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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’IDEA CHE “L’ESSERE È E IL NON-ESSERE NON È”...

Lezione N.: 
19

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007     14-15-16   marzo  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’IDEA CHE “L’ESSERE È E IL NON-ESSERE NON È”...

     Siamo sulla strada principale che attraversa la polis di Elea: è la via che conduce dalla Porta Marina alla Porta Rosa; da qui si esce sul crinale della collina, dove si gode uno splendido panorama sul mare antistante. Qui incontriamo Parmenide che, seduto all’ombra di un maestoso pino marittimo, in mezzo ai suoi discepoli sta per prendere la parola.

     Platone (circa un secolo dopo) attribuisce a Parmenide il titolo di «venerando e terribile insieme», e con queste parole riconosce – mentre lo confuta – che la fonte del suo pensiero sul tema dell’Essere è proprio lui: il maestro di Elea, « Parmenides ieratikos ka menitikos, venerando e terribile insieme». 

     Parmenide ha scritto le sue idee in un poema intitolato, come sempre, Sulla natura, tuttavia si dubita che il titolo originale sia questo, visto che, nel pensiero di Parmenide, la nozione di “natura,  physis” ha un valore circoscritto. Il poema Sulla natura di Parmenide è una delle opere più famose del movimento della sapienza poetica orfica; questo poema è scritto in versi esametri ed è stato ricostruito grazie alle citazioni di una trentina di autori che ne hanno conservato centosessanta versi.  Il poema di Parmenide si apre con un grandioso Proemio che è uno dei testi più suggestivi e misteriosi di tutta la Storia del Pensiero Umano.

     Questo testo – il Proemio del poema Sulla natura di Parmenide – ci è giunto per intero per merito di Sesto Empirico. Chi è Sesto Empirico? Di questo personaggio non sappiamo quasi nulla: possiamo dire che è vissuto tra il 180 e il 250 d.C. (è contemporaneo di Diogene Laerzio) e potrebbe essere originario dell’Africa settentrionale. Il nome Empirico è un soprannome e dipende dal fatto che Sesto è un medico, oltre che un filosofo. Sesto Empirico ci ha lasciato in eredità due opere. La prima s’intitola Schizzi pirroniani, e ricordiamo che Pirrone di Elide,  vissuto tra il IV e il III secolo a.C., è il fondatore dello Scetticismo ma non ha lasciato nulla di scritto: il suo pensiero è stato ricostruito da Sesto Empirico. La seconda opera che Sesto Empirico ci ha lasciato in eredità s’intitola Contro i matematici (o Contro i dogmatici) ed è una critica contro il dogmatismo.

     Le opere di Sesto Empirico rappresentano la fonte più importante per conoscere la dottrina dello Scetticismo. Il termine sképsis in greco significa indagine: infatti gli Scettici si propongono di indagare su tutte le dottrine in modo da riconoscerle tutte come non esaustive, ma limitate e relative. Le cose, affermano gli Scettici, non sono vere o false, belle o brutte per natura, ma solo per convenzione. Le cose risultano vere o false, belle o brutte non perché siano tali in realtà, ma perché gli esseri umani hanno convenuto che siano tali. E allora sulle cose non rimane che sospendere ogni giudizio, non resta che fare  epoché (la sospensione del giudizio): infatti, evitando di dare giudizi, cessa la possibilità di fare errori, e cessa anche ogni motivo di turbamento in modo che si possa raggiungere un equilibrio: l’atarassia, l’imperturbabilità.

     Bisogna riconoscere alle Scuole Scettiche, e a Sesto Empirico, il merito di aver suscitato un grande fervore critico costringendo i vari sistemi dogmatici a vagliare razionalmente le proprie esperienze in modo da promuovere un approfondimento sempre più fecondo della cultura. Noi cittadine e cittadini di Firenze abbiamo un particolare legame con Sesto Empirico: come mai? La raccolta delle Opere Scettiche di Sesto Empirico è stata studiata, tradotta e messa in circolazione da Girolamo Savonarola, priore di San Marco, il quale ha molto influenzato la cultura del Rinascimento e oltre. Per iniziativa di Savonarola,  nel Museo di San Marco noi possiamo osservare il codice, tradotto in latino, che contiene i testi delle due opere scettiche di Sesto Empirico. Questo è l’humus culturale in cui vive fra Girolamo Savonarola: altro che “monaco zoccolante” come lo raffigurano certi stereotipi. [La mattina del 23 maggio del 1498, Savonarola passava da Piazza della Signoria con due confratelli – fra Silvestro e fra Domenico – e a un certo punto, puf: hanno preso fuoco! Ma deve essere una leggenda.].  Ora non possiamo dilungarci.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Si consiglia una visita – utilizzando una guida di Firenze – al Museo di San Marco: ci sono molti oggetti interessanti da osservare…

     Il testo del Proemio del poema Sulla natura di Parmenide ci è giunto per intero per merito di Sesto Empirico contenuto nell’opera Contro i matematici. La scorsa settimana abbiamo citato il primo verso:

Ippoi taì me férusin, òson t’epì tumòs ikànoi,

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,

     Dunque nel Proemio, Parmenide immagina di trovarsi su un cocchio trainato da focose cavalle: che tipo di viaggio virtuale (intellettuale, spirituale) sta per intraprendere il maestro di Elea, «venerando e terribile insieme»? Abbiamo preso posto anche noi – insieme ad Erodoto e al capitano Agenore di Tiro – sul cocchio che si libra verso il Cielo.

     Il viaggio comincia e librarsi verso il Cielo significa leggere.

LEGERE MULTUM….

Parmenide, Sulla natura (Proemio)

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,

mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto

e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose,

che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi la persona che sa.

Là fui portato. Infatti, là mi portarono le accorte cavalle

tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via.

L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi – in quanto era premuto

da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra –,

quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi,

le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte,

verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.

Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,

con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;

e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti.

Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.

Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,

con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello

togliesse dalla porta senza indugiare.

E questa, subito aprendosi, produsse una vasta apertura dei battenti,

facendo ruotare nei cardini, in senso inverso,

i bronzei assi fissati con chiodi e con borchie.

Di là, subito, attraverso la porta, diritto per la strada maestra

le fanciulle guidarono carro e cavalle.

E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano prese la mia mano,

e incominciò a parlare così e mi disse:

«O giovane, tu che, compagno di guidatrici immortali,

con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati,

poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino

– infatti esso è fuori dalla via battuta dagli esseri umani –, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda:

e il solido cuore della Verità ben rotonda

e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.

Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono

bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso».

     La traduzione rende solo in parte la grandiosità del Proemio. Il testo è ricco d’immagini sfolgoranti in cui le studiose e gli studiosi hanno individuato molti riferimenti letterari, molte citazioni, provenienti da Omero, da Esiodo, dalla Letteratura orfica. Inoltre il testo è caratterizzato da un tono solenne che pare evocare il racconto di un’iniziazione religiosa: è letteratura liturgica di carattere orfico-pitagorico, infatti sappiamo che Parmenide ha studiato in una Scuola pitagorica e  come ci riferisce Diogene Laerzio è stato discepolo di Aminia e di Diochete.

     Parmenide scrive in versi (sebbene non sia un grande poeta, più che altro vuole agevolare il più possibile per i suoi discepoli la memorizzazione della sua opera) secondo i canoni del movimento della sapienza poetica orfica. Parmenide, comunque, sembra interpretare nel modo più ortodosso la dottrina orfica che come sappiamo si presenta come una corrente religiosa di carattere riformatore in senso etico. La religione a cui fa riferimento Parmenide, ovviamente, non rientra nell’ambito della religione istituzionale, ma piuttosto in quel tipo di religiosità connessa alle iniziazioni e ai misteri di carattere dionisiaco diffusi nella Magna Grecia: i cosiddetti culti dionisiaci riformati dove la figura di Dioniso (che è nascosta nella natura) si manifesta attraverso nuove immagini di divinità femminili (abbiamo studiato come la vetero-prosopopea diventa deutero-prosopopea e come nella nuova immagine della dèa Artemide si nasconda la figura di Dioniso).

     L’elemento più significativo che troviamo nel Proemio del poema di Parmenide consiste nell’annuncio di una verità rivelata alla quale si accede attraverso una individuale esperienza mistica nella quale il poeta sembra profondamente coinvolto. Un’esperienza mistica non ancorata, però, alla devozione mitica ma sostenuta da poderosi simboli razionali, e quindi, dal testo di Parmenide – costruito con il linguaggio tipico della rivelazione religiosa – emerge il trionfo della ragione: una ragione che si affida, con fierezza paradossale, alle sue capacità intuitive e discorsive (secondo l’insegnamento di Senofane). In tutto il testo del poema di Parmenide troviamo certamente un’ispirazione religiosa da collocare sullo sfondo dei misteri orfici, molto praticati nella Magna Grecia (vicino a Elea c’è il grande santuario di Paestum), ma il Proemio della sua opera è la metafora di un viaggio intellettuale dal basso verso l’alto, dalle caligini della vita sensibile al Cielo dove splende la Verità (un Principio universale necessario). Questa metafora è narrata, nel Proemio, con immagini arcanamente allusive, che nel loro complesso esprimono l’entusiasmo di chi ha scoperto la Verità più per grazia del Cielo che per capacità propria: ma in realtà traspare la soddisfazione di aver intuito con la ragione (per grazia della propria ragione, umana) il concetto della Verità, la parola chiave che definisce questa idea.

     Quindi non si deve pensare che Parmenide, con il suo pensiero, voglia sostenere la causa di qualche gruppo religioso in particolare. Parmenide, nel quadro della sapienza poetica orfica, si è, molto probabilmente, ispirato a Esiodo (che noi abbiamo incontrato ad Ascra, in Beozia), il quale con la sua Teogonia ha fatto uso dell’epos (della poesia orfica) per rappresentare e, contemporaneamente per demolire, il mondo degli dèi, alludendo al fatto che c’è un mondo superiore retto dalla Giustizia che sta al di sopra degli dèi. Anche la Teogonia di Esiodo comincia con un prologo che contiene una grande allegoria: a Esiodo, ai piedi dell’Elicona, uno dei monti sacri dell’Ellade, mentre sorveglia il gregge al pascolo, appaiono le Muse che gli fanno una rivelazione che lui trasmette attraverso il suo poema: gli dèi non esistono, gli dèi sono un fine non un Principio, gli dèi sono un fine nelle mani dell’aristocrazia per soggiogare i contadini. Esiodo mentre racconta le nascite, gli accoppiamenti, i tradimenti degli dèi rivela che nel mondo c’è il dolore, e che il dolore si contrasta con il lavoro quotidiano e che nel lavoro quotidiano bisogna operare per costruire la giustizia sociale.

     Anche Parmenide, con un coinvolgente testo allegorico, vuole rivelare una sua intuizione, vuole completare la riflessione di Esiodo: la Giustizia non è l’ultimo gradino ma si deve fondare su un Principio ancora superiore.

     E ora, quindi, cerchiamo di entrare dentro le parole per capire meglio il significato del suggestivo Proemio del poema di Parmenide. Parmenide, salito sul cocchio trainato dalle “focose cavalle” che rappresentano le “passioni dell’animo”, viene condotto dalle Elidi, le Figlie del Sole che rappresentano le “sensazioni”, sino al luogo dove c’è la porta delle vie della Notte e del Giorno. A guardia della porta, Parmenide trova la Giustizia (Dike) che ha «le chiavi che aprono e chiudono» e non lo vuole far passare oltre. Ma le Figlie del Sole (le sensazioni) convincono la Giustizia con «soavi parole» a far passare il poeta e a portarlo al cospetto della Dea. La Dea lo accoglie, benevola e severa, e gli parla. Chi è questa Dea che sta al di sopra, che avvalora la Giustizia? Della Dea non viene fatto il nome: si parla della «dea Verità», cioè della «verità stessa», intesa come «dis-velamento» [«Sotto il velo dell’apparenza è la Verità-Aletheia», scrive Friedrich Holderlin in Iperione] e, in greco, questa parola si traduce a-letheia. Quindi il concetto della Verità – nell’Età assiale della storia – si fonda sull’idea che la verità stessa sia qualche cosa che è portata a rivelarsi, ad auto-rivelarsi, e la parola-chiave aletheia significa letteralmente: la dèa che rivela se stessa. Questa idea – legata alla parola aletheia – è entrata nel modo di pensare comune per cui esiste la convinzione che: la verità venga sempre a galla, e molti proverbi, molti modi di dire popolari fanno riferimento a questo concetto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nella tua esperienza personale: quando hai gioito del fatto che la verità è venuta a galla? Scrivi quattro righe in proposito…

     La riflessione sul significato della presenza di questa Dea, nel Proemio del poema di Parmenide,  fa sì che ci domandiamo: perché viene chiamata in causa una Dea e non un Dio? Questa Dea ha la particolarità di assumere via via aspetti e nomi differenti e dalle studiose e dagli studiosi è stato messo in rilievo il nesso culturale ben preciso fra questa Dea e la figura mitica della Grande Madre propria della religiosità mediterranea; e poi Parmenide si deve essere certamente ispirato ai personaggi femminili che campeggiano nella cultura del movimento della sapienza poetica orfica: Ilizia (la grande levatrice) e Latona (la divina partoriente), e di queste due figure mitiche noi sappiamo molte cose, le abbiamo studiate qualche mese fa.

     Nel poema di Parmenide la Dea si manifesta in molti modi, secondo la dinamica richiamata dal celebre verso della tragedia Prometeo incatenato di Eschilo che dice: «Temi e Gaia, una sola forma dai molti nomi». L’unità della Dea, citata da Parmenide, si manifesta in molte maniere espresse da nomi emblematici che ne indicano vari aspetti essenziali, e tutti quanti femminili: la Dea è la Divinità che tutto governa, è la Giustizia, è la Sorte, è la Legge divina, è la Persuasione, è la Verità, è la Necessità. La Dea quindi, nel poema di Parmenide, si mostra nei suoi molteplici aspetti, ciascuno dei quali è necessariamente connesso con l’altro e, tutti insieme, costituiscono la forma totale della divinità. Il poema di Parmenide supera il concetto di politeismo (tanti dèi) e introduce l’idea della polinomia (un dio – in questo caso una Dea – con tanti nomi). La potenza divina, senza la polinomia, rimarrebbe muta, inespressa e indistinta. Sul concetto della polinomia si fonda il monoteismo: nelle religioni monoteiste (l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam) la proclamazione del dio unico è accompagnata dalla rivelazione dei suoi tanti nomi, delle sue tante attribuzioni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quali nomi useresti (tre o quattro) per esprimere la potenza divina? 

Scrivili…

     La Dea accoglie Parmenide, benevola e severa, e gli parla: che cosa dice la Dea al maestro di Elea, «venerando e terribile insieme»? Se rileggiamo gli ultimi cinque versi del testo del Proemio prendiamo atto delle parole della Dea:

LEGERE MULTUM….

Bisogna che tu tutto apprenda:

e il solido cuore della Verità ben rotonda

e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.

Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono

bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso»

     Diciamo subito che il finale del Proemio del poema Sulla natura di Parmenide contiene il quadro generale della trattazione che viene svolta nell’opera, e contiene i tre temi fondamentali: la verità (aletheia), le opinioni (doxa) e il rapporto tra le apparenze e le opinioni. Sull’interpretazione degli ultimi due versi si è sviluppato, nel corso dei secoli, un serrato dibattito che continua tuttora. Ci sono due correnti di pensiero in proposito: chi sostiene che le vie di ricerca indicate dalla Dea (da Parmenide) sono due e c’è chi sostiene che sono tre. Intanto possiamo affermare che due vie sono chiare.

     La prima via che dobbiamo apprendere, afferma Parmenide, è quella della verità immutabile (aletheia), verso la quale ci si eleva mediante il pensiero razionale.

     La seconda via che dobbiamo apprendere è dominata dalla consuetudine e dall’esperienza, è confusa dai sensi: è la via dell’opinione (doxa) e delle sue mutevoli apparenze. Ed è comunque necessario, afferma Parmenide, conoscere anche questa seconda via, la via dell’opinione, e penetrarne le insidie, ma soltanto dopo aver percorso la prima via ed essersi procurati in tal modo uno strumento adeguato per smascherare le apparenze. Difatti la via della verità (aletheia) contrapposta alla via dell’opinione (doxa) è la fondamentale scoperta di Parmenide, ed è l’intuizione che segna il punto di partenza dello studio vero e proprio e della ricerca intensa sul terreno della metafisica.

     La via della verità (aletheia) conduce alla definizione del concetto dell’Essere e svela che, nell’intima struttura dell’Essere, esistono alcuni attributi che hanno la stessa necessità logica dell’Essere: che cosa significa? Per capire quello che vuole dire Parmenide e per ripercorrere la stessa via che lui ha percorso, è necessario riflettere sull’atto conoscitivo che si compie quando si esprime un giudizio. Un giudizio, afferma Parmenide, è un atto di conoscenza il cui elemento essenziale è il predicato verbale: senza il predicato verbale (il verbo “essere”) non si riesce ad esprimere un giudizio e quindi non si riesce ad attivare il procedimento della conoscenza. Se dico: «il cielo è scuro», «questa persona è mia amica», «la Dea è misericordiosa», ebbene tutti i termini del giudizio possono cambiare ma il predicato verbale è, in ogni caso, necessario. Senza il verbo “essere” non si formula un giudizio e se non si formula un giudizio non c’è atto di conoscenza, quindi senza il verbo “essere” non c’è conoscenza.

     Il concetto dell’ “essere”, afferma Parmenide, è dunque onnipresente nei processi conoscitivi: i sensi forniscono, per così dire, il materiale del conoscere, che è di per sé un materiale mutevole e provvisorio, la ragione invece ha come oggetto suo proprio ed esclusivo l’essere. Per Parmenide, quindi, la necessità logica dell’essere (il concetto dell’essere bisogna che ci sia, se no non potremmo conoscere…) diventa una necessità oggettiva che viene chiamata necessità ontologica, dal termine greco on, che vuol dire ente, ciò che è.

    E qual è la prima affermazione ontologica che, con Parmenide, entra in gioco nella Storia del Pensiero Umano? La prima affermazione ontologica è che: solo l’Essere è necessario. Di conseguenza, afferma Parmenide, se la ragione mi dice che l’Essere è necessario questo significa che l’Essere non può non essere. Solo coloro che – leggiamo nel Proemio – la Dea conduce al di là della distinzione tra la Notte e il Giorno, al di là cioè del mondo sensibile, sono in grado di intuire l’Essere e quindi di conoscere la Verità. Coloro, invece, che si limitano alla conoscenza sensibile e non usano la ragione, «è gente» scrive Parmenide «dalla doppia testa, nel cui petto la mente vaga errabonda, cieca, sorda, stupida e incapace di distinguere l’Essere dal non-essere, la Verità dall’opinione».

     Parmenide, nella sua opera, riflette su che cosa possa essere detto dell’Essere. Per Parmenide l’Essere (o l’Uno, o Dio, o il Logos, o la Verità) è qualcosa «di unico, d’intero, d’immobile e d’ingenerato». Naturalmente queste qualità dell’Essere non sono così lontane dalla vita materiale e quindi hanno sempre fatto riflettere (e lo stesso Parmenide ha riflettuto) sul fatto che contengono parole che rimandano alla quotidianità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole – unico (la solitudine), intero (la completezza), immobile (l’incapacità), ingenerato (il presente) – ha maggior importanza, oggi, nella tua vita? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     L’Essere è “ingenerato” e “imperituro”: «non è mai stato e non sarà, perché è ora, tutto insieme, nella sua compiutezza». L’Essere è, dunque, fuori del tempo, in un immutabile presente.

     Difatti, se l’Essere avesse cominciato a essere, avrebbe dovuto esser generato dal non-essere: ma come può il nulla generare qualcosa? E nemmeno è possibile che l’Essere si trasformi, perché trasformarsi vuol dire passare da uno stato a un altro stato che prima non-era: ma come può l’Essere generare il nulla? L’Essere è dunque, scrive Parmenide, senza passato e senza futuro, e così si estingue la nascita, e così la morte scompare. Muore il nostro «io» non il nostro «essere»: questa affermazione apre un dibattito che tuttora continua nella Storia del Pensiero Umano. L’Essere esclude da sé ogni attributo temporale, così come esclude da sé ogni idea di divisibilità e di diversità. Se l’Essere fosse divisibile in parti, avrebbe in sé il non-essere: una parte infatti non-è l’altra. Se l’Essere avesse in sé qualità diverse, avrebbe in sé il non-essere perché una qualità non-è l’altra.

     E ora continuiamo questa riflessione utilizzando – con la lettura – la viva voce di Parmenide:

LEGERE MULTUM….

Parmenide, Sulla natura

Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi,

è l’Essere, senza principio né fine

L’imbattibile energia della Necessità lo costringe nelle catene del limite,

che intorno lo avvolge, poiché non può non esser compiuto l’Essere

Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,

convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere,

e cambiar di luogo e mutare il colore splendente

Ma essendovi un limite estremo, esso è compiuto tutto intorno,

simile alla massa di una rotonda sfera

che dal centro preme, con eguale potenza, in ogni parte

     Abbiamo detto precedentemente che tra le studiose e gli studiosi c’è chi sostiene che le vie da conoscere additate dalla Dea (da Parmenide) sarebbero tre: oltre alla via della Verità ben rotonda (aletheia) e alla via delle opinioni dei mortali (doxa), che è del tutto fallace, c’è anche una via che indica in modo corretto come le cose che appaiono (tá dokounta), le apparenze, vadano interpretate, in modo da poterle includere nell’Essere. Questa via è stata chiamata la via dell’opinione vera, dell’opinione in sintonia con la Verità, e si tratta, in un certo senso, di una prosecuzione della via della Verità che, per comodità, è stata chiamata terza via, ossia via dell’opinione verace.

     Evidentemente questa terza via vorrebbe dare forza all’idea delle religioni rivelate in cui un profeta, una guida spirituale o politica (Mosé, Gesù, Maometto, Budda, Zarathustra, Lao Tze, Pitagora, Parmenide stesso) ha delle opinioni in sintonia con la Verità. Noi non vogliamo entrare nella disputa delle due vie contro le tre vie: è un problema d’interpretazione del testo e noi sappiamo che non sempre si capisce esattamente che cosa Parmenide – come tutte le altre e gli altri pensatori che abbiamo incontrato e che incontreremo – volesse dire. Quello che di certo emerge e che a noi interessa, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, sono le parole-chiave fondamentali, in rapporto tra loro, che Parmenide ha messo in evidenza: la Verità (aletheia), l’opinione (doxa), l’apparenza (dokounta).

     Parmenide – e la Scuola di Elea – pone il problema, nella Storia del Pensiero Umano, dell’esistenza di un Principio assoluto, di un Ente assoluto e critica la conoscenza basata sull’apparenza data dai sensi privilegiando la conoscenza razionale. Se il Principio assoluto, l’Essere, come pensa Parmenide, si identifica con la Realtà e con l’Universo, significa che ciò che è reale partecipa di questo “essere”. Quindi l’Essere rappresenta tutto ciò che esiste, è la Realtà in sé, incorruttibile e immutabile. Di conseguenza ciò che è molteplice e mutevole, ossia ciò che “diviene”, il Non-essere, non è altro che illusione, in contrapposizione alla Realtà e all’Essere.

     E questo che cosa comporta? Questo comporta che il pensiero di Parmenide, oltre che nel campo della metafisica e della logica sfocia sul terreno dell’etica: e questo è un aspetto molto importante della Scuola di Elea. Se l’Essere è necessario, e non può non essere quello che è, pensa Parmenide, vi è come una legge di Giustizia (Dike) che vincola il mondo dell’Essere alla sua immutabile necessità. L’idea di un Principio assoluto che trascende il contingente ci fa ragionare sull’idea di valori assoluti che superano i particolarismi. Se c’è un Principio assoluto ci devono necessariamente essere anche Valori assoluti, Principi universali, Diritti inviolabili, Doveri ineludibili.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il 10 dicembre 1948 l’ONU ha proclamato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: è un documento di 30 articoli, li hai mai letti?… Se ti capita – utilizzando la biblioteca o la rete – di consultare questo Documento puoi trascrivere un articolo, quello che ti interessa di più

     Un’altra idea significativa di Parmenide su cui la Storia della Cultura continua a riflettere è che il pensare implica l’Essere mentre il non-essere non è pensabile: che cosa significa?  Secondo Parmenide significa che il pensare dimostra l’esistenza della cosa pensata e, viceversa, il non-essere, non solo non esiste, ma non può nemmeno essere pensato. Però noi possiamo pensare anche a una persona che non esiste più, scomparsa, e questo non dovrebbe implicare per forza l’esistenza della persona pensata, se mai: «esiste qualcuno che sta pensando ad una persona, oggi purtroppo scomparsa». Ma Parmenide ribatte dicendo che stiamo confondendo «l’essere» con «l’esistere» e che solo le apparenze dicono che la persona a cui stiamo pensando è scomparsa, giacché, questa persona, in effetti «è» ancora: è uscita dall’esistenza ma la sua essenza rimane. Il fatto è che noi ci possiamo mettere a pensare a una cosa che, non solo non «è» in questo momento, ma che non è mai «stata», nemmeno prima. Se pensiamo, per esempio, agli extraterrestri pensiamo anche a come ce li immaginiamo: con le antenne, tutti verdi. Che cosa risponde Parmenide? Parmenide risponde che se siamo stati capaci di immaginare simili esseri, vuol dire che questi esseri «sono».

     Senza dubbio il concetto di Parmenide legato all’affermazione che «l’essere è, e il non essere non è» è ancora oggi un significativo espediente poetico (frutto del movimento della sapienza poetica orfica) per indurci alla riflessione ontologica, per far sì che ci si domandi costantemente: «Perché io sono io?». La scienza dell’Essere (e oggi, di fronte al trionfo dell’apparire, dobbiamo più che mai porci il problema dell’Essere) rappresenta uno dei temi più complicati nello studio della Storia del Pensiero Umano.

     Per ora, in attesa che nel tempo (nei nostri prossimi Percorsi), il problema dell’Essere e del Non-essere si complichi, ci possiamo accontentare di una definizione del Non-essere (visto che è a portata di mano), per poi dedurre il concetto più complicato dell’Essere per antitesi. Forse, probabilmente, il poetico viaggio di Parmenide, sul cocchio trainato dalle focose cavalle, è la metafora di questo ragionamento. Parmenide ha cominciato a riflettere sul fatto che il Non-essere è l’insieme delle cose che si manifestano ai nostri sensi sotto forma di colore, sapore, suono e così via, e che al contrario, l’Essere è l’essenza delle cose stesse, ovvero quello che si trova «sotto» la mutabilità delle apparenze.

     Qualche settimana fa, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo letto un frammento tratto da Il piccolo principe, una favola scritta, sotto forma di romanzo da Antoine de Saint-Exupéry (di cui abbiamo narrato, a grandi linee, la storia), che ci racconta che da bambino ha vissuto in un castello (di sua madre), dove si diceva sarebbe stato sepolto un tesoro. Ebbene, proprio per questo motivo, anche se il tesoro non fu mai trovato, quel posto gli era sembrato bellissimo. «Noi» dice Saint-Exupery «guardiamo in genere solo la scorza delle cose e non teniamo conto che l’importante è invisibile agli occhi».

     Michelangelo Buonarroti quando veniva lodato per la sua eccezionale abilità di scultore, rispondeva sempre che lui si era limitato a togliere il «soverchio» in ogni blocco di marmo, come dire – nel caso di Parmenide e della Scuola di Elea – che questo soverchio sono le apparenze e la statua ideale, imprigionata nel marmo, unica nella sua perfezione, è proprio l’Essere di cui vorremmo conoscere l’immagine (si consiglia, a questo proposito, una visita alla Galleria dell’Accademia, per osservare i Prigioni di Michelangelo).

     Ma, queste riflessioni che stiamo facendo, questo sentiero che abbiamo imboccato ci porta inesorabilmente al mondo platonico delle Idee e poi anche oltre, sino al complesso territorio del Neoplatonismo. Platone nel dialogo il Sofista, che si riallaccia al Teeteto, sviluppa il concetto del “falso” e dell’“apparente” e affida la conduzione del dialogo ad un personaggio che chiama lo Straniero di Elea. Con questa maschera drammaturgica Platone porta a termine il celebre “parricidio di Parmenide”. Il grande principio di Parmenide proclama che «l’Essere è e il Non-essere non è» ma questa affermazione esalta e salva il concetto dell’Essere ma annulla i fenomeni. Questa affermazione sancisce la perdita dei fenomeni naturali, e quindi la sparizione della realtà, e anche la svalutazione totale delle opinioni e delle apparenze. Platone vuole proclamare il principio dell’Essere ma vuole anche ammettere la necessità del «Non-essere», vuole anche salvare i fenomeni. Per questo motivo Platone decide (col benestare del dottor Freud che attinge a piene mani anche dai Dialoghi di Platone) di attuare il “parricidio di Parmenide”, ma, proprio mentre confuta la rigidità della dottrina di Parmenide, tributa al maestro di Elea il più grande onore: Platone, nel momento stesso in cui lo supera, riconosce di essere «figlio» di Parmenide, ossia riconosce che la fonte del suo pensiero sull’Essere è proprio il grande Eleate: «venerando e terribile insieme».

     Ma la storia dello “Straniero di Elea”, che troviamo nel dialogo platonico il Sofista, è un’altra storia che si trova in un altro territorio e che appartiene al secolo successivo: un’altra storia che dovremo conoscere con un altro Percorso a venire. Per ora siamo ancora ad Elea e il “parricidio di Parmenide” – una “scena primaria” come dice il dottor Freud – non è ancora avvenuto.

     Erodoto, quando sente la parola “parricidio”, ride sotto i baffi e dice: «Vi ricordate quando vi ho raccontato la celebre storia di Gige? Celebre l’ho fatta diventare io, narrandola nel primo libro de Le Storie». Penso che molti di voi ricordino senz’altro la celebre storia di Gige narrata da Erodoto nel I libro de Le Storie dal capitolo 7 al capitolo 13. La celebre storia di Gige (un gustoso romanzo breve…) è il primo racconto fantastico e allegorico che Erodoto ci presenta ne Le Storie e rappresenta – come dicono gli studiosi, in particolare il dottor Sigmund Freud (1856-1939) – una “scena primaria” in cui Gige, nascosto nella stanza da letto di Candaule, re di Sardi, spia e vede nuda la sua bellissima moglie, con la complicità del sovrano stesso.

     Che cosa significa “scena primaria”? Il dottor Freud risponde dicendo che il Re è come fosse nostro padre e quindi quella Regina nuda – che siamo costretti a spiare di nascosto – è la moglie di nostro padre.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

È possibile che qualcuno non la conosca o non ricordi questa storia … quindi è utile leggere o rileggere la celebre avventura di Gige: la trovi nel I libro de Le Storie dal capitolo 7 al capitolo 13.  Buona lettura…

     Ma siamo ancora ad Elea e il “parricidio di Parmenide” non è ancora avvenuto e poi non ci possiamo occupare di un parricidio perché dobbiamo occuparci di un uxoricidio: di che cosa si tratta?  Dobbiamo occuparci di un uxoricidio sulla scia delle parole-chiave che Parmenide e la Scuola di Elea hanno messo a punto: la Verità (aletheia), l’opinione (doxa), l’apparenza (dokounta). Soprattutto ci occupiamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – del rapporto (più di natura materiale che spirituale) che da sempre si è creato tra queste parole (verità, opinione, apparenza) che proprio passando da Elea sono entrate a far parte del catalogo della sapienza poetica orfica.

     A questo proposito incontriamo uno scrittore della Magna Grecia che tutti conosciamo e che si chiama Luigi Pirandello, che abbiamo già incontrato recentemente (tre settimane fa) e lo abbiamo citato come appartenente alla “corrente derobertista”. Tra le Novelle per un anno di Luigi Pirandello, che sono diventate poi in gran parte degli spettacoli teatrali, ne troviamo una che s’intitola La verità. In questa novella il protagonista è un significativo personaggio (interpretato, nella versione teatrale, da tutti i più grandi attori) che si chiama Tararà. Tararà è il soprannome del bracciante Saru Argentu che, in questo momento è seduto, nell’aula del tribunale, nella gabbia degli imputati, accusato di aver assassinato con un colpo d’accetta, la mattina del 10 dicembre 1911, Rosaria Femminella, sua moglie, colta in flagrante adulterio con il cavalier don Agatino Fiorìca. Tararà può sperare nell’assoluzione da parte del Tribunale perché la legge contempla forti attenuanti per il cosiddetto “delitto d’onore”.

     Per scrivere questa novella, Pirandello prende spunto da un fatto vero che legge sul giornale e coglie l’occasione non solo per denunciare il contesto sociale in cui prende corpo il “delitto d’onore” ma soprattutto per riflettere sui concetti della verità, dell’opinione e dell’apparenza e per ragionare sull’intreccio che esiste tra queste tre parole-chiave. Per bocca di Tararà (incolto, animalesco, ma rispettoso, per istinto, a modo suo, della Corte) la verità viene a galla sovrapponendosi alle opinioni e alle apparenze. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Luigi Pirandello, La verità  (1912in Novelle per un anno

Saru Argentu, inteso Tararà, appena introdotto nella gabbia della squallida Corte d’Assise, per prima cosa cavò di tasca un ampio fazzoletto rosso di cotone a fiorami gialli, e lo stese accuratamente su uno dei gradini della panca, per non sporcarsi, sedendo, l’abito delle feste, di greve panno turchino. Nuovo l’abito, e nuovo il fazzoletto. Seduto, volse la faccia e sorrise a tutti i contadini che gremivano, dalla ringhiera in giù, la parte dell’aula riservata al pubblico.

L’irto grugno raschioso, raso di fresco, gli dava l’aspetto d’uno scimmione. Gli pendevano dalle orecchie due catenaccetti d’oro.

Dalla folla di tutti quei contadini si levava denso, ammorbante, un sito di stalla e di sudore, un lezzo caprino, un tanfo di bestie inzafardate, che accorava. Qualche donna, vestita di nero, con la mantellina di panno tirata fin sopra gli orecchi, si mise a piangere perdutamente alla vista dell’imputato, il quale invece, guardando dalla gabbia, seguitava a sorridere e ora alzava una scabra manaccia terrosa, ora piegava il collo di qua e di là, non propriamente a salutare, ma a fare a questo e a quello degli amici e compagni di lavoro un cenno di riconoscimento, con una certa compiacenza. Perché per lui era quasi una festa, quella, dopo tanti e tanti mesi di carcere preventivo. E s’era preparato come di domenica, per fare buona comparsa. Povero era, tanto che non aveva potuto neanche pagarsi un avvocato, e ne aveva uno d’ufficio; ma per quello che dipendeva da lui, ecco, pulito almeno, sbarbato, pettinato e con l’abito delle feste.

Dopo le prime formalità, costituita la giuria, il presidente invitò l’imputato ad alzarsi. «Come vi chiamate?»  «Tararà». «Questo è un nomignolo. Il vostro nome?»  «Ah, sissignore. Argentu, Saru Argentu. Eccellenza. Ma tutti mi conoscono per Tarar໫Va bene. Quanti anni avete?»  «Eccellenza, non lo so»«Come non lo sapete?»  Tararà si strinse nelle spalle e significò chiaramente con l’atteggiamento del volto, che gli sembrava quasi una vanità, ma proprio superflua, il còmputo degli anni. Rispose: «Abito in campagna, Eccellenza. Chi ci pensa?».  Risero tutti, e il presidente chinò il capo a cercare nelle carte che gli stavano davanti: «Siete nato nel 1873. Avete dunque trentanove anni». Tararà aprì le braccia e si rimise: «Come comanda vostra Eccellenza».  Per non provocare nuove risate, il presidente fece le altre interrogazioni, rispondendo da sé a ognuna: «È vero? è vero?».  Infine disse: «Sedete. Ora sentirete dal signor cancelliere di che cosa siete accusato»

Il cancelliere si mise a leggere l’atto di accusa; ma a un certo punto dovette interrompere la lettura, perché il capo dei giurati stava per venir meno a causa del gran lezzo ferino che aveva empito tutta l’aula. Bisognò dar ordine agli uscieri che fossero spalancate porte e finestre. Apparve allora lampante e incontestabile la superiorità dell’imputato di fronte a coloro che dovevano giudicarlo. Seduto su quel fazzolettone rosso fiammante, Tararà non avvertiva affatto quel lezzo, abituale al suo naso, e poteva sorridere; Tararà non sentiva caldo, pur vestito com’era di quel greve abito di panno turchino; Tararà infine non aveva alcun fastidio delle mosche, che facevano scattare in gesti irosi i signori giurati, il procuratore del re, il presidente, il cancelliere, gli avvocati, gli uscieri, e finanche i carabinieri. Le mosche gli si posavano su le mani, gli svolavano ronzanti sonnacchiose attorno alla faccia, gli s’attaccavano voraci su la fronte, agli angoli della bocca e perfino a quelli degli occhi: non le sentiva, non le cacciava, e poteva seguitare a sorridere.

Il giovane avvocato difensore, incaricato d’ufficio, gli aveva detto che poteva essere sicuro della assoluzione, perché aveva ucciso la moglie, di cui era provato l’adulterio. Nella beata incoscienza delle bestie, non aveva neppur l’ombra del rimorso. Perché dovesse rispondere di ciò che aveva fatto, di una cosa, cioè, che non riguardava altri che lui, non capiva. Accettava l’azione della giustizia, come una fatalità inovviabile. Nella vita c’era la giustizia, come per la campagna le cattive annate. E la giustizia, con tutto quell’apparato solenne di scanni maestosi, di tocchi, di toghe e di pennacchi, era per Tararà come quel nuovo grande mulino a vapore, che s’era inaugurato con gran festa l’anno avanti. Visitandone con tanti altri curiosi il macchinario, tutto quell’ingranaggio di ruote, quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge,    Tararà l’anno avanti, s’era sentito sorgere dentro e a mano a mano ingrandire, con lo stupore, la diffidenza. Ciascuno avrebbe portato il suo grano a quel mulino; ma chi avrebbe poi assicurato gli avventori che la farina sarebbe stata quella stessa del grano versato? Bisognava che ciascuno chiudesse gli occhi e accettasse con rassegnazione la farina che gli davano. Così ora, con la stessa diffidenza, ma pur con la stessa rassegnazione, Tararà recava il suo caso nell’ingranaggio della giustizia.

Per conto suo, sapeva che aveva spaccato la testa alla moglie con un colpo d’accetta, perché ritornato a casa fradicio e inzaccherato, una sera di sabato, dalla campagna sotto il borgo di Montaperto nella quale lavorava tutta la settimana da garzone, aveva trovato uno scandalo grosso nel vicolo dell’Arco di Spoto, ove abitava, su le alture di San Gerlando. Poche ore avanti, sua moglie era stata sorpresa in flagrante adulterio insieme col cavaliere don Agatino Fiorìca.

La signora donna Graziella Fiorìca, moglie del cavaliere, con le dita piene d’anelli, le gote tinte di uva turca, e tutta infiocchettata come una di quelle mule che recano a suon di tamburo un carico di frumento alla chiesa, aveva guidato lei stessa in persona il delegato di pubblica sicurezza Spanò e due guardie di questura, là nel vicolo dell’Arco di Spoto, per la constatazione dell’adulterio.

Il vicinato non aveva potuto nascondere a Tararà la sua disgrazia, perché la moglie era stata trattenuta, col cavaliere, tutta la notte. La mattina seguente Tararà, appena se l’era vista ricomparire zitta zitta davanti all’uscio di casa, prima che le vicine avessero tempo d’accorrere, le era saltato addosso con l’accetta in pugno e le aveva spaccato la testa. Chi sa che cosa stava a leggere adesso il signor cancelliere

Terminata la lettura, il presidente fece alzare di nuovo l’imputato per l’interrogatorio. «Imputato Argentu, avete sentito di che siete accusato?».  Tararà fece un atto appena appena con la mano e, col suo solito sorriso rispose: «Eccellenza, per dire la verità, non ci ho fatto caso». Il presidente allora lo redarguì con molta severità: «Siete accusato di aver assassinato con un colpo d’accetta, la mattina del 10 dicembre 1911, Rosaria Femminella, vostra moglie. Che avete a dire in vostra discolpa? Rivolgetevi ai signori giurati e parlate chiaramente e col dovuto rispetto alla giustizia».

Tararà si recò una mano al petto, per significare che non aveva la minima intenzione di mancare di rispetto alla giustizia. Ma tutti, ormai, nell’aula, avevano disposto l’animo all’ilarità e lo guardavano col sorriso preparato in attesa di una sua risposta. Tararà lo avvertì e rimase un pezzo sospeso e smarrito. «Su, dite, insomma», lo esortò il presidente. «Dite ai signori giurati quel che avete da dire».  Tararà si strinse nelle spalle e disse: «Ecco, Eccellenza. Loro signori sono alletterati, e quello che sta scritto in codeste carte, lo avranno capito. Io abito in campagna, Eccellenza. Ma se in codeste carte sta scritto, che ho ammazzato mia moglie, è la verità. E non se ne parla più». Questa volta scoppiò a ridere, senza volerlo, anche il presidente. «Non se ne parla più? Aspettate e sentirete, caro, se se ne parlerà…».  «Intendo dire, Eccellenza», spiegò Tararà, riponendosi la mano sul petto, «intendo dire, che l’ho fatto, ecco; e basta. L’ho fatto sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati, l’ho fatto propriamente, signori giurati, perché non ne ho potuto far di meno, ecco; e basta»

«Serietà! Serietà! Signori! Serietà!» si mise a gridare il presidente, scrollando furiosamente il campanello. «Dove siamo? Qua siamo in una Corte di giustizia! E si tratta di giudicare un uomo che ha ucciso! Se qualcuno si attenta un’altra volta a ridere, farò sgombrare l’aula! E mi duole di dover richiamare anche i signori giurati a considerare la gravità del loro compito!». Poi, rivolgendosi con fiero cipiglio all’imputato: «Che intendete dire, voi, che non ne avete potuto far di meno?».

Tararà, sbigottito in mezzo al violento silenzio sopravvenuto, rispose: «Intendo dire, Eccellenza, che la colpa non è stata mia»«Ma come non è stata vostra?».

Il giovane avvocato, incaricato d’ufficio, credette a questo punto suo dovere ribellarsi contro il tono aggressivo assunto dal presidente verso il giudicabile. «Perdoni, signor presidente, ma così finiremo d’imbalordire questo pover uomo! Mi pare ch’egli abbia ragione di dire che la colpa non è stata sua, ma della moglie che lo tradiva col cavalier Fiorìca. È chiaro!»«Signor avvocato, prego», ripigliò, risentito il presidente. «Lasciamo parlare l’accusato. A voi, Tararà; intendete dir questo?».

Tararà negò prima col gesto del capo, poi con la voce: «Nossignore, Eccellenza. La colpa non è stata neanche di quella povera disgraziata. La colpa è stata della signoradella moglie del signor cavaliere Fiorìca, che non ha voluto lasciare le cose quiete. Che c’entrava, signor presidente, andare a fare uno scandalo così grande davanti alla porta di casa mia, che finanche il selciato della strada, signor presidente, è diventato rosso dalla vergogna a vedere un degno galantuomo, il cavaliere Fiorìca, che sappiamo tutti che signore è, scovato lì, in maniche di camicia e coi calzoni in mano, signor presidente, nella tana d’una sporca contadina? Dio solo sa, signor presidente, quello che siamo costretti a fare per procurarci un tozzo di pane!».  Tararà disse queste cose con le lagrime agli occhi e nella voce, scotendo le mani innanzi al petto, con le dita intrecciate, mentre le risate scoppiavano irrefrenabili in tutta l’aula e molti anche si torcevano in convulsione. Ma, pur tra le risa, il presidente colse subito a volo la nuova posizione in cui l’imputato veniva a mettersi di fronte alla legge, dopo quanto aveva detto. Se n’accorse anche il giovane avvocato difensore, e di scatto, vedendo crollare tutto l’edificio della sua difesa, si voltò verso la gabbia a far cenno a Tararà di fermarsi. Troppo tardi. Il presidente, tornando a scampanellare furiosamente, domandò all’imputato: «Dunque voi confessate che vi era già nota la tresca di vostra moglie col cavaliere Fiorìca?».

«Signor presidente», insorse l’avvocato difensore, balzando in piedi, «Scusi ma così io così …».   «Che così e così!» lo interruppe, gridando, il presidente. «Bisogna che io metta in chiaro questo, per ora!». «Mi oppongo alla domanda, signor presidente!»«Lei non può mica opporsi, signor avvocato. L’interrogatorio lo faccio io!»«E io allora depongo la toga!»«Ma faccia il piacere, avvocato! Dice sul serio? Se l’imputato stesso confessa…»«Nossignore, nossignore! Non ha confessato ancora nulla, signor presidente! Ha detto soltanto che la colpa, secondo lui, è della signora Fiorìca, che è andata a far uno scandalo innanzi alla sua abitazione»«Va bene! E può lei impedirmi, adesso, di domandare all’imputato se gli era nota la tresca della moglie col Fiorìca?»

Da tutta l’aula si levarono, a questo punto, verso Tararà pressanti, violenti cenni di diniego: il presidente montò su tutte le furie e minacciò di nuovo lo sgombero dell’aula. «Rispondete, imputato Argentu: vi era nota, sì o no, la tresca di vostra moglie?».  Tararà, smarrito, combattuto, guardò l’avvocato, guardò l’uditorio, e alla fine: «Debbo debbo dire di no?», balbettò.  

«Ah, broccolo!», gridò un vecchio contadino dal fondo dell’aula. Il giovane avvocato diede un pugno sul banco e si voltò, sbuffando, a sedere da un’altra parte. 

«Dite la verità, nel vostro stesso interesse!», esortò il presidente l’imputato.  «Eccellenza, dico la verità», riprese Tararà, questa volta con tutt’e due le mani sul petto. «E la verità è questa: che era come se io non lo sapessi! Perché la cosa sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; perché la cosa, signori giurati, era tacita, e nessuno dunque poteva venirmi a sostenere in faccia che io la sapevo. Io parlo così, perché abito in campagna, signori giurati. Che può sapere un pover uomo che butta sangue in campagna dalla mattina del lunedì alla sera del sabato? Sono disgrazie che possono capitare a tutti! Certo se in campagna qualcuno fosse venuto a dirmi: - Tararà, bada che tua moglie se l’intende col cavalier Fiorìca -, io non ne avrei potuto fare di meno, e sarei corso a casa con l’accetta a spaccarle la testa. Ma nessuno era mai venuto a dirmelo, signor presidente; e io, a ogni buon fine, se mi capitava qualche volta di dover ritornare al paese in mezzo della settimana, mandavo avanti qualcuno per avvertirne mia moglie. Questo, per far vedere a Vostra Eccellenza, che la mia intenzione era di non fare danno. L’uomo è uomo, Eccellenza, e le donne sono donne. Certo l’uomo deve considerare la donna, che ce l’ha nel sangue d’esser traditora, anche senza il caso che resti sola, voglio dire col marito assente tutta la settimana; ma la donna, da parte sua, deve considerare l’uomo, e capire che l’uomo non può farsi beccare la faccia dalla gente, Eccellenza! Certe ingiurie sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; certe ingiurie, signori giurati, altro che beccare, tagliano la faccia all’uomo! E l’uomo non le può sopportare! Ora io, padroni miei, sono sicuro che quella disgraziata avrebbe avuto sempre per me questa considerazione; e tant’è vero, che io non le avevo mai torto un capello. Tutto il vicinato può venire a testimoniare! Che ci ho da fare io, signori giurati, se poi quella benedetta signora, all’improvviso Ecco, signor presidente, Vostra Eccellenza dovrebbe farla venire qua, questa signora, di fronte a me, ché saprei parlarci io! Non c’è peggio mi rivolgo a voi, signori giurati, non c’è peggio delle donne cimentose! - Se suo marito -, direi a questa signora, avendola davanti, - se suo marito si fosse messo con una zitella, vossignoria si poteva prendere il gusto di fare questo scandalo, ché non avrebbe portato nessuna conseguenza, perché non ci sarebbe stato un marito di mezzo. Ma con quale diritto vossignoria è venuta a inquietare me, che mi sono stato sempre quieto; che non c’entravo né punto né poco; che non avevo voluto mai né vedere, né sentire nulla; quieto, signori giurati, ad affannarmi il pane in campagna, con la zappa in mano dalla mattina alla sera? Vossignoria scherza? - le direi, se l’avessi qua davanti questa signora. - Che cosa è stato lo scandalo per vossignoria? Niente! Uno scherzo! Dopo due giorni ha rifatto pace col marito. Ma non ha pensato vossignoria, che c’era un altro uomo di mezzo? E che quest’uomo non poteva lasciarsi beccare la faccia dal prossimo, e doveva far l’uomo? Se vossignoria fosse venuta da me, prima, ad avvertimi, io le avrei detto: - Lasci andare, signorina! Uomini siamo! E l’uomo, si sa, è cacciatore! Può aversi a male vossignoria d’una sporca contadina? Il cavaliere, con lei, mangia sempre pane fino, francese; lo compatisca se, di tanto in tanto, gli fa gola un tozzo di pane di casa, nero e duro! - Così le avrei detto, signor presidente, e forse non sarebbe accaduto nulla, di quello che purtroppo, non per colpa mia, ma per colpa di questa benedetta signora, è accaduto».

Il presidente troncò con una nuova e più lunga scampanellata i commenti, le risa, le svariate esclamazioni, che seguirono per tutta l’aula la confessione fervorosa di Tararà.

«Questa dunque è la vostra tesi?» domandò poi all’imputato. Tararà, stanco, anelante, negò col capo. «Nossignore. Che tesi? Questa è la verità, signor presidente».

E in grazia della verità, così candidamente confessata, Tararà fu condannato a tredici anni di reclusione.

     Il giudice – lo scrittore stesso – capisce l’intreccio tra la verità, le opinioni e le apparenze e la sentenza emessa è, tutto sommato, mite, rispetto a quello che prevede il codice penale per l’omicidio volontario. Certamente Luigi Pirandello è uno scrittore che ama il paradosso.

     E il pronunciare questa parola “paradosso” ci ricorda che siamo ad Elea e che, dopo Senofane e Parmenide, dobbiamo incontrare un terzo personaggio famoso: Zenone di Elea, uno che di “paradossi” se ne intende. Abbiamo già incontrato Zenone di Elea – la scorsa settimana abbiamo già trattato l’argomento – quando si reca, nel 450 a.C., in visita ad Atene in compagnia di Parmenide. Si è trattato, probabilmente, di una missione diplomatica, promossa dai cittadini di Elea, per convincere Pericle a firmare un patto di alleanza tra le due città. Il fatto è che questo avvenimento – di cui non sappiamo nulla di certo – è stato raccontato (soprattutto da Platone) in termini mitici. Si narra che Parmenide e Zenone, ad Atene, più che con i governanti, abbiano passato la maggior parte del loro tempo a discutere con i colleghi intellettuali ateniesi.

     Questo avvenimento improbabile, che è entrato nella tradizione mitica, viene narrato come un vero e proprio incontro-scontro al vertice tra filosofi (sebbene amichevole). Da una parte ci sono Parmenide e Zenone di Elea, i quali vogliono dimostrare che in provincia si coltiva una profondità di pensiero simile, se non superiore, a quella che  si sviluppa nella metropoli, e dall’altra parte c’è il giovane Socrate di Atene il quale possiede già una grande capacità dialettica. Da questo improbabile confronto – a detta delle studiose e degli studiosi – ne viene fuori la più complicata conversazione della Storia della filosofia. Questo famoso incontro-scontro tra gli Eleati e gli Ateniesi – di cui ci ha messo al corrente Platone nel dialogo intitolato Parmenide, il cui testo viene considerato il più difficile di tutta la produzione platonica – avviene in casa di Pitodoro, e il primo a prendere la parola è proprio Zenone. Platone, da abile scrittore di teatro, affida a Zenone il compito di attirare l’attenzione del pubblico. Per far aumentare l’interesse di chi ascolta, Zenone deve fingere di pregare il maestro Parmenide (il personaggio più importante) affinché intervenga e, non appena si accorge che l’attenzione del pubblico ha toccato l’akmè, lo presenta dicendo:

LEGERE MULTUM….

Platone, Parmenide (anteriore al 347)

ZENONE - «Non ti pregherei se fossimo in molti, giacché non conviene trattare questi argomenti di fronte alla massa che troppe cose ignora, ma dal momento che siamo in pochi, ti prego di parlare, o Parmenide, pure a nome di Socrate, affinché anch’io, dopo tanto tempo, possa udire la tua voce» …

     Questa è tutta una scena teatrale, creata dal sagace Platone, per far aumentare la tensione emotiva in chi legge (c’è n’è bisogno perché il tema affrontato dal dialogo è dei più ostici) e quindi Parmenide è chiamato a sostenere la sua parte: sappiamo benissimo che è proprio presente a questo incontro per parlare e per divulgare le sue idee, ma lui si fa desiderare e fa finta di rispondere controvoglia:

LEGERE MULTUM….

Platone, Parmenide (anteriore al 347)

PARMENIDE - «O Zenone, mi sento come il cavallo di Ibico [Ibico di Reggio, poeta lirico, vissuto nella seconda metà del VI secolo a.C., ha scritto soprattutto Poesie erotiche…e “il cavallo di Ibico” è una metafora che ricorre spesso nella Storia del Pensiero Umano…] troppo vecchio per affrontare la corsa, o come lo stesso poeta, troppo in là con gli anni per sopportare le fatiche d’amore, eppure temo che dovrò ubbidire alle tue e alle vostre insistenze, malgrado la paura che provo ad attraversare un così vasto mare di parole»

     Dietro a queste parole c’è anche una ragione che dipende dall’esigenza stessa dello scrittore (di Platone) di giustificare il fatto che le lettrici e i lettori si vedono costretti ad affrontare un testo assai complicato: pagine e pagine di ragionamenti macchinosi, volti a dimostrare che «l’Uno è Uno e non può essere molti, sia che l’Uno sia, sia che non sia», ma abbiamo già preso atto, la scorsa settimana di questa difficoltà.

     Chi è Zenone di Elea? Zenone – ci racconta puntualmente Diogene Laerzio nella sua opera Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi – è figlio di Teleutagora, ed è nato a Elea intorno al 490 a.C.. Zenone, fin da bambino, si fa notare per l’intelligenza e la vivacità del carattere, e sembra che Parmenide, intuite le possibilità del ragazzo, lo abbia ammesso fin da giovanissimo alla sua Scuola. Diogene Laerzio allude al fatto che Parmenide si sia lasciato attirare anche dalla bellezza del fanciullo e difatti specifica che: «Zenone fu alunno e amante di Parmenide». Anche Platone nel dialogo Parmenide conferma questo fatto. Ma questa notizia è secondaria rispetto al fatto che Zenone ha studiato con profitto la fisica, la matematica e l’astronomia e che è diventato in breve tempo una persona di eccezionale cultura. Aristotele nella Fisica sostiene che: «Zenone di Elea è stato un ottimo polemista che ha inventato l’arte della dialettica». Zenone, scrive Diogene Laerzio, ha avuto numerosi allievi, tra cui Melisso, Empedocle, Leucippo, Pitodoro, Cefalo, Callia e perfino Pericle.

     Nel dialogo Alcibiade, Platone scrive che le lezioni private di Zenone erano particolarmente vantaggiose ma non troppo economiche: per un intero ciclo di lezioni c’è chi era disposto a pagare anche cento mine, una somma che nel V secolo a.C. consentiva l’acquisto di un bell’appezzamento di terreno.

     Abbiamo accennato precedentemente alla bellezza di Zenone: si dice che Zenone fosse bello, ma, veramente, è difficile dare dei giudizi in proposito, e poi, secondo quali canoni estetici? Platone per esempio, nel dialogo Parmenide, lo descrive come un uomo «di figura slanciata, elegante e gradevole a vedersi». Diogene Laerzio scrive che «i suoi occhi erano bellissimi, grandi, neri e fatti a forma di mandorle» ma anche che «la sua testa era grossa rispetto al corpo e che aveva una protuberanza sulla guancia». Uno storico arabo, un certo Al-Mubassir, sostiene che, pur essendo di bell’aspetto, «Zenone di Elea era basso e aveva il naso camuso», «si muoveva con estrema lentezza, avendo cura di mantenere sempre alto il capo» ma «una volta in cammino, era difficile raggiungerlo a causa della velocità del suo passo. Era solito portare un bastone con l’impugnatura a forcella, tutto ornato d’avorio e di smeraldi». Sembra che questi pensatori ci tenessero molto alla forma: all’incedere ieratico, al gesto solenne, al parlare sentenzioso; per rendersene conto basta osservare le statue greche e si capisce quanto doveva essere importante avere un contegno che incutesse rispetto.

     Come Parmenide, Zenone ha partecipato attivamente alla vita politica della sua polis. L’impegno politico ha portato Zenone ad essere considerato in modo molto positivo da parte delle sue concittadine e dei suoi concittadini, però, la politica è stata anche la causa della sua tragica fine. Le notizie che possediamo sono condizionate dalla tradizione mitica che vuol fare di Zenone di Elea una persona irreprensibile e coerente con i princìpi su cui si fonda l’ordinamento democratico della polis. Sembra che verso la fine del V secolo a.C. la polis di Elea fosse finita sotto la dittatura di un certo Nearco, populista e demagogo, il quale aveva abolito le Istituzioni democratiche tradizionali e controllava personalmente i tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo fatto risulta intollerabile per Zenone il quale ordisce una congiura e finanzia una spedizione armata di oppositori che, partendo dall’isola di Lipari avrebbe dovuto sbarcare, racconta Diogene Laerzio, sulla costa (italica) del Cilento. Questa impresa purtroppo finisce male: qualcuno evidentemente aveva messo al corrente Nearco il quale manda l’esercito a ricevere Zenone e i suoi. I rivoluzionari vengono sterminati quando ancora non hanno messo piede sulla spiaggia di Elea e Zenone viene catturato e portato in catene davanti al tiranno.

     Racconta il pensatore cristiano Tertulliano (155 circa-dopo il 220 d.C.), nella sua opera Apologetico (redatta nel 197), che un giorno, qualche anno prima della sfortunata spedizione di Zenone contro Nearco, un altro tiranno, Dionìsio, aveva chiesto a Zenone quale fosse il maggior vantaggio ricavabile dalla filosofia (dalla dottrina dell’Essere), e che Zenone gli aveva risposto: «Il maggior vantaggio ricavabile dalla  dottrina dell’Essere è il disprezzo della morte». Ebbene, secondo la tradizione mitica, Zenone ha avuto modo di dimostrare la validità della sua affermazione.

     Nearco fa di tutto per farsi rivelare i nomi dei congiurati rimasti a Elea. Zenone, ci racconta Diogene Laerzio, si limita a citare con calma, uno per uno, in modo ironico, tutti i politici più legati al tiranno, e solo quando la tortura diventa insopportabile, dichiara di voler dire tutta la verità, e chiede a Nearco di avvicinarsi a lui perché i nomi glieli vuole sussurrare (queste sono cose da farsi con discrezione) nell’orecchio. Lo storico Diodoro Siculo (90-20 a.C.) nato in Sicilia e vissuto a Roma al tempo di Augusto nella sua opera Biblioteca storica ci racconta che quando Nearco si avvicina per meglio udire i nomi dei complici, Zenone, con uno scatto repentino, addenta l’orecchio del tiranno e non molla la presa finché non cade ferito dalle spade delle guardie del corpo del tiranno. Non essendo ancora morto, viene di nuovo sottoposto a tortura, e allora (ci racconta Clemente Alessandrino, nell’opera Stremata, redatta tra il 202 e il 215) Zenone, con un morso, si mozza la lingua e la sputa in faccia al tiranno. A questo punto, scrive Diogene Laerzio, Nearco capisce che con un tipo del genere non c’è niente da fare e comanda che sia pestato in un mortaio e fatto a pezzettini. Sembra che, prima di esalare l’ultimo respiro, Zenone abbia dichiarato: «Nella vita la virtù non è sufficiente, giacché ha bisogno anche dell’aiuto di un felice destino»: ora come abbia fatto, il nostro eroe, senza lingua, a farsi capire risulta un mistero! Comunque – anche se quest’ultima sua dichiarazione non è una gran massima – l’affermazione di Zenone è stata sempre apprezzata da tutti: nella vita ci vuole, o ci vorrebbe anche, una botta di fortuna.

     E noi, per quanto riguarda Zenone di Elea, un colpo di fortuna l’abbiamo già avuto, infatti ci sono stati tramandati i suoi famosi “paradossi”: di che cosa si tratta? Ed Erodoto non ha niente da dire questa sera? Erodoto, questa sera, risponde in versi molto sciolti [versi apocrifi: riservati alla Scuola]:

LEGERE MULTUM….

Pseudo-Erodoto, Frammento ludico (apocrifo da delirio di fine lezione)

Ho molto da imparare da Zenone l’Eleate,

di tiranni perversi, morsicatore audace

Avrà pensieri veri o grossi paradossi

tra quei capelli mossi dal vento del Cilento

che fanno la sinossi di ogni ragionamento?

«Una tartaruga non sarà mai raggiunta da Achille?»

Zenone – che lo dice – è un povero imbecille?

I suoi pensier son burle o argomenti virtuosi?

Per saperne di più: correte numerosi

Ve lo dice Erodoto per prendersi un po’ in giro

e a lui s’unisce, divertito, anche Agenore di Tiro

     [… che ride sotto i baffi, ma i baffi non ce l’ha correte numerosi: la Scuola è sempre qua …]

     C’è qualcosa di misterioso in questo frammento ludico (o delirio di fine lezione)? Per appurarlo la Scuola è qui, e la Scuola non è un paradosso (non è un’assurdità, non è un mistero) ma dovrebbe essere un normale impegno settimanale per tutte le cittadine e tutti i cittadini di questa polis…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 16, 2007