i più potenti fra gli Ioni. E in realtà, questa alta considerazione di sé non era ingiustificata, poiché la guerra aveva effettivamente presentato molte incertezze e grandi rischi, se, come dice Tucidide poco era mancato che la città dei Sami togliesse agli Ateniesi l’egemonia sul mare.

     Ma ora torniamo a Melisso il quale si è comportato con onore nella difesa della sua città: noi preferiamo ricordarlo per le sue qualità di pensatore più che per il suo valore di stratega nautico. Melisso di Samo è noto per essere il quarto importante pensatore – dopo Senofane, Parmenide, Zenone – della Scuola eleatica. Che differenza c’è tra il pensiero di Melisso e quello di Parmenide e di Zenone? La differenza sostanziale sta nel fatto che, mentre per Parmenide l’Essere è un qualcosa al di fuori del tempo (l’Essere è.), per Melisso l’Essere s’identifica con la realtà empirica (l’Essere è stato e sarà). Leggiamo il significativo frammento [Fr. 1] della sua opera Sulla natura o Sull’Essere:

LEGERE MULTUM….

Ciò che È,è sempre stato e sempre sarà  [Fr. 1]

     Ad una lettura superficiale, noi lì per lì siamo portati a pensare: ma è così importante questa affermazione? Diciamo subito che l’illustre Aristotele alla lettura di questa frase ha reagito con una serie di ingiurie (che non possiamo riferire): perché Aristotele si arrabbia?  Aristotele non condivide la frase di Melisso che dice: «Ciò che È, è sempre stato e sempre sarà», perché con questa affermazione l’ammiraglio di Samo inserisce l’Essere nella dialettica del tempo (l’Essere è stato e sarà) e lo porta sul piano della realtà empirica: se “l’Essere è stato e sarà”, se l’Essere si esprime nel tempo, significa che è un oggetto il quale si avvicina inesorabilmente alla Natura fino a sovrapporsi ad essa. Scrive Aristotele nella Metafisica che l’affermazione di Melisso «declassa l’Essere di Parmenide da un livello intellettuale a un livello sensibile». L’Essere di Parmenide può essere solo pensato, mentre l’Essere di Melisso può essere anche “sentito”.

     A prima vista, per noi non sembra così importante la polemica su questa questione. Se però – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – riflettiamo e valutiamo con attenzione il significato dei due concetti, ci rendiamo subito conto che si tratta di una differenza sostanziale: una cosa è sostenere, come fa Parmenide che «l’Essere è e non può non essere e il Non-Essere non è ed è impossibile che sia» e altra cosa è sostenere che «ciò che È, è sempre stato e sempre sarà» come sostiene Melisso. Rispetto a Parmenide e a Zenone, Melisso, per come si è formato e anche per l’esperienza empirica che ha fatto, è una persona pratica, che mira alla concretezza: è cresciuto in un ambiente (quello della Scuola di Samo) che risente anche della vicinanza dei naturalisti, dei fisici, della Scuola di Mileto e, in particolare, di Anassimandro, vale a dire della “zona apeironica” di Mileto. Quindi Melisso è perfettamente d’accordo con i pensatori della Scuola di Elea (con Parmenide e Zenone) per quanto riguarda la futilità delle apparenze (vale l’Essere piuttosto che l’apparire) e per quanto riguarda la non affidabilità dei sensi (la conoscenza attraverso i sensi è relativa), ma non se la sente di considerare l’Essere un’entità vuota e astratta, bensì cerca di dargli una concretezza e lo identifica con l’intero Universo, con un qualcosa cioè d’indeterminato e d’infinito che comprende ogni cosa.

     L’idea dell’Essere, formulata da Melisso, è più vicina al concetto dell’àpeiron (il principio indeterminato di tutte le cose) di Anassimandro che non all’Essere immutabile, indescrivibile, impronunciabile di Parmenide, pur avendo con quest’ultimo molti punti di contatto.

     Aristotele, nel suo trattato intitolato Su Melisso, Gorgia e Senofane, cataloga le affermazioni di Melisso nei confronti del concetto dell’Essere specificando in modo critico il fatto che Melisso, più che descrivere l’essenza, parla dell’esistenza.

     E noi leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Su Melisso, Gorgia e Senofane

 Se qualcosa esiste è eterno, dato che nulla può nascere dal nulla.

Se è eterno è anche infinito, perché non ha principio né fine.

Se è eterno e infinito è anche Uno, perché se fosse due, ciascuno dei due finirebbe col diventare un limite dell’altro.

Se è eterno, infinito e Uno, è anche omogeneo, perché se così non fosse sarebbe diverso da una parte all’altra e quindi molteplice.

Se è eterno, infinito, Uno e omogeneo, è anche immobile, non esistendo un posto al di fuori di esso dove andare.

Se è eterno, infinito, Uno, omogeneo e immobile, non può soffrire né provar pena, dovendo restare sempre uguale a se stesso.

Melisso di Samo, crede di rappresentare l’essenza, ma in realtà parla dell’esistenza e finisce per confondere l’Essere con la Natura riducendolo al livello dei sensi…

     Difatti Melisso usa nella prima ipotesi – «Se qualcosa esiste è eterno, dato che nulla può nascere dal nulla» – il verbo «esistere». Ora, siccome tutti noi stiamo facendo, prima di tutto, l’esperienza dell’esistenza, questa affermazione di Melisso, con cui ci presenta l’Essere attraverso l’esistere, risulta più consona al nostro modo di pensare. Dal momento che ognuno di noi ha la precisa sensazione che qualcosa esista (che noi stesse, noi stessi esistiamo), è consolante pensare che questa esistenza in quanto tale sia anche infinita, e questo al di là delle apparenze terrene. In fin dei conti l’Essere di Melisso – checché ne dica Aristotele (il quale nutre la preoccupazione che si vada a parare in Dio, e lui preferisce il concetto di Motore immobile ma questo è un argomento che andrà affrontato a suo tempo) – è una cosa buona, positiva, viene da dire, più umana rispetto all’Essere di Parmenide che è fuori dalla nostra portata. Ma, appunto, ci dobbiamo domandare: l’Essere di Melisso può ancora essere definito l’Essere a pieno titolo? Aristotele ha ragione quando pensa che l’Uno di Melisso non è ancora un’immagine ben definita di Dio, ma poco ci manca.

     Leggiamo il famoso frammento 8 (il più lungo pervenutoci) dell’opera Sulla natura o Sull’Essere di Melisso dove l’ammiraglio riflette sul concetto dell’Uno. Melisso definisce l’Uno non come un’entità vuota e astratta, ma cerca di dargli una concretezza e lo identifica – come dicevamo – con l’intero Universo, con un qualcosa cioè d’indeterminato e d’infinito che comprende ogni cosa.

LEGERE MULTUM….

Melisso di Samo, Sulla natura o Sull’Essere   [Fr. 8]

Se esistessero i molti, questi dovrebbero essere tali e quali io dico che è l’Uno.

Se, infatti, esistessero la terra e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro e da un canto ciò che è vivo e dall’altro ciò che è morto e ciò che è nero e ciò che è bianco e tutte le altre cose che gli uomini dicono essere vere: se, dunque, tutte queste cose esistono, e noi vediamo e udiamo in modo retto, bisogna che ciascuna di queste cose sia tale quale la prima volta a noi parve e che non si trasformi e diventi diversa, ma che ciascuna sia sempre quale è.

Ora noi diciamo, appunto, di vedere, di udire e di intendere in modo retto. D’altra parte ci sembra che il caldo diventi freddo e che il freddo diventi caldo, il duro diventi molle e il molle diventi duro, che il vivo muoia e che il vivo si generi dal non-vivo e che tutte queste cose si alterino e che ciò che era non sia uguale a ciò che è ora e che il ferro, pur essendo duro, si logori stando a contatto col dito, e così anche l’oro e la pietra e tutto quanto sembra essere forte e che terra e pietra si generino dall’acqua.

Per conseguenza, risulta che noi né vediamo né conosciamo cose che sono.

Queste cose, dunque, non si accordano fra loro. E se anche noi affermiamo che gli esseri sono molti, dotati di eterne forme e di forza, ci sembra, poi, che tutti mutino e che diventino diversi da come ogni volta li vedemmo.

È dunque evidente che noi non vediamo in modo retto e che tutte quelle molte cose ci sembrano essere in modo non retto. Infatti, se fossero veramente, non muterebbero, ma ciascuna dovrebbe essere tale e quale ci sembrava che fosse.

Infatti, nulla è più forte di ciò che è veramente. Ma se si fosse mutato, allora l’Essere sarebbe perito e sarebbe nato il non-essere. Così, dunque, se ci fossero i molti, dovrebbero essere tali e quali è l’Uno…

     Tra la concezione di un Universo infinito, uno ed eterno, e l’ipotesi di un Dio con uguali caratteristiche, infinito, uno ed eterno, il margine diventa sempre più ristretto.

     Nel frammento 7, Melisso descrive l’Essere in modo tale  che sembra parlare di un vecchio il quale ci appare (ma, forse, noi siamo condizionati dalle immagini) nella mente, «michelangiolesca-mente» (se vogliamo giocare con le parole), con i lunghi capelli bianchi e con la barba fluente.

LEGERE MULTUM….

Melisso di Samo, Sulla natura o Sull’Essere   [Fr. 7]

Egli [l’Essere] non può perire, né diventare maggioreperché se in diecimila anni dovesse trasformarsi, anche di un solo capello, in tutta la durata del tempo finirebbe col distruggersi del tutto

     Con questa immagine negli occhi del grande Vecchio michelangiolesco riprendiamo i nostri posti sulla nave Sidonia e,  sotto la guida del capitano Agenore di Tiro che non vuole essere da meno dell’ammiraglio Melisso di Samo, ci prepariamo, in compagna di Erodoto, a lasciare Elea. Mentre la nostra nave esce dal porto per affrontare ancora il mare aperto dobbiamo riflettere sul tema dell’Essere in funzione della nostra esperienza – che tutti o quasi abbiamo fatto – di giovani (o giovanissime e giovanissimi) alunni di Catechismo. Il riferimento è a quando, fino alla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), il Catechismo (nella versione patrocinata da Pio XI, Achille Ratti, il papa dei Patti Lateranensi) era costruito sotto rigida forma di domande e risposte in modo che (senza discussioni) lo si potesse imparare a memoria. Ebbene la prima domanda del Catechismo pre-conciliare che tutti (o quasi) abbiamo mandato a mente e tuttora ricordiamo è formulata così: chi è Dio? La risposta portava probabilmente senza che noi, fanciulle e fanciulli, lo sapessimo a diretto contatto con l’Essere di Parmenide mitigato dalla riflessione di Melisso. Ricordate? Chi è Dio?  «Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e signore del Cielo e della terra». Forse non era (non è) facile affezionarsi all’Essere perfettissimo, ma poi, per dare forma ai pensieri e alla devozione, c’erano (e ci sono) le immagini sacre. Il fatto è che il Cristianesimo ha sempre operato per costruire la propria dottrina sulle parole-chiave e sulle idee-cardine della cultura greca.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Rimane ancora ancorata nella tua memoria – oltre la prima: Chi è Dio? «Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e signore del Cielo e della terra» … – un’altra (o più di una) domanda e risposta del Catechismo pre-conciliare mandata a mente negli anni dell’infanzia? 

Scrivila…

Se si fa attenzione sono molti i concetti che rimandano alla cultura greca, al movimento della sapienza poetica orfica a cui il Cristianesimo si è innestato con una significativa operazione culturale…

     L’argomento che abbiamo trattato ha fatto scatenare, appena fuori dal porto di Elea, un potentissimo soffio di vento (Pneuma). Questo vento impetuoso (in cui si manifesta l’Essere eterno, uno e infinito) ha dato una intensa propulsione alle vele della Simonia. La nostra nave ha puntato verso sud e, dopo aver oltrepassato capo Palinuro, le coste della Calabria tirrenica, lo stretto di Messina (che Scilla e Cariddi non ci hanno neppure visto tanto la nostra imbarcazione andava veloce), ha già raggiunto, ancora una volta, la costa ionica della Sicilia, e ora si ritrova a navigare nelle acque dei Viceré e qui il vento impetuoso (Pneuma) cessa di soffiare: è un segno? Forse.

     Siamo ancora una volta davanti alla bella città di Catania – dove siamo stati in visita qualche settimana fa – e s’intravede in lontananza, in tutta la sua imponenza, il grande edificio del Convento di San Nicola, la sede dei Benedettini. A proposito di didattica della lettura e della scrittura: siete entrate, siete entrati in contatto con I Viceré? Intendo dire con il romanzo di Federico De Roberto intitolato I Viceré (1894) che abbiamo incontrato un mese fa.

     Abbiamo iniziato l’itinerario di questa sera studiando i famosi paradossi di Zenone. Tra le tante cose che Federico De Roberto ci racconta e ci spiega nel suo libro ce n’è una che possiamo definire il paradosso dei Benedettini di San Nicola. Quando pensiamo ai Benedettini nella nostra mente si configurano i precetti («Ora, labora et cura, prega, lavora e studia») dell’austera e significativa Regola di San Benedetto redatta (dal 591 - al 594) da papa Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialoghi. In che cosa consiste il paradosso dei Benedettini di San Nicola? Facciamocelo narrare da Federico De Roberto: credo non ci voglia molto a capire questo paradosso, nel senso dell’incoerenza, del controsenso, dell’incongruenza.

LEGERE MULTUM….

Federico De Roberto, I Viceré (1894)

Ma donna Ferdinanda troncò quegli stupidi discorsi, e prese a interrogare il nipotino intorno ai compagni, alla vita del monastero, all’impiego della giornata, intanto che Fra Carmelo tesseva l’elogio del ragazzo alla madre.

«Ti faresti monaco?» gli domandò il principe, per chiasso. «Ci staresti sempre, al convento?»

«» rispose egli, per non dargliela vinta. «È bello stare a San Nicola!…»

I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli, poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi (cafisso, dall’arabo qafiz, recipiente contenente circa 11 Kg. d’olio) d’olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un’ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, e ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizii, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno.

Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. (Loro Paternità) si sentivano male o si seccavano di scendere al refettorio. Lì il servizio toccava ai Fratelli: a mezzogiorno, quando tutti erano raccolti nell’immenso salone dalla volta dipinta a fresco, rischiarato da ventiquattro finestre grandi come portoni, il Lettore settimanario saliva sul pulpito e alla prima forchettata di maccheroni, dopo il Benedicite, si metteva a biascicare. Il giro della lettura cominciava dai più piccoli novizi! fino ai monaci più vecchi, per ordine d’età; ma una volta arrivato ai Padri di fresca nomina, ricominciava per evitare quel fastidio ai grandi, i quali se ne stavano comodamente seduti dinanzi alle tavole disposte lungo i muri, sopra una specie di largo marciapiedi; l’Abate, nel centro del gran ferro di cavallo, aveva una tavola per sé. I Fratelli portavano intanto attorno i piatti, a otto per volta, sopra un’asse chiamata portiera che reggevano a spalla. Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità, e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell’acciottolìo delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnìo delle argenterie, il Lettore biascicava, dall’alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: «… 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro…».

La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino, e agli altri novizii, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta al mese. San Benedetto al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d’ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; «se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena»; ma questa era una delle tante antichità – come le chiamava Fra Carmelo – della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: «Ognuno poi s’astenga dal mangiar carne d’animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi»; ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il migliore pesce. Molte altre antichità c’erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva tra Padri nobili (solo i Nobili potevano diventare Padri) e Fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizii che non adempivano al dover loro, diceva insomma un’altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco (cognato di donna Teresa Uzeda di Francalanza, erede dei Viceré). Articolo vino, il fondatore dell’Ordine prescriveva che un’emina al giorno dovesse bastare; «ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d’averne a ricevere propria e particolare mercede».  Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d’oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore. Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d’ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvano se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all’ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, che la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c’eran visite di parenti e d’amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita. Un tempo, anzi, per colpa di Padre Agatino Renda, giocatore indiavolato, c’era stato un giuoco d’inferno: in una sola sera Raimondo Uzeda aveva perduto cinquecent’onze, e più d’un padre di famiglia s’era rovinato; tanto che i superiori dell’Ordine, dopo aver chiuso un occhio su molte marachelle, avevano dovuto finalmente prendere qualche provvedimento. Era appunto allora venuto da Monte Cassino, in qualità di Abate, Padre Francesco Cosenzano, e per un po’ di tempo, con l’autorità della fresca nomina, aiutato dai buoni monaci, che non ne mancavano, quel buon vecchietto era riuscito a infrenare i peggiori; ma poi, coll’andar del tempo, zitti zitti, a poco a poco, questi erano tornati alle abitudini di prima; gioco, gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di Fratelli – dei Padri – nuovo genere di parentela! E i timidi tentativi di resistenza dell’Abate gli avevano scatenato contro un’opposizione violenta.

Don Blasco fu dei più terribili. Egli aveva tre ganze, nel quartiere di San Nicola: donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figliuoli: e l’Abate lasciava correre, sebbene fosse uno scandalo che tutte quelle mogli e quei figliuoli della mano manca, anzi di nessuna mano, venissero a udir la santa messa recitata dallo stesso monaco. Poi, tutte le mattine, egli scendeva in cucina, ordinando che mandassero i migliori bocconi alle sue amiche, e i giorni di magro si metteva sul portone per aspettar l’arrivo dei cuochi col pesce, in mezzo al quale faceva la sua scelta, ordinando: «Taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia!». E l’Abate lasciava correre. Ma un giorno finalmente i nodi vennero al pettine, per causa di costei. Il convento possedeva una buona metà del quartiere in mezzo al quale sorgeva: i tre palazzotti della piazza semicircolare dinanzi alla chiesa e una quantità di case terrene tutt’intorno alle mura. Da queste fabbriche ricavava una magra rendita, perché parte erano affittate a prezzi di favore a vecchi fornitori o sagrestani ritirati, parte erano addirittura concesse come elemosina a povera gente, a famiglie nobili cadute in bassa fortuna. Ora don Blasco, messa una particolare affezione a donna Lucia Garino, la Sigaraia, le aveva fatto concedere un bel quartierino di abitazione nel palazzotto di mezzogiorno e una bottega sottoposta dove suo marito teneva il negozio dei tabacchi. L’Abate, visto che questa donna Lucia non era né indigente né nobile decaduta e che non vantava altro titolo, per godersi la casa, fuorché l’amicizia scandalosa di don Blasco, mentre poi tanti e tanti poveri diavoli non sapevano dove dar del capo, pensò di ordinarle che o pagasse regolarmente l’affitto del quartiere e della bottega, oppure che sgomberasse. Don Blasco, a cui già il fare da moralista del nuovo Abate aveva dato ai nervi, tanto che non aspettava se non l’occasione per aprire il fuoco, a questa intimazione riferitagli dall’amica piangente, diventò una bestia, salvo il santo battesimo, e fece cose dell’altro mondo, gridando pei corridoi del convento, sotto il muso dei Decani e dietro l’uscio dell’Abate, che se qualcuno avesse osato dar lo sfratto o pretendere un baiocco dalla Sigaraia, l’avrebbe avuto a far con lui. E disciplinata l’opposizione ancora incerta e tentennante, raccolto intorno a sé la schiuma del convento, i monaci che non potevano digerire le austere ammonizioni del superiore e la fine del giuoco e di tutti gli scandali, se prima era stato lo spavento del Capitolo, da quel giorno divenne un diavolo scatenato. Per amor della pace, il povero Abate dové rimangiarsi il suo provvedimento, ma l’Uzeda senior non si placò per questo, che dove poté trovare argomento da suscitare mormorazioni e liti, non diede tregua al suo «nemico». Giusto, l’Abate, ammirato dei severi costumi e della scienza di don Lodovico (figlio di donna Teresa Uzeda di Francalanza), s’era messo a proteggerlo, fino a sostenerne poi l’elezione al Priorato; perciò don Blasco, il quale voleva aver egli quel posto, accomunò il nipote e il superiore nell’odio feroce e inestinguibile.

C’erano stati sempre numerosi partiti, a San Nicola; perché, trattandosi d’amministrare un patrimonio grandissimo, e di maneggiare grossi sacchi di denaro, e di distribuire larghe elemosine, e di dar lavoro a tanta gente, e d’accordar case gratuite e posti non meno gratuiti al Noviziato, e d’esercitare insomma una notevole influenza in città e nei feudi, ciascuno ingegnavasi di tirar l’acqua al suo mulino; ma, al tempo dell’ammissione del principino, i contrasti erano quotidiani e violenti.

     Non ci vuole molto a capire che l’interpretazione della Regola («Ora, labora et cura, prega, lavora e studia») da parte della maggioranza dei Benedettini di San Nicola (non tutti) risulta paradossale

     Ma a questo punto la nostra nave ha già oltrepassato Siracusa, il capo Passero, il capo Isola delle Correnti e, facendo rotta verso nord-ovest, si avvicina alla nostra ormai prossima meta: qual è la nostra meta? La nostra meta corrisponde ad un’altra città importante, ad un’altra polis famosissima che si chiama: Akràgas, in greco. I Romani, dal 210 a.C., la denominano Agrigentum, e gli Arabi, nell’828, la chiamano Girgenti. Oggi, dal 1927, questa città, ha assunto il nome di Agrigento. Mentre ci avviciniamo all’approdo è opportuno documentarci un po’. Nell’anno 583 a.C. o 580 a.C. (ma che importa, anno più anno meno) un gruppo di profughi provenienti dall’isola di Rodi e un migliaio di coloni provenienti da Gela, guidati da un certo Aristonoo e da un certo Pistilo, mentre navigano verso ovest, lungo la costa meridionale della Sicilia, vedono ergersi una collina (Akra), una bella collina rocciosa (Akra-agatas) fatta a posta per costruirci un’Acropoli. Constatano anche che questa collina è situata fra due fiumi limpidi e ricchi d’acqua che sfociano a poca distanza l’uno dall’altro: l’Akràgas e l’Hypsas. Prendono subito, all’unanimità, la decisione di fermarsi e di fondare una colonia. Questa colonia viene chiamata Akra-agatas, poi contratto in Akràgas. Akra, in greco, significa la cima, la sommità, e agatas significa buona, pura, utile (tò agatòn è il bene). Akràgas cresce rapidamente e in meno di un secolo raggiunse i duecentomila abitanti.

     Diogene Laerzio scrive che secondo Timeo gli abitanti di Akràgas erano ottocentomila nel V secolo a.C. ma questa notizia sembra poco attendibile. Chi è questo Timeo? Timeo di Taormina (tra il 350 circa e il 254 circa a.C.) è uno storico greco che Diogene Laerzio cita un po’ di volte nella sua Raccolta. Timeo è dovuto fuggire da Taormina a causa della persecuzione del tiranno Agatocle e si è rifugiato ad Akràgas, e poi ad Atene. Timeo di Taormina si è dedicato alla ricerca storica (è uno storico del periodo ellenistico) e ha scritto una monumentale Storia della Sicilia in 38 libri: purtroppo quest’opera, ricca anche di notizie di etnografia e di antiquariato è andata perduta e restano solo le citazioni degli scrittori successivi (come Diogene Laerzio). Timeo di Taormina ha introdotto il computo del tempo – di quattro anni in quattro anni – basandosi sulle Olimpiadi.

     Akràgas viene governata dal tiranno Terone il quale conquista le città di Heraclea Minoa e di Himera, e si procura un gran numero di schiavi. La manodopera di questi schiavi viene utilizzata per costruire un gran numero di edifici pubblici dall’aspetto magnifico. Quando si dice Agrigento si dice Valle dei Templi e in questo sito straordinario possiamo ammirare soprattutto il Tempio della Concordia: l’unico che sia rimasto in piedi per intero. Ma se, un poco più in là, osserviamo i resti ammonticchiati del Tempio di Zeus Olimpico, capiamo subito di trovarci di fronte a un’opera gigantesca: 112 metri per 56 (sono all’incirca le dimensioni di un campo di calcio), e qui si supera il Partenone di Atene.

     Akràgas è una polis così ricca e accogliente che viene definita da Pindaro, il più grande dei poeti lirici orfici: «la bellissima tra le città mortali». Molti autori ricordano anche la bellezza dei cimiteri della romana Agrigentum, la cosiddetta necropoli Giambertoni, una vasta area archeologica dove le cappelle gentilizie sono tutte istoriate con bassorilievi che illustravano le gesta dei defunti, troviamo monumenti funebri anche dedicati ai cavalli che hanno vinto alle Olimpiadi. La cosa più curiosa è rappresentata dai resti di un mausoleo dedicato a un passerotto, che era l’unico compagno di giochi di una fanciulla aristocratica la quale ha voluto che si dedicasse all’uccellino questo grande monumento.

     Akràgas, Agrigentum, Girgenti è ricca perché possiede in abbondanza l’acqua, e già nel V secolo a.C. dispone di un acquedotto cittadino e di una piscina coperta dove vengono convogliate tutte le acque superflue. Oggi ad Agrigento l’acqua viene razionata (è un paradosso?) in molti periodi dell’anno.

     Anche nel commercio gli Agrigentini del V secolo a.C. sono all’avanguardia: poco fuori le mura hanno costruito un gigantesco emporio, in pratica una fiera permanente, dove si possono incontrare i mercanti di tutto il bacino del Mediterraneo. Grande valore hanno le monete in oro e in argento con la scritta «Akràgas» e i simboli della città: il granchio, l’aquila e la quadriga.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Consultando l’enciclopedia, leggendo la guida della Sicilia o con l’ausilio della rete fai una visita più approfondita ad Agrigento, di quanto possiamo fare qui questa sera

     Diogene Laerzio scrive che secondo Timeo di Taormina: «Gli Agrigentini vivono voluttuosamente come se dovessero morire il giorno dopo e costruiscono le loro case come se dovessero vivere in eterno». Diogene Laerzio scrive che secondo Timeo di Taormina: «gli Agrigentini vivono voluttuosamente come se dovessero morire il giorno dopo e costruiscono le loro case come se dovessero vivere in eterno».

Diodoro Siculo (90-20 a.C.) nella sua opera Biblioteca storica (40 libri, ce ne restano 15) scrive che: «La mollezza degli Agrigentini era giunta a tal punto che, durante l’assedio dei Cartaginesi, venne promulgato un editto secondo il quale si vietava alle sentinelle di dormire con più di due guanciali».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 Questa citazione rimanda all’espressione «dormire tra due guanciali» Ti ricorda qualcosa o qualcuno questo modo di dire? 

Scrivi quattro righe in proposito…

L’espressione «dormire tra due guanciali» – secondo la tua esperienza – è più vicina alle parole “comodità e agiatezza” o alle parole “sicurezza e tranquillità”? Quale coppia di parole scegli?…

     Ateneo di Nàucrati (Nàucrati è una città nel delta del Nilo) è uno studioso vissuto nel III secolo d.C. che appartiene alla cosiddetta Scuola della sofistica erudita. Gli intellettuali appartenenti a questa Scuola si dedicano a cercare opere antiche per conservarle, per studiarle e commentarle: sono degli Umanisti ante litteram. Ateneo di Nàucrati ha scritto un’opera molto importante che s’intitola I sofisti a banchetto (15 libri) in cui raccoglie moltissime notizie e frammenti di opere di antichi scrittori che ci ha conservato. Ateneo di Nàucrati ne I sofisti a banchetto scrive che Timeo di Taormina nella sua Storia della Sicilia (un’opera, come abbiamo detto, che è andata perduta) descrive un’orgia agrigentina del IV secolo a.C..

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Ateneo di Nàucrati,  I sofisti a banchetto (III secolo d.C.)

Timeo di Taormina nella sua opera Storia della Sicilia, descrive un avvenimento, successo in un banchetto in cui era tra gli ospiti, che poteva capitare solo nella ricca città di Akràgas.

«Quella sera», dice lo storico Timeo, «tutti bevvero moltissimo, io non abusai dell’anfora dionisiaca perché pensai che probabilmente la padrona e il padrone di casa avevano aggiunto nel vino anche qualche sostanza inebriante com’era in uso, e certo è che nel bel mezzo della festa quasi tutti gl’invitati ritennero di non trovarsi più all’interno di una villa, bensì a bordo di una nave in balia delle onde, per cui, presi dal panico, cominciarono a buttar giù dalle finestre tutto il mobilio e il vasellame della casa, nel disperato tentativo di alleggerire il carico e di restare a galla quanto più tempo possibile. Quando poi, finalmente, chiamati d’urgenza, giunsero sul posto i soldati della guarnigione a ristabilire l’ordine, questi ultimi, a causa del loro abbigliamento guerriero, furono scambiati per divinità marine e molti si buttarono ai loro piedi per implorarne il perdono. Da quel giorno la casa che ospitava il convivio fu soprannominata la Triremi».

     Queste cose succedevano ad Akràgas nel IV secolo a.C. e diciamo che, dopo 2000-2400 anni, certi usi e costumi non sono cambiati per niente…

     Akragas vive il suo momento di massimo splendore all’inizio del V secolo a.C.: prima con la dittatura di Terone e, subito dopo, con le Istituzioni democratiche. Terone è uno dei tre grandi tiranni siciliani che dominano in questo periodo: gli altri due sono i fratelli Gelone e Gerone che governano rispettivamente Siracusa e di Gela. Sono anche un po’ imparentati tra loro perché Gelone ha sposato una figlia di Terone. Noi sappiamo che in questo momento davanti alla Sicilia, sulle coste dell’Africa bagnate dal Mar Mediterraneo in direzione sud-ovest (nei pressi dell’odierna Tunisi) c’è una polis prospera e attiva, desiderosa di espandere il suo dominio su tutto il Mediterraneo: Cartagine. Ebbene, i tre grandi tiranni siciliani – Terone, Gelone e Gerone – di fronte alla minaccia che viene da Cartagine ritengono opportuno stringere un’efficiente alleanza militare. E quando i Cartaginesi si presentano con la loro potente flotta per conquistare la Sicilia meridionale vengono duramente sconfitti nelle acque di Himera nel 480 a.C., proprio nello stesso anno in cui – come ci racconta Erodoto ne Le Storie – a Salamina i Greci sbaragliano la potente flotta persiana.

     Pindaro, da grande poeta lirico-orfico, nelle Odi pitiche, scrive che questo fatto non è casuale, ma si tratta di un preciso disegno del destino: «Gli dèi si erano schierati dalla parte dei Greci». Però, nonostante il presunto favore degli dèi, la generazione successiva ai tre grandi tiranni (i loro figli e nipoti) non è all’altezza della situazione. Ad Akràgas i figli di Terone litigano tra loro, si comportano senza alcuna strategia politica, s’imbarcano in imprese fallimentari come la rottura dell’alleanza con Siracusa, e allora, con la caduta e la cacciata in esilio di Trasideo, figlio e successore di Terone, le opposizioni alla tirannide tornano a governare.

     I cittadini vengono chiamati alle urne e si afferma il partito democratico: vengono epurati tutti gli amministratori compromessi con il vecchio regime e viene ricucita l’alleanza con Siracusa. In questo clima di rinnovamento si affaccia sulla vita politica agrigentina un ragazzo appena ventenne, che tra non molto emergerà, diventerà adulto lasciando il segno non solo negli annali di Akràgas ma nella Storia del Pensiero Umano universale. Chi è costui? Egli si chiama Empedocle di Agrigento.

     E mentre la nostra nave (virtualmente) approda nel porto che oggi si chiamerebbe di San Leone ci domandiamo: chi è Empedocle di Agrigento? Ecco – come nel caso di Pitagora – questa è una domanda difficile a cui rispondere. Dove stanno le difficoltà? Le difficoltà stanno nel fatto che anche il racconto (come per Pitagora) della vita di Empedocle di Agrigento è fortemente condizionato dalla tradizione mitica la quale ci presenta un personaggio (suo malgrado) molto ambiguo, bifronte, con due facce, con due volti sui quali fa calare spesso molte maschere. C’è chi afferma che Empedocle è un filosofo, un medico, un fisico, un democratico e soprattutto un poeta orfico. E c’è invece chi nega energicamente questa tesi sostenendo che Empedocle è uno stregone,  negromante, un ciarlatano, un guru,  uno che dice di essere un Dio e che irride sarcasticamente con superiorità tutti quelli che incontra.

     Ma allora, chi è veramente Empedocle di Agrigento? Tutte le studiose e tutti gli studiosi – e noi ci uniformiamo – per definire Empedocle di Agrigento hanno utilizzato una definizione data dallo storico delle religioni, orientalista e pensatore positivista francese: Joseph Ernest Renan (1823-1892), che in un libro intitolato Venti giorni in Sicilia. Mélanges di storia e di viaggi scrive: «Empedocle di Agrigento è una persona di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro» Che cosa significa questa frase? Che cosa significa essere «mezzo Newton e mezzo Cagliostro»? Significa essere per metà scienziato e per metà negromante. E allora, chi è veramente Empedocle di Agrigento?

     La Scuola è qui, ad Agrigento a Girgenti ad Agrigentum ad Akràgas: Empedocle chiede udienza, e noi non possiamo non correre…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 23, 2007