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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’IDEA CHE: “L’UNO È TUTTO” ...

Lezione N.: 
18

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007     7-8-9   marzo  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’IDEA CHE: “L’UNO È TUTTO” ...

     Dopo aver salutato Eraclito e aver lasciato Efeso, la nostra bella nave Sidonia, al comando del capitano Agenore di Tiro, ha attraversato ancora una volta il mar Egeo da est verso ovest, ha doppiato il capo Tènaro e, dopo aver attraversato il mar Ionio, ha raggiunto la costa siciliana dove, attraverso lo stretto di Scilla e Cariddi (di Messina) ha puntato verso nord, lambendo le coste tirreniche della Calabria. In questo momento la nostra nave ha compiuto l’attraversamento del golfo di Policastro (leggendo l’atlante questo itinerario risulterà più chiaro) e il capitano Agenore di Tiro richiama l’attenzione di tutti con un perentorio ammonimento (sembra quasi un tenore): «Da adesso: nessun dorma, nessun dorma!». Perché Agenore di Tiro fa questa categorica affermazione? Il fermo ammonimento del capitano Agenore di Tiro più che essere un ordine è una citazione letteraria. Infatti, compiuto l’attraversamento del golfo di Policastro, mentre la nostra nave continua a navigare verso nord, si comincia a scorgere in lontananza l’affusolato promontorio di capo Palinuro. Perché non dovremmo dormire? Perché proprio qui, secondo la tradizione mitica, Palinuro, il timoniere di Enea (Enea, in fuga da Troia, sta navigando verso le coste del Lazio perché deve partecipare alla fondazione di Roma) ha ceduto al dio del Sonno, è caduto in mare e il suo corpo, dopo essere rimasto a lungo insepolto, è stato trasformato in questo bastione calcareo.

     Chi racconta la mitica storia di Palinuro colpito dal dio del Sonno invidioso perché il vigile nocchiero non dorme mai? La racconta in versi Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) nel famoso poema intitolato Eneide. Palinuro è uno dei più famosi personaggi dell’Eneide di Virgilio e compare soprattutto nel V libro dove il poeta racconta appunto come Palinuro, vinto dal dio del Sonno che gli tocca le tempie con un ramoscello bagnato di acqua letèa (del fiume Lete), si addormenta e cade in mare, di fronte alle coste del Cilento, nel viaggio dalla Sicilia a Cuma. Palinuro è anche protagonista nel libro VI dell’Eneide, quando Enea scende agl’Inferi e nell’Ade incontra l’ombra del suo timoniere: è un incontro commovente e drammatico. L’ombra di Palinuro chiede ad Enea la sepoltura (perché senza sepoltura non può avere pace) e gli racconta come lui, dopo essere caduto in mare, sia riuscito a giungere, dopo aver nuotato per tre giorni e tre notti, sulla costa dell’Italia. Ma lì, quando credeva di essersi salvato, fu assalito e ucciso da gente armata (a scopo di rapina) che poi lo ha lasciato insepolto sulla spiaggia presso il porto di Elea (di Velia per i Romani): così si adempiva, ma in un senso imprevisto, un oracolo di Apollo il quale aveva predetto a Palinuro che il mare lo avrebbe trasportato in Italia. Nel VI libro dell’Eneide la Sibilla virgiliana annuncia all’ombra di Palinuro che gli abitanti del Cilento, i cittadini di Elea,  come risarcimento, gli innalzeranno un tumulo e gli presteranno un culto propiziatorio come fosse una divinità.

     Visto che stiamo passando davanti a capo Palinuro che si presenta come un enorme tumulo (avete mai visto capo Palinuro?) in onore del timoniere più famoso della Storia della Letteratura, leggiamo un frammento del V libro dell’Eneide:

LEGERE MULTUM….

Publio Virgilio Marone,  Eneide (libro V)

Al suo posto Palinuro, il nocchiero, guidava il convoglio, sicuro

di come avrebbe regolato la rotta e condotto la flotta d’Enea

anche sotto il cielo che ormai si faceva più oscuro.

E già la metà del tragitto celeste aveva compiuto la umida Notte,

e i marinai, stanchi, rilassavan le membra in riposo, sdraiati

sotto i remi, tra i duri sedili, con le teste appoggiate alle ruvide scocche.

Ed ecco che il Sonno, il dio che ha il passo più lieve, disceso dalle stelle eteree,

smosse l’aria tenebrosa e ne scostò le ombre, cercando te, Palinuro, innocente,

sedendoti accanto, che stavi al timone, prendendo l’aspetto del mozzo Forbente,

e disse: «O Palinuro, le correnti portano da sé la nave e regolari spirano le brezze:

puoi concedere un’ora al riposo, volgi gli occhi stanchi al Sonno e alle sue carezze,

se vuoi sarò io a subentrare al tuo posto, per un poco».

A lui così parlò Palinuro, sollevando lo sguardo e guardandolo fisso:

«Pretendi che io non conosca il volto placido delle marine e la calma dei flutti?

Che io abbia fiducia nel mare che ora è benigno ma tra l’onde nasconde l’abisso?

Affiderei Enea (e come?) alle brezze ingannevoli e al cielo, che tante volte

cela tempeste sotto l’illusione del suo aspetto sereno?».

E mentre il nocchiero parlava neanche un momento si staccò dalla barra

e, attento, le costellazioni con gli occhi fissava ed ecco che il dio

con un ramoscello stillante di letèa rugiada e intinto nel profondo sopore di Stige

lo irrorò su entrambe le tempie e a lui riluttante sigillò le pupille smarrite.

Il vigile nocchiero subì quell’imprevisto abbandono delle membra illanguidite e

con in mano il timone, divelta la poppa, cadde, a testa in giù, nelle liquide onde infide,

Palinuro, dal profondo del mare, vanamente invocò più volte i dormienti compagni

mentre l’alata forma del dio, a volo, s’innalzò verso le sublimi aure impalpabili

sulla distesa marina, la nave seguì la sua rotta senza apparente pericolo alcuno

e lambendo le onde venne guidata dalle antiche promesse del padre Nettuno

navigando sotto gli scogli biancheggianti delle Sirene, perigliosi un tempo,

e ingombri delle ossa di molti naviganti sedotti dai canti portati dal vento.

Il rumore dei flutti frangenti sulle rive rocciose cominciò ad echeggiare

nell’orecchio assopito ma esperto di Enea che sentì la deriva e vide la nave sbandare,

e corse e subito pianse, disperato, quando capì di aver perduto il timoniere fidato,

e governò la rotta sui flutti notturni, molto gemendo, e afflitto nell’animo

per la disgrazia di aver lasciato che la perfidia di un dio colpisse l’amico più amato:

«O nocchiero, troppo fidente nel mare e negli orizzonti sereni,

ricorderemo per sempre la tua dedizione al timone e la tua perizia assoluta 

ma ignudo e insepolto giacerai, Palinuro, sulla sabbia di una spiaggia sconosciuta».

     Oggi, dopo aver oltrepassato capo Palinuro e dopo aver reso omaggio al prototipo di tutti i timonieri, incontriamo una cittadina (un ex villaggio di pescatori), chiamato Marina di Ascea. Chissà se le acque del mare di Marina di Ascea sono ancora così salutari come lo erano qualche anno fa: abbiamo infatti notizia che il medico di Augusto, Antonio Musa, consiglia al poeta Orazio (65-8 a.C.) di venire proprio qui a fare i bagni per curarsi i reumatismi. Troviamo traccia di tutto ciò anche in una delle famose Odi di Orazio intitolata Alla nave che è però dedicata al suo mal di schiena. Quest’Ode facilita la nostra navigazione verso Elea, che i Romani chiamavano Velia.

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Odi

Altri flutti riporteranno al largo la mia nave.

Che fai, nave? Guadagna in fretta il porto.

Non ti accorgi che i remi sono infranti,

l’albero s’incrina in balìa dei venti,

cigolano le antenne, e senza trinche a stento

può resistere alla furia delle onde la tua chiglia?

Non hai vele da issare, non dèi da invocare nella tempesta.

Sei fatta col legno del Ponto, è legno di una nobile foresta

ma non serve che vanti il nome e le origini perché

saresti alla mercé dei venti quando Eolo decide di far festa.

L’innocente nocchiero Palinuro, ingannato dal dio Sonno,

non si affida più ai colori della sua tenace veglia.

Se puoi, nave, evita le rotte ardite tra le splendenti Cicladi:

ti aspetta il mare tranquillo e salutare della generosa Velia.

     A monte di Marina di Ascea (nel comune di Ascea, in provincia di Salerno) si trova l’interessante sito archeologico (oggi dal mare non è più visibile) della polis di Elea, che i Romani hanno poi chiamato Velia: la generosa, come scrive il poeta Orazio. Gli scavi archeologici sul sito di Velia, dell’antica Elea, iniziati nel 1921 e ancora in corso, hanno messo in luce il perimetro della città, il quartiere meridionale e parte dell’Acropoli in cui si vede il basamento di un tempio ionico. Nel quartiere meridionale possiamo osservare i resti di alcune insulae (i quartieri) abbastanza estese, e gli scavi più recenti hanno rivelato la presenza, ad un livello più basso, di un abitato più antico. Gli scavi, inoltre, hanno messo in luce un tratto delle mura di Elea con la Porta Marina e l’agorà. Il reperto più interessante del sito archeologico di Velia è la Porta Rosa, un esempio di architettura ellenistica con la volta ad arco tra i meglio conservati di tutto il mondo greco: si trova nella zona alta della polis, sistemata in un varco naturale sul crinale della collina, e si raggiunge risalendo la bella strada che attraversa tutta la città e che presenta tracce del lastricato originario.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Naturalmente questi sono solo appunti perché, con una guida della Campania o navigando sulla rete, puoi effettuare una visita più approfondita e interessante al sito di Velia, dell’antica Elea, buon viaggio…

     Ma la storia di Elea – abbiamo detto la scorsa settimana – comincia nella Ionia: non ci sarebbe Elea se non ci fosse stata una città della Ionia di nome Focea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il sito dell’antica Focea – che si trova a nord di Foça, l’omonima cittadina situata a nord-ovest della grande città di Ìzmir (Smirne) – lo potete localizzare sull’atlante, sulla guida della Turchia o sulle rete, individuatelo…

     Ebbene, un brutto giorno dell’anno 545 a.C. (anno più anno meno), i Focesi vengono a trovarsi in una situazione molto imbarazzante. Per raccontare questa situazione, che determina anche la fondazione di Elea, è necessario l’intervento di Erodoto. Anche gli emigranti focesi hanno percorso il nostro stesso itinerario (dalle coste egee della Ionia a quelle tirreniche della Campania) e, in quell’anno 540 a.C., dopo aver superato capo Palinuro e dopo aver navigato ancora per qualche miglio, davanti allo scenario di una costa scoscesa, inavvicinabile, ricca di anfratti inaccessibili (la costa meridionale del Cilento), devono aver fatto i salti di gioia quando si è presentata davanti a loro la foce di un bel fiume, l’Alento, sufficientemente larga e profonda da consentire un riparo alle loro navi. Quel luogo era stupendo: c’erano due isolette, Pontia e Isacia – i nomi li conosciamo dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio – situate proprio davanti alla foce, come due colonne a guardia di un porto e soprattutto c’era un promontorio, circondato per tre lati dal mare, che sembrava fatto apposta per costruirci sopra un’Acropoli. Questi migranti focesi considerano subito questo posto come la loro nuova patria e decidono di fermarsi qui.

     Nella storia della colonizzazione della Magna Grecia (della Mega Hellas) la fondazione di Elea da parte dei Focesi non risulta essere un fatto strano perché questo popolo, più di ogni altro, ha fondato colonie in tutto il mondo allora conosciuto. Erodoto nel I libro de Le Storie ci racconta che ai Focesi vengono attribuite: l’esplorazione del Mare Adriatico, la colonizzazione delle coste spagnole e perfino, sulle orme di Coleo (mercante focese), una escursione lungo la costa atlantica al di là delle colonne d’Ercole.

     E allora dobbiamo cercare di capire come sono andate le cose: tutto ha inizio nel 545 a.C., anno più anno meno, ma potrebbe anche essere il 546 a.C. e, dicono le studiose e gli studiosi, che non ha molta importanza in funzione del racconto. In quell’anno un generale persiano di nome Arpago, per conto di Ciro il Grande, decide di occupare la costa ionica e in primo luogo cinge d’assedio la città di Focea.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  162 163

Morto Mazare, venne dall’interno Arpago a succedergli nel comando. Anche egli era medo di origine: egli era quello a cui Astiage, re dei Medi, aveva apprestato il nefando banchetto e che aveva aiutato Ciro a impadronirsi del regno. Eletto allora generale da Ciro quest’uomo non appena giunse nella Ionia, cominciò a conquistare le città valendosi di terrapieni. Infatti, quando aveva costretto gli abitanti a chiudersi entro le mura, egli allora passava all’attacco, erigendo degli argini a ridosso degli spalti.

La prima città della Ionia che assalì fu Focea…

     Ma conquistare Focea non è cosa facile, per di più questa polis ha anche un’uscita di sicurezza: il mare. La parte della polis che dà sul mare non è facile da assediare: i Focesi sono  marinai molto esperti e le loro velocissime navi a cinquanta remi non sono controllabili dall’assediante e continuano ad entrare e ad uscire dal porto assicurando l’approvvigionamento della città. Inoltre la polis di Focea ha una cerchia di mura poderosissime che i Focesi hanno potuto costruire (per proteggersi dalle ambizioni di conquista dei Medi e dei Persiani) con l’aiuto finanziario del re della regione del Tartesso (Paese della Spagna meridionale, nella regione di Cadice, oltre le colonne d’Ercole), il quale è un grande ammiratore di questi coraggiosi navigatori, di questi esperti mercanti capaci di costruire una rete che favorisce i commerci in tutto il bacino del Mediterraneo.

     Erodoto racconta che Arpago, dopo innumerevoli assalti, fa sapere agli assediati che per lui la conquista di Focea è una semplice questione di prestigio (deve salvare la faccia) e che si poteva trovare un accordo: sarebbe stato sufficiente abbattere un solo baluardo (fare meno danni possibile), tanto per dire che anche Focea si era sottomessa al potere di Ciro e poi farlo sapere al grande re. I Focesi avrebbero pagato un simbolico tributo annuale all’Impero e avrebbero continuato a far la vita di sempre.

     Ma ascoltiamo la viva voce di Erodoto attraverso la sua scrittura:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  163 164

Questi Focesi furono i primi dei Greci a darsi ai grandi viaggi e furono essi a scoprire il golfo Adriatico, la Tirrenia, l’Iberia e Tartesso (Paese della Spagna meridionale situato oltre le colonne d'Ercole, nella regione di Cadice).  I Focesi non navigavano con battelli da carico, ma con navi a cinquanta remi. Giunti che furono a Tartesso, s’assicurarono l’amicizia del re dei Tartessi, di nome Argantonio, che dominò sul suo popolo per ottant’anni e visse in tutto centoventi anni. Con lui i Focesi divennero tanto amici, che, dapprima, li incitava a lasciare la Ionia e venirsi a stabilire nel suo paese, dove volessero; poi, siccome non riusciva a convincerli, informato dai Focesi delle conquiste che faceva il re dei Medi, diede loro del denaro perché erigessero delle mura intorno alla città. E ne diede con abbondanza, perché il giro delle mura è di parecchi stadi ed è tutto formato di blocchi di pietra grandi e tra loro ben collegati.

In tale modo, dunque, fu dai Focesi costruito il loro muro.

Arpago, spinto innanzi l’esercito, li cinse d’assedio, pur proclamando che egli si riteneva soddisfatto se i Focesi accettavano di abbattere anche un solo bastione delle mura e consacrare (a Ciro in segno di sottomissione) una sola delle loro case…

     Molto probabilmente, a questo punto, il governo della polis di Focea convoca nell’agorà la grande assemblea di tutti i cittadini e, dopo un vivace dibattito, viene presa una decisione. Gli strateghi di Focea mandano un messaggero ad Arpago per dire che tutti i cittadini della polis vogliono prendersi un giorno di tempo per decidere un’eventuale resa: chiedono una tregua per una pausa di riflessione e, per favorire la quale, domandano che le truppe persiane arretrino di almeno un chilometro dalle mura. Arpago – che dice di conoscere gli usi delle polis ioniche – acconsente alla richiesta e gli assediati – «intolleranti della schiavitù» scrive Erodoto – ne approfittarono per mettere in atto la decisione che hanno preso in assemblea il giorno prima. Ma lasciamo che sia Erodoto a raccontarci gli avvenimenti:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  164

Ma i Focesi, intolleranti della schiavitù, chiesero un giorno per decidere e dissero che poi avrebbero dato la risposta; però, pregarono Arpago che, mentre essi prendevano una decisione, egli allontanasse dalle loro mura l’esercito.

Arpago rispose che conosceva gli usi delle città ioniche e permetteva loro di deliberare.

Mentre, dunque, Arpago conduceva via il suo esercito, i Focesi, trassero in mare le loro navi da cinquanta remi e, imbarcati i figli, le donne con tutte le suppellettili, e, per di più, le statue degli dèi e gli altri doni votivi ai santuari, ad eccezione degli oggetti di bronzo, di marmo, e dei quadri; imbarcate dunque, tutte le altre cose, salirono anch’essi e fecero vela per Chio: e i Persiani si presero Focea vuota dei suoi abitanti…

     Con le loro navi veloci, i Focesi sbarcano quella notte stessa nella vicina isola di Chio, e qui aprono una trattativa con le autorità per comprare, pagando in contanti, le isole Enusse: cinque isolette situate fra Chio e il continente (potete osservarle sulla carta: bisogna fare attenzione a non confonderle con le tre isolette che hanno lo stesso nome e che si trovano nel Golfo messenico) sulle quali i profughi focesi avrebbero voluto stabilirsi. Ma gli abitanti di Chio, consultati dalla bulé, respingono l’offerta adducendo come scusa di temere la reazione dei Persiani, in realtà temono soprattutto la concorrenza mercantile dei Focesi. I profughi focesi, non avevano previsto questo contrattempo e sono costretti a prendere, ancora una volta, la via del mare.

     Siccome il loro amico e alleato Argantonio, re del Tartesso, è già morto, i profughi focesi pensano di puntare le prue delle loro navi verso la lontana isola di Cirno (l’attuale Corsica) dove sapevano che, anni prima, un gruppo di loro compaesani aveva fondato la colonia di Alalia. Oggi questa località si chiama Aleria e se consultate la carta e la guida della Corsica la trovate facilmente nel centro della costa orientale.

     Ma, a questo punto, i profughi focesi prendono una serie di decisioni: alcune unanimi e alcune discordanti. La decisione unanime più importante è quella di tornare a Focea e di compiere una fulminea incursione per distruggere la guarnigione persiana che Arpago ha lasciato a presidiare la città. La più significativa decisione discordante dipende dal fatto che non tutti se la sentono di lasciare la Ionia, di lasciare la loro città anche se ha perduto l’indipendenza e, quindi, la metà dei Focesi, vinta dalla nostalgia, decide di tornare a casa e l’altra metà, invece, pungolata dal demone dell’avventura, decide di emigrare lontano.

     Ma lasciamo che sia ancora Erodoto a raccontarci gli avvenimenti:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  165

Ora i Focesi poiché i cittadini di Chio, nonostante essi desiderassero comperarle, non avevano voluto vendere loro le isole chiamate Enusse (Le cinque isolette situate fra Chio e il continente, da non confondersi con le tre dello stesso nome che si trovano nel Golfo messenico) per timore che divenissero un centro di commercio, e la loro isola, di conseguenza, venisse tagliata fuori, fecero rotta verso la lontana Cirno (la Corsica) dove, vent’anni prima, s’erano assicurati il possesso d’una città, di nome Alalia (Più tardi chiamata Aleria, nel centro della costa orientale della Corsica: è stata colonizzata nel 560 a.C.). A quel tempo, Argantonio era già morto.

Pronti a far vela per l’isola di Cirno, prima di tutto approdarono a Focea e distrussero la guarnigione persiana che custodiva la città, avendone ricevuto l’incarico da Arpago. Poi, fatto ciò, pronunciarono terribili imprecazioni contro chi, di loro, volesse rinunciare alla

spedizione: inoltre scaraventarono in mare una massa di ferro e fecero giuramento che non sarebbero più tornati a Focea, se prima quella massa non fosse riapparsa alla superficie.

Ma quando furono sulle mosse per partire, più della metà dei cittadini fu presa dalla nostalgia e dal rimpianto della città e delle abitudini del paese, e, fattisi spergiuri, ripresero il mare ancora verso Focea.

Quelli, invece, che rimasero fedeli al giuramento, levate le ancore dalle isole Enusse, presero il largo…

     L’arrivo dei Focesi a Cirno (in Corsica) non fa molto piacere ai Cartaginesi e agli Etruschi (che Erodoto chiama i Tirreni), i quali si vedono minacciati da questo continuo affluire di migranti ionici (che rubano, che molestano, ma che soprattutto commerciano con abilità e portano via il lavoro), e decidono di combatterli con grande determinazione. I Tirreni e i Cartaginesi affrontano i Focesi in una battaglia navale di grandi dimensioni che non vede né vinti né vincitori.

     Ma ascoltiamo la viva voce di Erodoto attraverso la sua scrittura:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  166

Quando [i profughi focesi] arrivarono a Cirno, fecero vita comune, per cinque anni, con quelli che erano giunti prima ed eressero anche dei santuari.

Ma poiché essi molestavano e depredavano tutti i popoli vicini, Tirreni e Cartaginesi, di comune accordo, mossero loro guerra con sessanta navi ciascuno.

I Focesi allora, armate anch’essi le loro navi, che erano sessanta, affrontarono i nemici nel mare detto di Sardegna.

Venuti a battaglia, i Focesi riportarono una vittoria Cadmea (Espressione proverbiale – come dire una vittoria di Pirro – per indicare una vittoria conseguita a caro prezzo. Si allude ai due fratelli Eteocle e Polinice, discendenti da Cadmo, che, durante la guerra dei Sette contro Tebe, si uccisero vicendevolmente sul campo) poiché delle loro navi, quaranta furono distrutte e le venti superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri ripiegati.

Ripresa la via di Alalia, imbarcarono i figli, le mogli e quanti degli altri beni le navi erano in grado di portare e poi, lasciata Cirno, navigarono verso Reggio (Colonia calcidica, all'estremità della Calabria, fondata verso il 700 a.C.)…

     Quindi i Focesi sopravissuti alla battaglia navale abbandonano Cirno (la Corsica) dividendosi in due gruppi: un gruppo si dirige verso nord-ovest e – come ci racconta Strabone nella Geografìa – fonda Massaia (Marsiglia), l’altro gruppo si dirige a sud, verso Reggio Calabria. Ma quelli che vengono presi prigionieri fanno una brutta fine: vengono lapidati e questa lapidazione, nel territorio etrusco, crea un maleficio.

     Ma lasciamo che sia Erodoto a raccontarci questi drammatici avvenimenti: dobbiamo dire che nel capitolo 167 del I libro de Le Storie che stiamo per leggere, c’è una lacuna: mancano delle parole ma il senso del testo si capisce benissimo:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  167

Quanto agli uomini che prima si trovavano sulle navi affondate, i Cartaginesi e i Tirreni [Il testo presenta qui una lacuna] ne ebbero il numero di gran lunga più grande e, condottili fuori città, li lapidarono.

Da quel momento, presso gli Agillei (abitanti della città di Agilla, detta più tardi Cere, che era una delle più importanti città della dodecapoli etrusca, fra la costa tirrenica e il lago di Bracciano), chiunque passava per il luogo dove i Focesi erano stati lapidati e dove giacevano i loro corpi, diventava rattrappito, storpio, impotente; si trattasse di pecore, di animali da soma o di uomini, era la stessa cosa.

Allora gli Agillei mandarono messi a Delfi, disposti a riparare il malfatto; e la Pizia ordinò loro di fare quello che ai nostri giorni ancora continuano a osservare: offrono, cioè, ai loro Mani splendidi sacrifici e in loro onore istituiscono delle gare ginniche ed equestri.

Tale destino ebbe questa parte dei Focesi.

     Invece la parte dei Focesi che raggiunge Reggio Calabria, viene a conoscere da un  uomo di Paestum un messaggio della Pizia (dell’oracolo di Delfi) che consiglia loro di non perdere altro tempo e di risalire la costa tirrenica fino alle foci del fiume Alento per conquistare una città che si chiama Iela. La colonia fondata dai Focesi alla foce dell’Alento, in un primo tempo,  come racconta Strabone nella Geografìa,  è stata chiamata Hyele, dal nome di una fonte che si trovava sul posto: per Strabone, quindi, i Focesi prima hanno conquistato una fonte e poi hanno fondato una colonia che viene chiamata Hyele e poi Elea.

     Ma lasciamo che sia Erodoto a concludere il racconto:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  167

Quelli [dei Focesi], invece, che s’erano rifugiati a Reggio, movendo di là s’impadronirono di quella città, del paese d’Enotria (L'antica Enotria comprendeva all'incirca la Lucania e la Calabria odierne), che ora si chiama Iela (Più tardi chiamata Elea, e dai Latini Velia) e che essi colonizzarono dopo aver sentito un uomo di Posidonia (Paestum, 40 km a nord di Salerno) che la Pizia, parlando di Cirno, aveva comandato loro di erigere un santuario per l’eroe di tale nome, non già di fondare una colonia nell’isola.

Così dunque, si svolsero le cose riguardo a Focea d’Ionia. ..

     Come si può constatare, la conclusione del racconto da parte di Erodoto è piuttosto confusa perché le notizie che ha a disposizione sono assai scarse: Erodoto (sebbene sia scettico) utilizza l’oracolo come strumento per mettere in evidenza il fatto che i Focesi non erano destinati a rimanere a Cirno (in Corsica). Ma Erodoto in questi capitoli che abbiamo letto ci fa ben capire che la storia di Elea comincia nella Ionia: non ci sarebbe Elea se non ci fosse stata una città della Ionia di nome Focea, e questo è certo. Se poi i Focesi si siano impadroniti di una fonte oppure abbiano conquistato un insediamento dei Tirreni (una polis etrusca) questo non lo sappiamo.

     Oggi il promontorio dell’Acropoli di Elea non si trova più sul mare: una serie progressiva di alluvioni ha spostato la foce dell’Alento fino a inglobare le due isolette, di Pontia e di Isacia, le quali sono ancora visibili perché sono gli unici punti calcarei in una vasta zona alluvionale. Oggi Elea si chiama Velia (il nome che gli hanno dato i Romani) e a questo punto non ci resta che entrare in città dalla Porta Marina, da dove possiamo camminare in processione verso l’Acropoli e poi salire verso la Porta Rosa: il pensiero che stiamo calpestando le stesse pietre che 2500 anni fa sono state toccate dai calzari di Senofane di Colofone dovrebbe farci emozionare. Chi è questo Senofane di Colofone? Poi dovrebbe farci emozionare il fatto che ogni mattina un tale di nome Parmenide insegnava ad un tal altro di nome Zenone che «l’essere è» e che «il non essere non è». Chi sono Parmenide e Zenone? E che tipo di scioglilingua sarebbe questo gioco di parole sull’essere e sul non essere? Per rispondere a queste domande bisogna procedere con ordine.

     Possiamo però subito dire che in questo posto della Campania – che la maggior parte delle cittadine e dei cittadini italiani non sa neppure che esista – è nata una Scuola, detta eleatica, che ha avuto un grosso peso nella Storia del Pensiero Umano. A fare da tramite tra la Ionia ed Elea – tra l’Ellade e la Magna Grecia – è un poeta, un cantautore che si chiama Senofane. Senofane è nato a Colofone, una polis della Ionia, tra il 571 e il 565 a.C., e si unisce giovanissimo agli abitanti di Focea, che è poco distante da Colofone, quando lasciano la città in mano ai Persiani ed emigrano verso ovest: questa storia la conosciamo, l’abbiamo appena letta. Perché Senofane si allontana da Colofone aggregandosi a quelli di Focea? Sembra che Senofane, nella sua città, sia stato processato e condannato all’esilio per empietà: voleva abolire gli dèi e abolire gli dèi significava abolire un fiorente commercio religioso. Senofane concepisce razionalmente l’idea di Dio, e razionalmente Dio può essere pensato solo al di là della natura umana. Senofane critica e smentisce la teologia tradizionale: ridicolizza gli dèi, scrivendo che gli dèi se li sono inventati gli uomini come modello dei loro vizi e dei loro difetti, dei loro usi e dei loro costumi. Senofane – migrante insieme ai Focesi – probabilmente partecipa alla fondazione di Elea. Ma egli preferisce la vita del poeta girovago, passando di città in città, alla maniera degli antichi aedi: Senofane esporta ad Elea i tratti fondamentali del movimento della sapienza poetica orfica. La storia del pensiero greco viaggia dentro al movimento della sapienza poetica orfica.

     Senofane muore nel 475 dopo 77 anni di vita randagia: aveva cominciato la sua vita randagia a 25 anni, e 77 più 25 fa 102 (non saranno un po’ troppi?). Ad Elea ha dedicato un canto per la sua fondazione, e inoltre tra le sue opere (giunte a frammenti) si ricordano il poema intitolato Sulla natura e i Silli, poesie satiriche, e le Elegie. Senofane di Colofone prende le distanze, con critica mordace, sia dalla religione mitologica di Omero e di Esiodo, sia dalla fisica ancora involuta dei pensatori di Mileto per affermare l’immagine razionale di un Essere supremo [un Dio] che sarà al centro del pensiero di Parmenide, che viene considerato il vero fondatore della scuola eleatica. Ora leggiamo una serie di frammenti significativi dal poema Sulla natura di Senofane di Colofone:

LEGERE MULTUM….

Senofane di Colofone, Sulla natura (frammenti)

Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda (11) … i mortali si immaginano che gli dèi siano nati e che abbian vesti, voce e figura come loro (14).

Ma se i bovi, i cavalli e i leoni avessero le mani e potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove (15)

Gli etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e son neri, i traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi (16)..

     Senofane critica la religione antropomorfica (che fa assomigliare Dio agli esseri umani) perché è consapevole dei limiti del conoscere umano: «Vi è solo un sapere apparente» (34), scrive. Questo senso del limite non gli impedisce di dare una definizione razionale di Dio in cui c’è l’esigenza di far emergere una necessità logica nella presenza di Dio e non un bisogno di tipo mitico legato più all’immaginazione che alla ragione. Solo con Platone e poi con Aristotele si arriverà a una chiara distinzione tra spirito e materia, tra fisica e metafisica, ma questa distinzione è già avviata da Senofane; leggiamo ancora alcuni frammenti:

LEGERE MULTUM….

Senofane di Colofone, Sulla natura (frammenti)

Un solo dio, il più grande fra gli uomini e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali (23); tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio (24); senza fatica scuote tutto, con la forza della mente (25); rimane sempre nello stesso luogo immobile, né gli si addice spostarsi or qua or là (26)

     In questi frammenti di Senofane è possibile rintracciare l’idea fondamentale della Scuola di Elea che si può esprimere con un’affermazione: l’Uno è Tutto. Perché non rimanga una semplice battuta dobbiamo riflettere su questa affermazione che possiamo considerare il Manifesto della Scuola di Elea. Senofane – come ha fatto anche Eraclito di Efeso – deve aver riflettuto sul fatto che il molteplice e il mutevole (le cose di questo mondo) trovano un’unità nelle relazioni reciproche che stringono tra loro gli opposti. Gli opposti, nell’esperienza sensibile, sono l’uno contro l’altro, come la luce e le tenebre, il caldo e il freddo, il bene e il male; ma se con la ragione andiamo oltre i sensi, ci rendiamo conto che gli opposti – capiti con la ragione,  intuiti con il pensiero, compresi con il Logos – non possono essere l’uno senza l’altro, contrariamente si escluderebbero vicendevolmente e ciò determinerebbe la fine della realtà. Gli opposti, pensa Senofane, trovano la loro unità nella ragione individuale e nel pensiero collettivo perché c’è un elemento unificante universale: il Logos, che tiene uniti gli opposti senza vanificarne la loro valenza, e per questo motivo Senofane di Elea definisce il Logos con il termine Uno.

     Qui si apre un dibattito (che dura tuttora) sul significato di questo concetto: cos’è l’Uno? Un principio reale presente solo nella mente degli esseri umani? Oppure un principio reale indipendentemente dal molteplice? Oppure un principio che trova la sua realtà d’essere solo nel molteplice? Queste ipotesi vivacizzano la Storia del Pensiero Umano dei prossimi millenni.

     La cosa importante è che la riflessione di Senofane e della Scuola di Elea, che si risolve nell’affermazione l’Uno è Tutto (En Pan), serve a districare la ragione dal gioco delle immagini mitiche (il Bene e il Male che combattono una battaglia nell’alto dei Cieli), serve a liberare la ragione dall’uso dei simboli al posto dei concetti, dall’alibi (dalla scorciatoia) delle affermazioni dogmatiche di origine religiosa, di natura superstiziosa. Con la riflessione di Senofane e della Scuola di Elea la ragione (il Logos) comincia ad insediarsi nella sua propria sfera, che è quella della necessità logica: la necessità logica è quella legge del pensiero per cui si passa da un concetto a un altro concetto che non può essere che quello, così come in matematica due più due fa quattro. Con Senofane e con la Scuola di Elea la legge del conoscere comincia a diventare propriamente logica.

     Ed ecco che nell’evoluzione dell’albero genealogico lessicale (è un po’ di tempo che non lo nominiamo ma c’è e continua a crescere, a svilupparsi) prende corpo con Senofane e con la Scuola di Elea un’altra significativa parola-chiave: la logica: che cos’è la logica? Noi sappiamo che in greco la parola lógos significa: pensiero, parola, ragionamento, discorso. La logica – per Senofane, per la Scuola di Elea – è quella disciplina che rende visibile, comprensibile, la forma del pensiero in modo da facilitare la conoscenza. E con la logica inizia la distinzione tra la conoscenza sensitiva, il cui prodotto è l’opinione legata all’idea del molteplice, e la conoscenza razionale. La conoscenza razionale porta alla nascita dell’idea dell’Uno (del Logos) e alla codificazione dell’idea della verità necessaria. L’idea di verità, che prende forma con la logica, non può che essere necessaria perché la verità assoluta ripropone i dogmi, e i dogmi portano al mito, e il mito finisce per escludere la ragione. Ed emarginare la ragione (il lógos) significa escludere l’elemento unificante tra gli opposti che devono essere uniti nell’Uno (nel Lógos) perché non possono essere l’uno senza l’altro. Questi ragionamenti portano Senofane ad affermare che l’Uno è Tutto.

     Sul terreno della didattica della lettura e della scrittura assistiamo all’evoluzione della parola bisogno (una delle parole-chiave degli albori) la quale favorisce lo sviluppo della parola fisica che, a sua volta, fa entrare in gioco la parola necessità che introduce la parola logica. La trafila, contrassegnata dalle parole bisogno, fisica, necessità, logica, accompagna il passaggio dalla conoscenza sensitiva alla conoscenza razionale. Questo passaggio si svolge all’interno del movimento della sapienza poetica orfica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Di fronte a quale situazione, ultimamente, hai esclamato: «Qui non c’è logica …»? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Senofane porta l’affermazione l’Uno è Tutto” sul piano della teologia partendo da un interrogativo che anticipa le grandi speculazioni medioevali: fin dove con la ragione si può arrivare a parlare di Dio senza cadere nel mito? Il concetto di Dio non può essere confuso con gli dèi che, alla luce della ragione, non possono esistere. Secondo Senofane, Dio è da considerarsi un’entità superiore, è Tutto ed è Unico.

     Attenzione però: dicendo Unico non dobbiamo subito pensare a un Dio come ce lo immaginiamo noi, secondo la nostra formazione, in chiave di fede monoteista (ebraica, cristiana, mussulmana). Senofane (come i pensatori di Mileto, come Pitagora, come Eraclito) ha una visione panteistica del mondo, dove ogni cosa s’identifica con Dio e dove l’insieme delle cose forma un Tutto Unico avente carattere divino. Gli esseri umani, mette in guardia Senofane, tendono a raffigurarsi la divinità a propria immagine e somiglianza. Come prima cosa, pensa Senofane, parlando di Dio non possiamo dire che Egli sia nato, giacché il perfetto non può nascere dall’imperfetto: quindi Dio è ingenerato ed eterno. Infine le divinità non possono essere una moltitudine, perché, se così fosse, alcune sarebbero superiori e altre inferiori, e non è concepibile l’idea di un Dio inferiore. E non potrebbero neppure essere uguali, perché l’uguale, non essendo per definizione migliore degli altri, contrasterebbe con la prima prerogativa della divinità che è quella di essere suprema. In definitiva, sostiene Senofane, la ragione (la necessità logica) ci fa pensare che Dio è Unico, è Onnipotente ed è Sferico, e, in quanto tale, non è né infinito né limitato. Aristotele sulla sfericità del Dio di Senofane fa un po’ di ironia: secondo lui, «ammettere che Dio è sferico, è come porgli dei limiti».

     Tuttavia  Senofane, oltre che teologo, continua ad essere un fisico e il mondo secondo lui viene dalla terra e ritornerà nella terra. Secondo Senofane, attualmente il mondo è fatto di terra e di acqua e, nelle soluzioni intermedie, di fango. Straordinaria è la sua ipotesi secondo la quale la terra, sotto i nostri piedi, sarebbe infinita, non galleggiante quindi sull’acqua, come sostiene Talete, né sospesa nel vuoto come vuole Anassimandro.                 

     Senofane è come se fosse un Esiodo ormai inurbato, definitivamente inserito nella struttura della polis, e il carattere orfico del linguaggio di Senofane ha perduto ormai tutti i connotati rurali. Esiodo ci fa partecipare (e siamo stati suoi ospiti ad Ascra in Beozia ) alle grandi feste sulle aie della cultura contadina (le grandi feste rurali che concludono le attività del lavoro dei campi: le fienagioni, la battitura, la vendemmia, la frangitura) dove si celebra il canto del caprone, il tragos-oidos. Mentre Senofane è un assiduo frequentatore dei conviti imbanditi nelle case cittadine in cui il vino si mescola al canto per dare spazio all’arguto sarcasmo della discussione. Con Senofane capiamo che, nella polis, questo rituale laico del convito, del convivio, della cena che si celebra in una casa privata per parlare, per discutere, per argomentare, per dialogare – oltre che per mangiare e bere –, ormai ha preso campo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai senz’altro organizzato un convito, un convivio (pranzo o cena), oltre che per mangiare anche per parlare, per discutere, per argomentare, per dialogare: scrivi quattro righe in proposito…

     Senofane è anche un cittadino che rivendica, in quanto poeta, considerazione maggiore di quella riservata agli sportivi: «Non è giusto» dice «che un abile pugilatore, un valente atleta, nel pentatlon, nella lotta o nella velocità delle gambe, abbia più onori e ricchezze di chi invece insegna saggezza, giacché questa, a mio avviso, vale più della forza fisica degli uomini e dei cavalli». In definitiva Senofane è un libero pensatore che antepone la ricerca alla fede nei dogmi; leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Senofane di Colofone, Sulla natura (frammenti)

Gli dèi non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin da principio, ma gli esseri umani trovano a poco a poco il meglio ricercando (18)

     Senofane è una figura nuova che, conservando ancora i modi e gli accenti del movimento della sapienza poetica orfica, pratica tuttavia la ricerca razionale propria dei filosofi. La figura di Senofane ci fa capire che il movimento della sapienza poetica orfica si radica definitivamente nella polis.

     Per concludere l’incontro con questo personaggio leggiamo una delle elegie che cantava negli incontri conviviali:

LEGERE MULTUM….

Senofane di Colofone, Elegie  (frammenti)

il cratere è lì, ripieno di allegria, e c’è pronto altro vino nei vasi, che dice che mai verrà meno, dolce come il miele, odorante di fiori, nel mezzo l’incenso emana il suo sacro effluvio; c’è acqua fresca e dolce e limpida; qui accanto sono i biondi pani e la tavola sontuosa oppressa dal peso dei formaggi e del biondo miele; nel mezzo l’altare è tutto ricoperto di fiori e tutta la casa risuona del canto e del tripudio. Bisogna anzi tutto, da persone dabbene, levare canti a Dio con racconti pii e con parole pure Ma una volta che si è libato e implorato di poter operare secondo giustizia, non è eccesso peccaminoso bere fin tanto che chi non è troppo vecchio possa giungere a casa senza la guida di un accompagnatore

     La Scuola di Elea prende forma e si sviluppa con Parmenide, un personaggio famoso di cui tutti abbiamo sentito parlare. Diogene Laerzio,  attraverso la sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi che stiamo utilizzando regolarmente, c’informa che Parmenide, figlio di Pirèto, nasce a Elea tra il 520 e il 510 a.C.. Inoltre Diogene Laerzio racconta che Parmenide ha come maestri Senofane, Anassimandro e il pitagorico Aminia. Sul fatto che Parmenide sia stato discepolo di Senofane, non ci sono dubbi: stanno nella stessa città dove si conoscono tutti e poi, che Parmenide sia stato alunno di Senofane, lo si capisce dall’influsso che il pensiero di Senofane ha avuto su di lui.

     La presenza di Anassimandro di Mileto invece, tra i maestri di Parmenide, risulta un fatto improbabile (Diogene Laerzio racconta le cose senza mai dar a vedere di avere dei dubbi) perché Anassimandro abita nella Ionia e, anche se ci sono duemila miglia di mare, un viaggetto ad Elea potrebbe pure averlo compiuto; ma il fatto è che tra Anassimandro e Parmenide ci sono circa cento anni di differenza: Anassimandro avrebbe dovuto vivere più di duecento anni per incontrare Parmenide (Diogene Laerzio fa quasi sempre finta di niente: forse è convinto che nel movimento della sapienza poetica orfica tutto sia possibile).

     Per quanto riguarda infine Aminia, la relazione tra l’illustre pitagorico e Parmenide non sembra quella del maestro con l’allievo: Diogene Laerzio, mentre nei confronti di Senofane e di Anassimandro usa l’espressione «è stato scolaro», nel caso di Aminia utilizza le più accattivanti espressioni: «ha avuto rapporti», «ha avuto consuetudine di vita» e un inequivocabile «ha vissuto in intimità». Il fatto che Parmenide sia omosessuale è considerato un fatto normale nel mondo greco (che non ha remore sessuofobiche), e difatti Platone nel dialogo intitolato Parmenide presenta ufficialmente Zenone come l’amante di Parmenide. La cosa non ci deve meravigliare: l’omosessualità per la cultura greca è un fenomeno usuale e quasi tutti i filosofi hanno un fidanzato, però non disdegnano affatto di frequentare anche delle belle etère, signore colte, di spirito, e molto disponibili anche con il corpo.

   Parmenide, scrive Diogene Laerzio, è ricco di famiglia e molto generoso verso gli amici. Quando muore Aminia, scrive sempre Diogene Laerzio, essendo molto povero come tutti i Pitagorici osservanti, fa costruire per lui, a proprie spese, una sontuosa cappella mortuaria.

     Plutarco di Cheronea nei suoi Opuscoli Morali (Apophtegmata Plutarchensis) scrive che Parmenide è stato un ottimo legislatore, tanto che «tutti i suoi concittadini, una volta giunti alla maggiore età, erano tenuti a prestare giuramento di fedeltà alle leggi parmenidee», e questo fatto fa pensare che Parmenide abbia scritto una Costituzione per la polis di Elea.

     Diogene Laerzio ci ricorda ancora che Parmenide ha avuto, come scolari, Zenone ed Empedocle, che non abita ad Elea e che incontreremo prossimamente, mentre Zenone è qui e fa coppia con Parmenide. Nella vita di Parmenide l’episodio più significativo è stato il viaggio che nel 450 a.C. ha fatto ad Atene in compagnia di Zenone. Si è trattato, probabilmente, di una missione diplomatica, promossa dai cittadini di Elea, per convincere Pericle a firmare un patto di alleanza tra le due città. Il fatto è che questo avvenimento, di cui non sappiamo nulla di certo, è stato raccontato in termini mitici. Si narra che Parmenide e Zenone, ad Atene, più che con i governanti, abbiano passato la maggior parte del loro tempo a discutere con i colleghi intellettuali ateniesi. Questo avvenimento improbabile, che è entrato nella tradizione mitica, viene narrato come un vero e proprio incontro al vertice tra filosofi: più che come un incontro viene raccontato come uno scontro (sebbene amichevole). Da una parte ci sono Parmenide e Zenone di Elea, i quali vogliono dimostrare che in provincia si coltiva una profondità di pensiero simile, se non superiore, a quella che  si sviluppa nella metropoli, e dall’altra parte c’è Socrate di Atene il quale, sebbene abbia solo venticinque anni, è già quel gran dialettico che tutti sappiamo e che, a suo tempo, dovremo conoscere meglio.

     Sapete che cosa ne viene fuori da questo improbabile confronto? A detta di tutti i commentatori ne viene fuori la più complicata conversazione della Storia della filosofia. E allora – vi chiederete – perché noi adesso ci dovremmo interessare di una faccenda di questo genere? Perché non è detto che anche le questioni noiose e complicate non abbiano qualcosa da insegnare.

     Intanto, per prima cosa, dobbiamo domandarci chi ci mette al corrente, in modo più preciso, sul contenuto di questo incontro virtuale tra intellettuali Eleatici e Ateniesi? Colui che ci mette al corrente sul contenuto di questo improbabile confronto tra intellettuali Eleatici e Ateniesi è Platone il quale ci dà un ampio resoconto di questo incontro-scontro nel dialogo intitolato Parmenide. Diciamo subito che, a detta delle esperte e degli esperti, il testo del dialogo di Platone intitolato Parmenide è quello che risulta essere il più difficile da leggere e, tenendo conto del fatto che i Dialoghi di Platone in generale non sono di facile lettura, questa affermazione non è certamente di incoraggiamento. Malgrado Platone sia molto abile come scrittore dobbiamo pensare che, soprattutto nel fare l’ipotetico resoconto dell’incontro-scontro tra intellettuali Eleatici (Parmenide e Zenone) e Ateniesi (Socrate), si sia trovato in difficoltà.

     Ma – indipendentemente dal fatto che il dialogo Parmenide di Platone sia difficile da leggere – non possiamo tuttavia rinunciare almeno a capire di che oggetto si tratti, in modo che ci possiamo avvicinare a questo testo anche solo per leggerne il titolo, per leggere l’incipit, per leggere le prime quattro righe, e poi da cosa nasce cosa.  Il dialogo Parmenide di Platone, redatto prima del 347 a.C.,  fa parte dei cosiddetti dialoghi dialettici nei quali Platone riflette sui rapporti tra unità e molteplicità, tra essere e non essere, tra intelletto e ragione, e cerca di chiarire i fondamenti della teoria delle idee.  Secondo Hegel (che probabilmente incontreremo in primavera) il dialogo Parmenide conterrebbe «l’esposizione compiuta della dialettica platonica» (questo è un argomento che dovremo studiare prossimamente).

     L’interpretazione di questo dialogo è controversa e sui significati di questo testo si scontrano molte correnti di pensiero. Certamente Platone mette in pratica un sottile esercizio dialettico usando un linguaggio che sembra assomigliare (e forse sente l’influenza del modo di esprimersi dei pensatori della Scuola di Elea) al gioco di parole. Sappiamo che i protagonisti di questo dialogo platonico sono Parmenide, Zenone e Socrate. Attenzione: adesso noi tentiamo di esporre, in modo molto schematico, le linee generali del contenuto di questo dialogo tenendo presente che non abbiamo ancora studiato né il pensiero di Parmenide né quello di Zenone. Possiamo, però, fare ricorso alle argomentazioni di Senofane con il quale ci siamo  incontrati poco fa.

     Senofane, nel dialogo Parmenide, non viene mai citato da Platone ma, sul tema dell’Uno, che è il tema dominante di questo testo, c’è (anche se Platone non lo dice) molta farina del suo sacco. Platone per primo fa parlare Zenone il quale espone l’argomento principale della Scuola di Elea (che noi dobbiamo ancora studiare) secondo cui dell’Essere non si può né pensare né dire nulla perché contrariamente si confonderebbe con il Molteplice e perderebbe la sua prerogativa di Essere. Socrate (sappiamo che dietro al personaggio di Socrate c’è il pensiero di Platone) risponde che, secondo lui, questa negazione (questa omertà nei confronti dell’Essere) è un annullamento della conoscenza ed è un annientamento del logos (del pensiero) e propone la “teoria delle idee”. La vera realtà, afferma Socrate in nome di Platone, è data dalle idee e questo fatto risolve il problema del rapporto tra l’unità e la molteplicità: l’idea è un concetto razionale che assicura l’unità tra l’Essere e il Molteplice. Il fatto che una cosa sia reale dipende dall’idea che ha dato la forma a questa cosa. L’idea assicura quindi contemporaneamente l’essenza e l’esistenza di una cosa: la sua Unità nella Molteplicità.

     Subito dopo, Platone fa intervenire Parmenide perché possa criticare in modo sistematico gli argomenti esposti da Socrate, ma Platone – con grande abilità – fa sì che la critica di Parmenide alla “teoria platonica delle idee” non solo non sia distruttiva ma rappresenti una introduzione del pensiero di Platone, una presentazione della dialettica platonica filtrata attraverso la riflessione della Scuola di Elea. La critica di Parmenide, che in definitiva risulta costruttiva, introduce alla seconda parte (più lunga e articolata) del dialogo che come abbiamo detto è uno dei testi più difficili di Platone ed espone in maniera complicata, sebbene esemplare, la cosiddetta dialettica platonica. Platone utilizza e analizza il concetto dell’Uno (dell’Essere) come è stato rappresentato ad Elea (da Parmenide e da Zenone) ma ne smonta la rigidità, e lo trasforma, da statico, in un concetto dialettico. Per fare questo Platone utilizza la riflessione di Senofane che possiede la necessaria dinamicità logica.

     Platone afferma che gli Eleatici hanno ragione quando sostengono che l’Uno in sé (l’Uno è Tutto) non deve e non può essere pensato con le categorie con cui pensiamo le cose (con cui definiamo il Molteplice) e quindi l’Uno in se stesso (che è la vera realtà) – che si identifica con il mondo delle Idee, teorizzato da Platone – non può essere pensato affatto: è difficile concepire l’essenza dell’Uno in sé perché, in pratica, siamo circondati dal Molteplice, dalle cose. Ma le cose, sostiene Platone, sono un derivato della realtà: la realtà è l’Uno, è l’Essere.

     E allora, afferma Platone, come possiamo conoscere la realtà? È necessario, ribadisce Platone, che l’Uno in se stesso si ponga positivamente come qualcosa di determinato: difatti l’Uno in sé sente la necessità di manifestarsi come l’Uno che è, vale a dire come l’Ente che favorisce la partecipazione (la methexis) del Molteplice in se stesso. Infatti, afferma Platone, si tratta di un procedimento logico, dialettico (e qui passa a formulare la sua teoria delle idee): un’idea sta appiccicata (come una forma) a un oggetto e lo fa esistere, ma questa “idea che è” sarebbe priva di essenza se, nel mondo delle Idee, non ci fosse “l’idea in sé”. Questo libro che tengo in mano (o qualunque altro oggetto) non lo riconosceremmo mai in quanto tale, nella sua esistenza, se non ci fosse “l’idea in sé” [l’Uno] che lo fa “essere l’idea che è” [una parte del Molteplice]. L’idea del libro è “una in sé”. I libri (gli oggetti) sono molteplici e questo libro, che tengo in mano, è “l’idea che è” [è l’esistenza] perché in esso si manifesta “l’idea in sé” [l’essenza].              L’Uno che è [l’idea], scrive Platone nel Parmenide, corrisponde all’elemento che unifica gli opposti i quali non possono essere l’uno senza l’altro, in modo che Tutto ciò che è [il Molteplice] possa essere contenuto nell’Uno in sé [l’Essere, il Mondo delle Idee].

     Abbiamo tentato – con grande fatica – di mettere in evidenza alcune linee che sono direttamente collegate al nostro Percorso che passa per Elea (il pensiero di Platone, che si trova in un territorio molto più vasto, lo studieremo in modo più esaustivo a suo tempo…). Certamente, in questo dialogo, intitolato Parmenide (che è considerato il più difficile di tutti), Platone mette in pratica un sottile esercizio dialettico usando un linguaggio che assomiglia (e forse sente l’influenza del modo di esprimersi dei pensatori della Scuola di Elea) a quello dei giochi di parole: ma non è facile spiegare concetti così “sofisticati” (incontreremo questo termine ). Tanto per dare un’idea di cosa si sono detti Zenone, Socrate e Parmenide in questo mitico incontro-scontro messo in scena da Platone (per tirare l’acqua al suo mulino), citiamo soltanto due frammenti: l’inizio della risposta di Socrate a Zenone e la replica di Parmenide a Socrate.

LEGERE MULTUM….

Platone, Parmenide (anteriore al 347)

Socrate prende la parola e dice: «Tu affermi, o Zenone, che se le cose che sono, sono molte, esse debbono essere tutte simili e anche tutte dissimili, il che è cosa impossibile; infatti non può ciò che è dissimile essere simile, né ciò che è simile essere dissimile, giacché è impossibile che ciò che è dissimile sia simile e che ciò che è simile sia dissimile, e pertanto è anche impossibile che siano molte le cose che sono…».

Parmenide risponde: «Se dividerai, o Socrate, in parti la grandezza come tale, e ciascuna delle molte cose grandi, sarà grande, ma grande in quanto possiede una parte della grandezza, parte che è più piccola della grandezza stessa come tale, non ne verrà fuori un’assurdità?». «Certamente» risponde Socrate

     L’importante che loro si siano capiti! 

     Questo è un piccolo esempio che evidenzia lo stile con cui si va avanti per decine di pagine e che mette a dura prova la lettrice e il lettore. Allora viene da chiedersi: che senso ha perdere tempo intorno a un’opera come questa? A che cosa servono queste opere, a che cosa ci serve conoscerle? I Classici della Storia del Pensiero Umano – in questo caso uno dei Dialoghi di Platone – non si prestano ad essere letti con la stessa tecnica con cui si legge un romanzo. I Classici della Storia del Pensiero Umano (come ci hanno insegnato gli Umanisti che ce li hanno tramandati) si leggono soprattutto con il metodo del rinvenimento degli stampi, con la tecnica del riconoscimento delle forme, con il sistema della individuazione dei modelli. Le Scuole (le Scuole umanistiche, in particolare) nel corso dei secoli – dal movimento della sapienza poetica in avanti – hanno sempre avuto come obiettivo quello di catalogare stampi, forme, modelli, oggi si dice: parole-chiave e idee-cardine. Quindi la lettura dei Classici della Storia del Pensiero Umano è da attuarsi, preferibilmente, in concomitanza con un percorso di studio, con un percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se ti capita di sfogliare il testo del dialogo di Platone intitolato Parmenide, scopri che si cita molte volte la parola “Uno”, contenuta anche nell’espressione “Uno che è” e nell’espressione “Uno in sé”

Questa constatazione fa pensare al pensiero di Senofane di cui conosci alcuni tratti   

L’Uno è l’Unico nel senso di esclusivo, singolare, originale, diverso, impareggiabile: c’è una cosa (un oggetto) che ritieni unica? 

Scrivi: basterebbe un’unica una parola per dirlo… 

     Conoscere le parole-chiave e le idee-cardine elaborate dalla Scuola di Elea ci serve (come serve a Platone) per riflettere su alcuni temi significativi, su alcuni argomenti fondamentali per imparare, oggi, a leggere la realtà che ci circonda e per diventare più autonomi nel formulare un pensiero e nel dare un giudizio.

     A Elea siamo approdati per affrontare il tema dei rapporti tra il simile e il dissimile, tra l’Uno e il Molteplice, tra l’Essere e il Non-Essere, tra l’Universale e il Particolare, tra l’Intelletto e la Ragione, tra il Reale e l’Illusorio. Il tema dell’equilibrio nei rapporti tra questi elementi, oggi, è fondamentale per attuare una riflessione tanto sugli stili di vita personali in funzione della sostenibilità del Pianeta che ci ospita quanto su ciò che non siamo in grado di controllare. Se non ci esercitiamo – con Parmenide e con Zenone – su questo tema rischiamo di fare la fine del signor Settembre Nort.

     E chi è il signor Settembre Nort? Il signor Settembre Nort è uno dei personaggi del famoso romanzo, scritto nel 1942, da Giovanni Guareschi (1908-1968) intitolato Il destino si chiama Clotilde, che molti di voi hanno già letto perché lo abbiamo citato molte volte in questi vent’anni. Il fatto è che questo romanzo – in tempi di globalizzazione – va riletto ogni due anni.

     Il signor Settembre Nort è un formidabile osservatore ma completamente privo di capacità di giudizio, tutto il contrario del suo babbo, il quale sa giudicare (bontà sua) senza saper osservare le cose da vicino. Siamo subissati dalle immagini e dalle informazioni e questo ha dei risvolti positivi, ma, da tempo, ci stiamo domandando: il sistema della mediazione con cui arrivano immagini e informazioni ci permette di leggere il Molteplice, l’Uno che è, in modo che si possa cogliere l’Uno in sé? Le domande di Elea, veicolate da Platone nel dialogo intitolato Parmenide, sono attuali, così come è attuale il metaforico signor Settembre Nort…

LEGERE MULTUM….

Giovanni Guareschi, Il destino si chiama Clotilde (1942)

Settembre, una volta, si recò in Germania e vi rimase sei mesi. La visitò da capo a fondo, con grande coscienza, osservò attentamente centinaia di cattedrali, di fiumi, di giardini, di donne, di quadri, di monumenti, di ponti, di cavalli.

Quando ritornò a Nevaslippe, Settembre incontrò qualche amico.

«Ti sei divertito? È bella la Germania?», gli chiesero.

«Non so», rispose Settembre, «bisogna che prima parli con mio padre».

... continua la lettura ...

     Ma torniamo sulla strada principale di Elea, sulla via che conduce dalla Porta Marina alla Porta Rosa: da qui si esce sul crinale della collina, dove, davanti allo splendido panorama del mare antistante la polis, all’ombra di un maestoso pino marittimo, incontriamo Parmenide con i suoi discepoli e ci mescoliamo a loro. Platone attribuisce a Parmenide il titolo di «venerando e terribile insieme» e con queste parole riconosce – mentre lo confuta – che la fonte del suo pensiero sul tema dell’Essere è proprio lui: il maestro di Elea «venerando e terribile insieme».

     Parmenide ha scritto le sue idee in un poema intitolato, come sempre, Sulla natura, che  (quello che ci è rimasto, in frammenti) è una delle opere più famose del movimento della sapienza poetica orfica. Il proemio, l’introduzione di questo componimento poetico, è uno dei testi più suggestivi e misteriosi di tutta la Storia del Pensiero Umano. Conoscete il primo verso di questo proemio?

Ippoi taì me férusin, òson t’epì tumòs ikànoi,

     Avete capito che roba? Non avete capito niente? E allora traduciamo il famoso primo verso del poema Sulla natura di Parmenide di Elea:

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,

     Dunque Parmenide – nel proemio del suo poema – immagina di trovarsi su un cocchio trainato da focose cavalle: che tipo di viaggio virtuale (intellettuale, spirituale) sta per intraprendere?  Non ci resta che prendere posto anche noi sul cocchio che sta per partire: questa volta il capitano Agenore di Tiro rinuncia alla guida e anche lui si siede, accanto ad Erodoto, come un normale passeggero lasciando rispettosamente le briglie in mano al maestro di Elea.

     Per intraprendere questo viaggio: la Scuola è qui… e ci dobbiamo “essere”!

     Ma Parmenide, con le briglie in mano, appena sente nominare la parola “essere”, si volta verso di noi alzando la voce e afferma: «E dove ha da Essere l’Essere? L’Essere è, e non può non-Essere!» Conviene a tutti noi “Essere qui” la prossima settimana. È bene non contraddire il maestro di Elea, neppure Platone ha avuto il coraggio di farlo e, quando lo nomina, lo fa con riverente preoccupazione: «Parmenides ieratikos ka menitikos – Parmenide venerando e terribile insieme»…

     La Scuola è qui, non accontentiamoci di apparire: è necessario Essere…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 9, 2007