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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA SUCCESSIONE DEI CONTRARI ...

Lezione N.: 
17

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007      28  febbraio   1-2  marzo  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO 

SULLA SUCCESSIONE DEI CONTRARI ...

     L’itinerario di questa sera non può che cominciare con una domanda rituale: «Avete trovato i numeri?». Questa domanda è metaforica, dice una cosa per dirne un’altra, è come dire: «Avete sfogliato il testo del romanzo I Viceré di Federico de Roberto di cui la scorsa settimana abbiamo letto l’incipit?». Prima di scendere dalla nave Sidonia che, al comando del capitano Agenore di Tiro, ci ha condotto a Efeso insieme ad Erodoto, leggiamo ancora un frammento di questo libro:

LEGERE MULTUM….

Federico De Roberto,  I Viceré  (1894)

Dalla parte delle donne la principessa se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari: del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno, la madre che le era apparsa con tre numeri in mano: 6, 39 e 70, sui quali aveva giocato dodici tarì di nascosto del marito.

     Chissà se la principessa di Roccasciano ha vinto? E quanto avrebbe potuto vincere con un terno di dodici tarì? E chissà quanto vale il tarì tradotto in euro? E chissà se, continuando a leggere I Viceré, si viene a sapere qualcosa, in proposito? Ora sappiamo i numeri –  6   39   70  – e chissà se finalmente Pitagora sarà contento di noi?

     Noi sappiamo che l’espressione “avere i numeri” è una metafora che significa: “possedere delle buone qualità” ; e i numeri li possiede senz’altro la città che stiamo per visitare; e “i numeri” li possiede anche il personaggio che abita qui e che abbiamo già incontrato, attraverso la tradizione mitica, in funzione della didattica della lettura  e della scrittura, la scorsa settimana Eraclito di Efeso.

     La polis di Efeso è situata su uno dei vertici (quello settentrionale) del famoso triangolo ionico-orfico  formato da Mileto, Samo e Efeso: potete osservare sull’atlante questa significativa combinazione geometrico culturale. La polis di Efeso progredisce dal punto di vista commerciale soprattutto perché la sua posizione strategica le consente di diventare il capolinea della cosiddetta “via reale”: una strada, molto trafficata, che dalla Mesopotamia, dal cuore dei grandi imperi asiatico occidentali (Assiri, Babilonesi, Medi, Persiani) arriva sulla costa del mar Egeo. Il merito della posizione strategica che ha Efeso va riconosciuto agli Ioni, ai migranti dall’Attica e dalla Tracia che, per insediarsi sulla sponda del continente asiatico occidentale, dall’XI secolo a.C., hanno scelto questa fascia costiera dove le popolazioni autoctone (che vivono più nell’interno del territorio) avevano creato degli insediamenti sacri, dei luoghi di culto dedicati a Cibele la dea anatolica della fecondità. Gli Ioni s’insediano su questa fascia costiera, costruiscono la polis e poi occupano gli insediamenti sacri dedicati a Cibale. Gli Ioni efesii non profanano questi luoghi, ma secondo la loro tradizione culturale si propongono di riformare i culti arcaici della dea anatolica in senso orfico. Infatti gli Ioni emigrano portando nella loro mente la tradizione del movimento della sapienza poetica orfica e quindi riconoscono nella figura della dea Cibele una serie di caratteristiche simili alle figure orfiche della dea Ilizia, la grande levatrice, e della dea Latona, la sacra partoriente, fecondata da Zeus, madre dei gemelli Apollo e Artemide.

     Le studentesse e gli studenti che stanno viaggiando sugli itinerari di questo Percorso conoscono bene, dal mese di novembre (dell’anno 2006), le figure di Ilizia, di Latona e di Artemide. Non è casuale quindi che (ancor prima che a Delo) il monumento più famoso dell’antica polis ionica di Efeso sia il tempio di Artemide. Nell’antichità, Efeso deve gran parte del suo prestigio a questo tempio che raccoglie le parole-chiave e le idee cardine della tradizione culturale del movimento della sapienza poetica orfica. Nel IV secolo a.C. il tempio di Artemide a Efeso è considerato una delle sette meraviglie del mondo. I primi scavi, a cura degli archeologi inglesi nel 1866, hanno avuto inizio nella zona del santuario di Artemide.

     Se dovessimo dedicarci ad una visita anche superficiale al sito archeologico di Efeso non basterebbe il tempo di questo itinerario e quindi, in questa sede, ci limitiamo ad alcuni riferimenti, più legati al nostro Percorso, invitando ciascuno a dedicarsi alla lettura delle pagine della guida della Turchia che parlano di Efeso (Efes). La zona archeologica di Efeso si trova a tre chilometri a ovest della cittadina di Selçuk ed è un sito complesso e di straordinario interesse: gli scavi hanno portato alla luce le varie stratificazioni efesine.

     Dopo essere stata una polis ionica, Efeso è stata assoggettata da Creso re di Lidia e poi da Ciro il Grande, re dei Persiani, in seguito ha fatto parte dell’impero di Alessandro Magno e, alla sua morte (322 a.C.), è stata governata dal diadoco Lisimaco diventando uno dei centri più importanti dell’ellenismo. Nel 129 a.C. Efeso è stata conquistata dai Romani ed è diventata la capitale della provincia d’Asia.

     Il sito archeologico di Efeso mostra soprattutto i reperti della ricca città ellenistico-romana con l’Odeon, il Tempio di Adriano, la Biblioteca di Celso, il Teatro grande, la via Arcadiana e potete trovare di sicuro delle belle immagini di questi celebri monumenti.

     Efeso è stata sede di un’importante comunità cristiana: secondo la tradizione vi avrebbe soggiornato Giovanni, il discepolo più amato da Gesù, e vi avrebbe scritto il suo famoso Vangelo e qui sarebbe stato sepolto. Di sicuro Efeso è stata frequentata da Paolo di Tarso tra il 55 e il 57 e questa frequentazione è documentata dalla Lettera agli Efesini scritta intorno al 60 o da Cesarea o da Roma.

     A pochi chilometri a sud di Efeso, in un piccolo villaggio, c’è un edificio che si chiama Meryemana (la casa di Maria): questo edificio (che oggi è una piccola chiesa), secondo la tradizione, sarebbe la casa dove, negli ultimi anni della sua vita, è vissuta e dove poi è morta la Beata Vergine Maria.

     Dopo che l’imperatore Teodosio, dal 380 al 395, divide in due l’Impero romano, Efeso è diventata una fiorente città bizantina. In questa città, per volontà dell’imperatore Teodosio II, nel 431, si è tenuto (dopo Nicea e Calcedonia) il terzo concilio ecumenico che ha visto il durissimo scontro tra i vescovi seguaci della dottrina della doppia natura di Cristo di Nestorio e i vescovi sostenitori della dottrina consustanziale di Cirillo di Alessandria che erano in maggioranza. Nestorio, il quale affermava la presenza in Cristo di due nature e di due persone (una umana e una divina), fu condannato e, a Efeso, viene riaffermata la formula teologica costitutiva della figura di Gesù Cristo così come ancora oggi la troviamo e la recitiamo nel Credo (nel Simbolo niceno): «Gesù Cristo è generato e non creato ed è della stessa sostanza del Padre». Sulla scia di questa formula il concilio di Efeso ha riconosciuto alla Beata Vergine Maria il titolo di “genitrice di Dio”. Quando recitiamo l’ “Ave Maria” (“Santa Maria, madre di Dio”) noi citiamo un frammento dei documenti del concilio di Efeso.

     Nell’XI secolo la città è stata conquistata dai turchi Selgiuchidi che hanno ulteriormente contribuito ad accrescerne lo sviluppo. A Efeso ci si trova dinnanzi a moltissimi paesaggi intellettuali da osservare ed è quindi anche utile fare una visita al museo archeologico che si trova nella cittadina di Selçuk. In questo museo sono conservati molti oggetti: i più interessanti sono le statue della dea Artemide Efesina che è detta “polimastide” (dai tanti seni) perché il busto di questa figura (che avrete senz’altro in mente) è decorato con tanti elementi ovoidali che sembrano rappresentare tanti seni, tante mammelle. In questa immagine si raccoglie tutta una sequenza tradizionale che investe il ruolo e detta le funzioni della donna nella società. La figura “polimastide” (dai tanti seni) è la sintesi di tanti personaggi: da Cibele, dea anatolica della fecondità, a Ilizia, la grande levatrice orfica, a Latona, la sacra partoriente delia, ad Artemide Efesina, la dea ionica dell’allattamento e custode del focolare.

     Ma la trafila tradizionale va anche oltre e arriva fino a Maria di Nazareth che, secondo la letteratura apocrifa dei Vangeli, viene a morire a Efeso, dove non è casuale che riceva, proprio qui, nel cuore del culto della maternità, il titolo divino di “genitrice di Dio” (Theotòkos) andando al di là del ruolo umano di “madre di Gesù”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Visitare Efeso significa esercitarsi ad investire in intelligenza, e allora con l’ausilio dell’enciclopedia, della guida della Turchia, della rete di internet potete arricchire ancora di più le vostre conoscenze, e se di questa città qualcosa vi colpisce particolarmente: scrivete quattro righe in proposito…

     Questa sera, dopo essere sbarcati nel porto dell’antica polis ionica di Efeso che si trova alla foce del fiume Caistro, siamo entrati nella cerchia delle mura, abbiamo attraversato l’agorà,  costeggiato il perimetro ellissoidale del teatro e siamo saliti verso il tempio di Artemide che è anche la biblioteca della città. Qui troviamo, in deposito, il poema intitolato Sulla natura che Eraclito ha lasciato ai piedi della statua della dèa. Il grande vecchio non c’è, non abita più in città. Pitagora di Samo, a causa della situazione politica creatasi sull’isola natìa, è partito come esule dalla Ionia verso la Magna Grecia e si è stabilito a Crotone, mentre Eraclito di Efeso non si è mai mosso dalla Ionia ma tuttavia vive come un esule in patria. Lo sdegnoso isolamento di Eraclito è diventato, secondo la tradizione mitica (di cui abbiamo seguito la trafila – in funzione della didattica  della lettura e della scrittura –la scorsa settimana), un vero e proprio eremitaggio sulle montagne (sui monti Pion e Coresso) a ridosso della città, sulla quale lui riversa tutta la sua indignazione con lo stesso stile usato dai profeti di Israele.

     Sappiamo che gli Efesini hanno mandato in esilio Ermodoro, che governa la città in modo esemplare e che ha fama di essere l’uomo politico più probo che ci possa essere, tutto dedito alla realizzazione del “bene comune”. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini di Efeso era impegnata verso l’acquisizione di “beni privati”, piuttosto che orientata alla realizzazione del “bene pubblico”. Eraclito reagisce con rabbia alla cacciata di Ermodoro che giudica come «il migliore di tutti noi». E pensa – leggiamo in uno de I frammenti – che i cittadini di Efeso «Farebbero bene a impiccarsi tutti uno per uno e a lasciare la città nelle mani dei bambini».

     Il potere della nuova classe (gli affaristi, che cominciano a dominare nella polis), non dipende dalla sua virtù ma dipende dal suo denaro, ed Eraclito scrive: «Possa la ricchezza non mancarvi mai, o Efesii, perché, senza l’esposizione dei vostri beni materiali, credete forse di valere qualcosa?». Eraclito, sconfitto, guarda con preoccupazione e con disprezzo alla nascita della categoria sociale della massa. La nuova classe al potere (gli affaristi) sussidia gli appartenenti ai ceti più poveri per renderli succubi e strumentalizzabili, meno competitivi e più portati ad ubbidire. Scrive Eraclito: «La folla è diventata maestra, non sanno che i molti non contano niente, è l’individuo che vale». L’indignazione di Eraclito si trasforma in una contestazione globale e investe tutte le istituzioni: politiche, sociali, religiose, culturali. Critica aspramente i culti religiosi divenuti volgari, detesta l’antico padre Omero responsabile di aver sottovalutato il ruolo della contesa, osteggia le idee dei fisici ionici di Mileto e deride l’esiliato Pitagora chiamandolo «capo di ingannatori», che ha sì studiato e investigato, ma ricavandone soltanto la conoscenza di molte cose, un sapere enciclopedico e per Eraclito: «Il saper molto, parente della furbizia, cattiva arte, lontano dall’intelligenza»

     Sappiamo che lo stile di Eraclito come scrittore, ha fatto sì che già dall’antichità gli fosse attribuito il soprannome di oscuro (skoteinòs). Eraclito vuole risultare “oscuro”, vuole costringere alla riflessione: disprezza la furbizia dei più che è sinonimo di superficialità. Detesta i furbi che «credono di essere svegli ma in realtà sono nel sonno»: i quali «non capiscono anche se ascoltano», e sono «simili ai sordi». Eraclito fa riferimento a due elementi: la natura (fisis), che «ama nascondersi» e la sapienza poetica orfica che si manifesta ad opera delle poetesse e dei poeti con un linguaggio oracolare, con uno stile profetico: «L’oracolo non dice, né nasconde, ma accenna soltanto».

     Sappiamo che Erodoto da ragazzo, quando vive ancora ad Alicarnasso, ha studiato in una Scuola eraclitea: è qui che ha imparato il concetto dell’allusione? Abbiamo già incontrato e studiato, nel primo Percorso su Erodoto, questa significativa parola-chiave: allusione. E l’allusione, l’accenno,  è un concetto che presuppone sempre una riflessione e una precisazione. Ma il linguaggio oracolare, lo stile profetico di Eraclito non esprime solo uno sdegno, una contestazione totale contro il sistema e le sue forme. A rendere così determinato Eraclito è, prima di tutto, la sua forte volontà a non appiattirsi sul presente, e poi è la consapevolezza di aver messo a fuoco un’idea, un concetto che lui vuole far conoscere e far capire a quelli che hanno orecchi per intendere, i quali oggi, qui a Efeso, pensa Eraclito, sono pochi, ma in futuro saranno certamente di più.

     Per questo il profeta randagio depone il rotolo di papiro che contiene il suo poema Sulla natura, nel tempio di Artemide, nella biblioteca della città, come eredità culturale feconda e come memoria intellettuale produttiva per i secoli venturi.

     Il pensiero di Eraclito emerge da una serie di affermazioni significative che ci sono rimaste sotto forma di frammenti. Intorno a queste affermazioni si è sviluppato nei secoli un importante dibattito intellettuale. Eraclito afferma che: «Tutto diviene e nulla è». La vita, la realtà si traduce in un continuo divenire, e «questo divenire, scrive Eraclito, si basa sulla guerra». Con il termine “guerra” noi traduciamo letteralmente una parola-chiave che, nella lingua ionica di Erodoto, presenta un ventaglio di significati: questa parola è pólemos, parola che indirizza la nostra mente verso tutta una serie di significati che riguardano la parola polemica. La polemica non è solo una controversia, una guerra: dobbiamo riflettere su questa parola anche in termini positivi. Pólemos, la polemica, è anche una “discussione molto partecipata”, è anche una “critica costruttiva”, è anche una “sfida stimolante”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Come, dove, quando, con chi, perché e su quale argomento la polemica è stata per voi una discussione molto partecipata o una critica costruttiva o una sfida stimolante?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     La parola pólemos risulta una metafora che, alla luce del pensiero di Eraclito, possiamo tradurre con l’espressione successione dei contrari. Con Eraclito di Efeso il tema dell’armonia dei contrari cessa di essere misterioso: l’armonica successione dei contrari è evidente, è palese, è manifesta. La realtà, tutte le cose sono generate dal contrasto, dalla tensione tra la posizione precedente e quella seguente: siamo alle origini della formulazione della dialettica e il nostro pensiero va, per un attimo, al giovane Hegel che, probabilmente, rincontreremo a primavera, la primavera dell’anno 1801. Per Eraclito, il simbolo del divenire è il fuoco e, se si pensa al fuoco, si pensa davvero ad una cosa che non sta mai ferma: in continuo divenire. Ma quando Eraclito nomina il fuoco tira in ballo un concetto complesso, e anche contraddittorio, su cui è necessario riflettere.

     Sull’idea collegata alla parola-chiave “fuoco” (in greco piros) il testo de I frammenti di Eraclito dà adito a due possibili interpretazioni diverse. Per Eraclito, in primo luogo, il fuoco è l’arché, è il principio dell’Universo che con la sua mobilità dà origine all’insieme di tutte le cose. Ma il Fuoco, per Eraclito, sembra rappresentare anche l’idea dello Spirito, il Pneuma. E questo Fuoco, questo Spirito viene chiamato da Eraclito il Logos che potrebbe essere inteso tanto come la Mente suprema (un concetto di carattere divino), quanto la Legge razionale che regola i rapporti tra gli uomini (un concetto laico). L’intuizione significativa di Eraclito consiste nell’aver messo in evidenza che la molteplicità delle cose trova la sua unità nella ragione umana, nel Logos, che tutto governa e tutto risolve in sé. Secondo Eraclito, il Cosmo (l’immagine che abbiamo dell’Universo) non sembra essere il frutto del pensiero armonico (Logos) di una Mente divina ma piuttosto sembra essere il risultato di un ragionamento (Logos) della mente umana.

     Con Eraclito la cultura che deriva dal movimento della sapienza poetica orfica comincia ad ammantarsi di razionalità, e sappiamo che anche Erodoto si forma intellettualmente alla Scuola del razionalismo ionico di cui Eraclito è l’esponente più autorevole.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il pensiero di Eraclito ci pone di fronte ad una bella domanda (che ora formuliamo operando una semplificazione): c’è una mente divina che, dall’alto, ordina il mondo in maniera sublime, oppure è la mente umana che, razionalmente, dal basso, dà un senso al cosmo?…

Pensieri, riflessioni, ragionamenti e poi quattro righe in proposito: scrivete…

     Con il pensiero di Eraclito, la tradizione orfica sull’anima (considerata come una scintilla divina che tende a ricongiungersi alla sua sorgente eterna, all’Essere, collocato in una dimensione ultraterrena) comincia a modificarsi: l’anima è la parte spirituale della persona che trova la sua unità con il corpo nella ragione umana, nel Logos. Eraclito apre la via al superamento delle tradizioni religiose e filosofiche precedenti. In Pitagora, come abbiamo visto, la ragione matematica è ancora assoggettata ad una preoccupazione sostanzialmente religiosa, che finisce per tendere non a curare l’anima ma piuttosto a liberarla dal ciclo delle rinascite. Con Eraclito la problematica religiosa comincia a trovare spazio nel pensiero filosofico che, in modo laico, cerca di diventare consapevole delle proprie leggi e del proprio cammino. «Ho indagato me stesso» scrive Eraclito in un suo frammento. Ma questa indagine non è né psicologica, come la intende il pensiero moderno, né ascetica, alla maniera del pensiero indiano.

     Eraclito tuttavia continua ad essere figlio del suo tempo: il tempo della sapienza poetica orfica, e difatti, nella sua opera Sulla natura, attraverso il testo de I frammenti che ci sono rimasti, potremmo (le studiose e gli studiosi usano il condizionale) rinvenire il concetto orfico dell’anima come principio divino, come scintilla dell’Essere in balia dell’esistere. Eraclito è capace di arricchire il concetto orfico dell’anima e di presentarla come un’entità che investe sia l’intimo della persona, sia la legge dell’universo, sia la Divinità. I tre anelli – antropologico (la persona), cosmologico (il mondo), teologico (la Divinità) – hanno un solo e medesimo centro: il Logos, il Fuoco.

     Leggiamo il testo di due frammenti in cui possiamo constatare come Eraclito persegua lo stesso obiettivo ultraterreno perseguito dalla dottrina orfica: «Se non spera l’insperabile non lo troverà, perché è introvabile e inaccessibile», e ancora: «Attendono le persone, da morte, cose che non sperano né immaginano».

     Però complessivamente, secondo Eraclito, non ci si avvicina alla conoscenza e alla comprensione con l’ascesi mistica, ma bensì con l’indagine razionale. Leggiamo ancora un frammento: «Per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profonda la sua vera essenza». Le vie dell’anima, intuisce Eraclito, sono le stesse vie della razionalità che non ha nessun confine e quindi il Logos potrebbe identificarsi tanto con lo Spirito, quanto con la Mente superiore. Ma la Ragione universale, il Logos, il Fuoco, come lo chiama Eraclito, non è trascendente e, al contrario, s’identifica con la Legge a cui sono sottoposte le cose che si succedono nel tempo, come il giorno e la notte, come la vita e la morte, e le cose che contrastano tra loro, come il caldo e il freddo, come il bene e il male. Il Logos, il Fuoco, la Ragione universale è soggetta ad una legge, alla legge più importante di tutte le leggi, alla legge che fa esistere il mondo e il Tutto: la legge de l’armonia degli opposti.

     Nel movimento della sapienza poetica orfica (rispetto a i pensatori di Mileto e a Pitagora), Eraclito  capovolge le cose: ci si avvicina all’Essere non operando per eliminare gli opposti ma mettendoli in evidenza. Il Logos, la Ragione universale non è nell’annullamento dei contrari ma nel loro rapporto reciproco, per cui l’uno passa nell’altro e l’uno non è comprensibile se non in rapporto all’altro. Nella coppia «luce-tenebre», la luce non può essere compresa se non è posta in rapporto con la sua negazione, la tenebra (la luce è la non-tenebra), e viceversa, la tenebra non ha razionalmente senso se non è posta in rapporto con la sua negazione (la tenebra è la non-luce). L’infinito e il finito non si escludono: l’infinito non è che l’interminabile movimento con cui la ragione trasforma nel suo contrario ogni cosa finita: la vita in morte, la morte in vita, la veglia in sonno e il sonno in veglia, e così via all’infinito, appunto.

     Eraclito si distingue dai suoi predecessori ionici perché il divenire del mondo non ha per lui un senso lineare, che parte da un principio, da un elemento semplice originario per svilupparsi negli stati compositi successivi. Certo, abbiamo costatato che anche lui parla di un elemento primordiale, il fuoco (teniamo conto che, al tempo di Eraclito, non è stata raggiunta ancora una chiara distinzione tra ciò che è corporeo e ciò che è spirituale) ma il fuoco è stato scelto da Eraclito perché, fra gli elementi, è quello che è sempre se stesso, pur non rimanendo mai se stesso. La fiamma è, ma è perché cessa continuamente di essere quella che è, così come il fiume è quello che è proprio perché, scorrendo le sue acque di continuo, non è mai lo stesso.

     Tra le studiose e gli studiosi di Eraclito ci sono due linee di pensiero: non c’è concordia sulla questione della natura che ha il fuoco. Il fuoco di Eraclito è da intendere come una sostanza (il fuoco che brucia e che scalda e che fa luce), oppure va inteso come un simbolo del sapere, come una metafora della conoscenza, come un’allegoria della comprensione? Ormai da secoli è superata l’interpretazione che faceva di Eraclito l’ultimo della serie dei pensatori fisici ionici. Leggendo I frammenti di Eraclito si capisce che il fuoco, per lui, non è la sostanza fisica, ma è la figura della dinamica razionale che da sempre e per sempre compenetra e muove le molteplicità del Cosmo. E così tra le studiose e gli studiosi non c’è concordia sulla questione se il fuoco, inteso come Logos, sia una realtà spirituale dotata di coscienza di sé, alla maniera di una entità divina, oppure se il Logos sia una razionalità impersonale.

     Certo è che Eraclito sottolinea la differenza tra la razionalità “sublime” del Logos (scritto con la maiuscola come se fosse Dio) che vede le cose in modo assoluto e la razionalità dell’essere umano che si dibatte nelle cose relative. Leggiamo un altro frammento: «Per il Logos tutto è bello, buono e giusto, gli esseri umani invece ritengono giusta una cosa, ingiusta l’altra». Le cose – secondo il testo di questo frammento – per gli esseri umani sono tra loro opposte, invece nel Logos sono identiche per una capacità assoluta che solo il Logos possiede e che non è concessa agli esseri umani ai quali è dato di percepire solo il molteplice. Leggiamo un altro frammento: «Il Logos è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. E muta come il fuoco, quando si mischia ai fumi odorosi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi». Se il Logos è il fuoco e le cose sono i profumi che dal fuoco scaturiscono ci troviamo allora dinanzi (sostengono le studiose e gli studiosi) ad una forma di panteismo, cioè alla identità sostanziale tra una Divinità e le cose.

     Ma forse le studiose e gli studiosi stanno chiedendo troppo a I frammenti di Eraclito, stanno pretendendo troppo da un pensatore che è stato soprannominato ò skoteinòs, l’oscuro. Forse non è neppure logico (a proposito di Logos) mettere Eraclito di fronte a questi temi così arditamente metafisici e che avranno, anche per merito suo, uno sviluppo successivo.

     Per noi che stiamo attraversando, in compagnia di Erodoto e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, il territorio della sapienza poetica orfica, il pensiero di Eraclito è significativo nel suo concetto fondamentale: l’armonia dei contrari cessa di essere misteriosa (come lo è per i pensatori di Mileto e per Pitagora), ma si palesa, si manifesta, si esplicita. L’unità assicurata dalla ragione (dal Logos) è, secondo Eraclito di Efeso, un’unità di opposti che restano tali anche quando su di essi trionfa l’armonia della legge. Leggiamo un altro frammento: «Si deve sapere che la guerra [pólemos] è comune e che la giustizia è contesa e che tutto avviene secondo contesa e necessità».

     Prendersela con le contese, con le polemiche, è da gente presa dal sonno: chi è sveglio, ci ricorda Eraclito, sa che, «il guerreggiare [il polemizzare] è padre di tutte le cose». Questa intuizione è stata di eccezionale portata nella Storia del Pensiero Umano. Georg Hegel (a cui abbiamo dato appuntamento a primavera, nella primavera del 1801), il pensatore moderno che più ha influenzato la cultura e la politica, si considera, proprio a causa della dottrina degli opposti, un discepolo di Eraclito.

     Un discepolo della Scuola di Eraclito è stato anche Erodoto. Negli anni in cui a Efeso muore Eraclito (intorno al 483 a.C.) ad Alicarnasso nasce Erodoto (intorno al 484 a.C.); e quando Erodoto frequenta le elementari, le Scuole di Eraclito sono diffuse su tutta la costa ionica. C’è un collegamento tra il pensiero di Eraclito e la formazione culturale di Erodoto? Le Scuole di Eraclito si caratterizzano per la loro impostazione razionalista (al centro del Tutto c’è il Logos, l’elemento unificante della realtà è la Ragione) e anche Erodoto, lo sappiamo, appartiene alla categoria dei pensatori razionalisti. Lo scetticismo di Erodoto nei confronti degli dèi deve derivare dal pensiero di Eraclito, il quale prova per Zeus, e per tutta la combriccola dell’Olimpo, un disprezzo a dir poco feroce. «Il mondo,  scrive esplicitamente Eraclito, non è stato fatto da nessuno degli Dei».

     Eraclito poi critica apertamente quelli che si dedicano ai culti religiosi con atteggiamento superstizioso. Leggiamo quello che scrive nel frammento successivo: «Rivolgere preghiere alle statue degli dèi è come cercare di discutere con le case invece che con gli abitanti di esse, se, per purificarsi dei peccati commessi sacrificano animali nei templi, essi si purificano del sangue versato macchiandosi di altro sangue, come se, sporchi di fango, volessero lavarsi ancora col fango». Anche Erodoto allude alla non esistenza degli dèi e ironizza sul commercio religioso che viene svolto presso i Santuari di tutti i paesi che visita, nell’Ellade, in Egitto, in Mesopotamia, nella Magna Grecia.

      Eraclito contesta l’idea che il mondo, l’Universo, sia animato da una divina armonia e che questa armonia si diffonda nella vita delle persone. Leggiamo quello che scrive nei due frammenti successivi, collegati insieme: «Il più bello dei mondi è un mucchio di rifiuti gettati giù dal caso. La vita è una bambina che gioca e sposta a caso i pezzi sulla scacchiera». Anche Erodoto allude spesso al fatto che la creazione si caratterizza per un certo disordine, piuttosto che per l’armonia: la Natura si presenta come la sede di fenomeni meravigliosi perché contemporaneamente sono, quasi sempre, anche mostruosi, e così, allude Erodoto, gli avvenimenti umani oscillano sempre tra la benevolenza e l’atrocità.

     L’idea che sembra avvicinare di più il pensiero di Erodoto a quello di Eraclito è il concetto dell’incessante fluire e trasformarsi delle cose. Abbiamo detto che la realtà, secondo Eraclito, è un continuo divenire, e anche per Erodoto (e tanti esempi abbiamo già incontrato leggendo il testo de Le Storie) non esiste oggetto, animato o inanimato, che non subisca continuamente delle modifiche.  Anche le cose materiali che a prima vista possono sembrare immobili, a una più attenta analisi mostrano delle alterazioni: i grandi templi, scrive Erodoto, sono sempre in restauro, e anche gli scogli e le montagne si corrodono, così come un albero cresce e un corpo invecchia. A questo proposito bisogna leggere il frammento più famoso di Eraclito: «Panta rei, tutto scorre. Non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume».

      Un altro concetto che avvicina Erodoto a Eraclito è l’idea del mondo come terreno di scontro. Sappiamo che l’intuizione più originale di Eraclito sta nell’aver descritto il mondo come un immenso campo di battaglia dove si affrontano forze più o meno equivalenti (c’è già qualcosa di darwiniano in questa idea). Lo scontro non rappresenta l’eccezione ma è la norma di vita: la lotta s’identifica con la vita stessa e gli esseri umani devono accettarla come una forma di giustizia naturale.  «La più bella delle trame viene formata dagli opposti, e tutte le cose sorgono secondo contesa» «La guerra [pólemos] è il padre di tutte le cose»: questi due frammenti li abbiamo già citati. Dobbiamo sottolineare che in greco il sostantivo pólemos è maschile e quindi la guerra è un padre e questa logica lessicale di genere è più appropriata visto che la guerra è un fenomeno maschilista.

     Eraclito si scaglia contro l’opera di Omero definendola immorale perché in un verso dell’Iliade si legge: «Che possa morire la Discordia tra gli uomini e gli dèi». Che cosa sarebbe il mondo, si chiede Eraclito, se non ci fosse lo scontro, pólemos? Sarebbe un orrendo e solitario luogo di morte. Leggiamo il frammento successivo: «Non è forse la malattia che rende buona la salute? Non è forse la fame che gratifica la sazietà e non è forse il travaglio che rende così dolce il riposo? ».

     E adesso leggiamo il frammento che viene dopo il quale viene riconosciuto come uno dei frammenti più significativi di Eraclito ma anche come uno dei più difficili da capire: «Davvero dell’arco (bios) il nome è vita (bios) e l’opera è morte davvero». Qui è necessaria una riflessione filologica, sul significato delle parole: in greco la parola arco e la parola vita corrispondono entrambe al termine bios e la coincidenza non è casuale, perché l’arco (bios), quando è teso, nonostante  la sua apparente staticità, simboleggia la vita (bios), cioè la contesa tra il legno che s’inarca e la corda che lo sottende, mentre invece la funzione a cui l’arco è destinato genera la morte. Per Eraclito nel Cosmo non c’è armonia ma c’è conflitto (questa idea ricorda anche il pensiero di Zaratustra), tuttavia secondo Eraclito il conflitto cosmico, apparentemente così caotico, rivela una razionalità: e noi sappiamo che questa idea (il Cosmo va letto, va osservato, va interpretato razionalmente) è condivisa da Erodoto il quale, per definire questo concetto, utilizza la stessa parola che usa Eraclito: il Logos.

     Nella Storia della cultura Erodoto contribuisce a dare significati a questo termine che si presta alle più varie interpretazioni nella Storia del Pensiero Umano. Nel testo de Le Storie, Erodoto utilizza anche il termine Logos con il significato di Linguaggio e abbiamo già riflettuto, qualche settimana fa, su questo aspetto del pensiero di Erodoto. Come lo ha codificato Eraclito, il termine Logos ha assunto diversi significati: la Verità, la Ragione, la Realtà, la Divinità, il Verbo (la Parola) e questo termine ci ricorda il testo del prologo del Vangelo secondo Giovanni che probabilmente è stato scritto a Efeso tra il I e il II secolo.

     Leggendo I Frammenti di Eraclito si può pensare che il profeta di Efeso concepisca il Logos come una Legge naturale (qui si potrebbe fare un riferimento al concetto del Tao nel pensiero cinese) che regola la lotta fra gli elementi, senza però attribuire alla parola alcun significato metafisico. Siccome si ritiene che Erodoto abbia letto e abbia studiato il poema di Eraclito Sulla natura, noi capiamo su quale base lo scrittore de Le Storie abbia maturato l’idea – che spesso esprime – del Logos come legge che regola la natura. Più tardi saranno gli Stoici (ma lo studieremo a suo tempo) che daranno al pensiero di Eraclito una coloritura religiosa, e il Logos comincerà a rappresentare la volontà del Creatore e, questo concetto poi diventa patrimonio del Cristianesimo.

     Abbiamo cercato e trovato molte affinità tra il pensiero di Erodoto e quello di Eraclito: Se c’è una differenza tra Eraclito ed Erodoto va ravvisata nell’uso del linguaggio. Che cosa significa? Eraclito vorrebbe che gli scrittori si esprimessero secondo lo stile oracolare, alla maniera della sapienza poetica orfica: l’oracolo non dice, non tace ma accenna soltanto, allude. Nella Scuola di Eraclito, Erodoto ha imparato la lezione sull’uso dello stile allusivo e (come abbiamo studiato) utilizza questo stile per esprimersi. Però, Eraclito di Efeso, a proposito del linguaggio, predica bene ma razzola male quando scrive (sarà anche difficile capire il senso di quello che dice) ma di accenni e di allusioni, nella sua scrittura, non ne esiste neppure l’ombra. Altro che accenni e allusioni: Eraclito (lo abbiamo constatato nei frammenti che abbiamo letto) usa un linguaggio metaforico (a volte da interpretare) ma diretto, esplicito, senza mezzi termini, senza peli sulla lingua. Eraclito, con le sue parole, colpisce senza remore e senza nessun preambolo personaggi e istituzioni, a viso aperto.

     Dobbiamo dire che per sua fortuna ha fatto le sue affermazioni a Efeso dove i cittadini (soprattutto i potenti affaristi) se ne fanno un baffo delle “sparate” di questo vecchio arteriosclerotico che vaga per i monti, vivendo come le bestie.  Se le cose che ha detto le avesse predicate ad Atene, dove la blasfemìa era considerata un reato molto grave (c’era una legge molto severa che la colpiva), un processo per empietà non gliel’avrebbe tolto nessuno. Una sessantina d’anni più tardi ad Atene, un certo Socrate sarà condannato a bere la cicuta per aver detto molto meno, e trent’anni prima di Socrate un certo Anassagora rischierà grosso (lo incontreremo a Pasqua).

     Sarà questo il motivo per cui Erodoto, ne Le Storie, non cita mai Eraclito sebbene potrebbe raccontare molte cose di lui? Erodoto probabilmente, come in altri casi, non vuole esporsi (è prudente) e vuole avere buoni rapporti con Atene dove ha molti amici, anche potenti. Qui si vede la differenza: Eraclito di Efeso è un imprudente ribelle, Erodoto, che appartiene alla generazione successiva, usa la cautela e sta bene attento a ciò che dice e a ciò che scrive.

     Il personaggio di Eraclito, che vaga per i monti a ridosso della polis di Efeso, ci ricorda – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – la figura di un contemporaneo “passeggiatore solitario”. Il passeggiatore solitario è il titolo di un libretto, da poco pubblicato in Italia, scritto nel 1998 dal professor W.G. Sebald (1944-2001), tedesco di nascita, insigne germanista trasferitosi a Londra nel 1970, insegnante di Letteratura tedesca all’Università di Norwich. Il libretto intitolato Il passeggiatore solitario ha un sottotitolo: In ricordo di Robert Walser. Il professor Sebald vuole ribadire, con questo testo, l’importanza di Robert Walser nella Storia della Letteratura. E chi è Robert Walser? Robert Walser è uno scrittore che occupa, nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano, un posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil, a Canetti, a Benjamin. Ma, non solo: Franz Kafka, Robert Musil, Elias Canetti, Walter Benjamin considerano Robert Walser il loro autore preferito, e allora perché questo scrittore risulta essere ancora oggi un illustre sconosciuto? È dovere della Scuola, è compito di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura indirizzare le studentesse e gli studenti – ora che di Robert Walser se ne comincia a parlare – sul sentiero della ricerca.

     Robert Walser è uno scrittore svizzero di lingua tedesca, nato nel 1878 a Berna: qui frequenta un istituto commerciale e, dopo aver ottenuto il diploma, lavora come commesso in diversi negozi. Dal 1905 al 1913 vive a Berlino col fratello Karl che fa il pittore ed entra in contatto con i vivaci ambienti letterari della città e comincia a scrivere: la scrittura è un’attività che a lui riesce con grande facilità. Robert Walser scrive, in breve tempo, tre romanzi I fratelli Tanner (1906), L’assistente (1907), Jakob von Gunten (1908): di questi testi, recentemente (dagli anni ’70) pubblicati in Italia, si consiglia la lettura. Nel 1913 Robert Walser torna in Svizzera e si stabilisce nello Seeland, la regione dei laghi, e scrive molte prose brevi: sono racconti lirici, sono frammenti di grande finezza stilistica, raccolti in vari volumi. Il più significativo di questi volumi è intitolato La passeggiata (1919). Dopo l’ultima raccolta, intitolata La rosa (1925), nel gennaio del 1929 Robert Walser viene ricoverato, a causa di un evidente stato di depressione, nella clinica Waldau di Berna e, quattro anni dopo, viene trasferito a Herisau nella regione alpina dell’Appensell in una casa di cura per malattie mentali e lì resterà per il resto della vita. Robert Walser muore il giorno di Natale del 1956 durante una solitaria passeggiata sul sentiero che conduce verso il massiccio del Rosemberg.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quanti di noi erano già nati nell’anno 1956?… (Così tanti!…) Avete dei ricordi del giorno di Natale di quell’anno o è chiedere troppo alla memoria che archivia nell’oblio le situazioni che non hanno nulla di particolare e di eccezionale?…

Forse possiamo provare a ricostruire qualche frammento di ricordo oppure a fare delle supposizioni in modo da scrivere quattro righe in proposito…

     In modo anonimo, Robert Walser muore il giorno di Natale del 1956 durante una solitaria passeggiata invernale: è stato un grande camminatore Robert Walser.

     E, a questo punto, si capiscono due cose. La prima cosa riguarda il senso del titolo, Il passeggiatore solitario, del libretto scritto dal professor Sebald in ricordo di Robert Walser. La seconda cosa che si capisce riguarda una commemorazione: il giorno di Natale del 2006 (il Natale scorso, una giornata di cui, a differenza di cinquant’anni prima, tutti abbiamo un vivo ricordo e quindi una giornata su cui potremmo scrivere, senza difficoltà, una pagina di diario, di modo che se, tra cinquant’anni un insegnante pedante ci chiede di raccontare il Natale del 2006 credendo di metterci in imbarazzo, noi lo freghiamo) è stato il cinquantesimo anniversario della morte di Robert Walser. E in Europa c’è stata anche qualche semplice ma significata celebrazione.

     Nel primo pomeriggio del giorno di Natale del 1956 due ragazzi di una fattoria che si trova sull’itinerario che conduce verso il massiccio del Rosemberg, usciti a fare due passi dopo l’abbondante pranzo natalizio, scorgono nella neve una macchia scura che sembra un mucchio di stracci: è il corpo di un uomo anziano con sul volto (così hanno raccontato quei due ragazzi) un’espressione tranquilla, quasi sorridente come se la morte lo avesse appena sfiorato e lo avesse convinto, con dolcezza, a seguirla. Dopo che le autorità sono state avvertite e hanno fatto le loro indagini, si viene a sapere che il corpo senza vita di quest’uomo anziano (ha 78 anni) è quello di un degente della casa di cura per malattie mentali di Herisau, a qualche chilometro da lì, che, dal mattino, è uscito per camminare come fa, da anni, tutti i giorni.

     Ma perché Robert Walser è stato in manicomio tutti questi anni? Era pazzo Robert Walser? Robert Walser non era un pazzo, non era un folle: sua madre aveva avuto dei gravi problemi psichici e lui, da bambino, era rimasto molto turbato da questo fatto e aveva interiorizzato la malattia della madre temendo che lo stesso destino potesse capitare anche a lui. Robert Walser era fortemente angosciato ed era convinto che le cose più affidabili nella vita fossero la modestia, l’umiltà e l’ubbidienza e quindi aveva scelto di vivere in una struttura sanitaria dove poteva essere nessuno, dove poteva sentirsi uno zero ed essere dimenticato. La scomparsa di Robert Walser non fa notizia: se ne accorge solo il suo unico amico, l’unica persona che si occupi di lui, Carl Seelig. Carl Seelig è il critico letterario che ha seguito la pubblicazione delle opere di Walser, è l’unica persona con cui lo scrittore riesce a comunicare e con cui è diventato amico: anche perché, soprattutto, è da più di vent’anni il suo puntuale compagno di escursioni fuori dalla casa di cura. Il giorno di Natale del 1956 Carl Seelig era a celebrare la festività con la sua famiglia e Robert Walser era uscito (come faceva tutti i giorni) a camminare da solo.

     Robert Walser e Carl Seelig sono stati due instancabili camminatori: Robert Walser faceva anche 80 chilometri in dieci ore e si spostava regolarmente a piedi. Di queste camminate Carl Seelig, per fortuna, ha tenuto un diario che ora è stato pubblicato con il titolo di Passeggiate con Robert Walser. Questo diario minuzioso scritto da Carl Seelig è diventato un vero e proprio romanzo con belle pagine descrittive, ricche di paesaggi alpini e con molti spunti poetici legati ad acquazzoni improvvisi, crostate di formaggio, lunghe discussioni su temi esistenziali, altrettanto lunghi silenzi meditativi. Camminando tutte le domeniche, con passo svelto per ore, i due compagni di escursione si sentono soddisfatti di mettere in comune la fatica (il collante più forte per tenere unita un’amicizia) ed è in questi momenti che Robert Walser cessa di essere schivo e chiuso in se stesso e si lascia sfuggire intime confessioni, opinioni su tutto: la guerra, la natura, il suo passato, gli autori prediletti e quelli detestati; poi, camminando, riesce a raccontare gustosi episodi della sua vita nella clinica (dà una mano in cucina a pulire la verdura, a selezionare gli scarti) e inoltre, sempre camminando, riflette principalmente su due temi, la vecchiaia e la gentilezza, che gli stanno particolarmente a cuore. Carl Seelig, al ritorno, annota tutto sul suo diario per il gusto di rievocare quei momenti faticosi ma ricchi di una piacevolezza unica.

     Robert Walser insegna a Carl Seelig che bisogna scrivere senza alcuna finalità pratica come se la scrittura fosse una realtà festiva, un momento di vacanza, la domenica della vita. Robert Walser, infatti, ha sempre scritto per nessuno, con la certezza di non dover dire niente, né di conturbante, né di misterioso. Oggi i romanzi, che per raccontare una storia si devono appoggiare ai falsi misteri o agli inquietanti turbamenti o agli enigmi inventati, creano una specie di epidemia che contribuisce al progressivo deterioramento dell’intelligenza: la scrittura di Robert Walser è alternativa a tutto ciò, è uno spazio di luce, un’energia che resta fuori dal sistema mediatico. Robert Walser non è matto: è un poeta e non sa dove andare, scrive e cammina per il gusto di scrivere e di camminare. Robert Walser è angosciato ma scrivendo sembra scacciare l’angoscia fuori dal suo animo per far entrare qualche cosa che assomiglia all’allegria.

     Se Robert Walser non appartiene oggi al novero degli scrittori scomparsi nel nulla lo dobbiamo in primo luogo alla dedizione di Carl Seelig: senza la sua cronaca delle passeggiate fatte in compagnia di Walser, senza la ristampa dei suoi romanzi e le antologie da lui curate, la riabilitazione di Walser non avrebbe avuto luogo e probabilmente il suo ricordo si sarebbe disperso. Soprattutto Carl Seelig si è impegnato nella salvaguardia del cosiddetto Paese del Lapis. Con questo titolo sono stati raccolti, dopo un lungo lavoro di decifrazione e di trascrizione, i “microgrammi” (come li chiamava lui) scritti da Walser: sono pagine e pagine di poesie, prose, testi teatrali, scritte a matita, su fogli volanti, su carta di recupero, con una grafia piccolissima che, con il passar del tempo, è diventata sempre più piccola, tanto che negli ultimi fogli i caratteri rasentano il limite della visibilità.

     Le tracce che Robert Walser ha lasciato sul suo cammino sono così lievi che hanno rischiato di disperdersi. Il legame di questa persona con il mondo è stato dei più labili; e qui ci viene in mente Eraclito in esilio volontario in patria: anche il manicomio è una forma di esilio volontario. Robert Walser non è mai giunto a stabilirsi da nessuna parte, mai ha potuto disporre di qualcosa di suo, fosse pure l’oggetto più insignificante. Non ha mai avuto una casa, né mai ha abitato – a parte la casa di cura – a lungo nello stesso posto. Non ha mai posseduto un arredo suo e, quanto al guardaroba, è fornito di un abito buono e di quello per tutti i giorni. Perfino di ciò che occorre a uno scrittore nell’esercizio del proprio mestiere, non c’è praticamente nulla che egli possa dire suo. In fatto di libri non possiede nemmeno quelli scritti da lui. Ciò che legge, di solito lo prende in prestito. Anche la carta su cui scrive è di seconda mano, quella della cucina della casa di cura. Così sprovvisto come è stato in vita sua di ogni bene materiale, altrettanto distaccato si è mantenuto dai suoi simili.

     Mettetevi – con discrezione ma con determinazione – sulle tracce di Robert Walser: avete qualche riferimento che vi può essere utile. Uno dei testi ritenuti più significativi di Robert Walser è il racconto La passeggiata (1919). Questo racconto rappresenta la metafora, l’allegoria della sua scrittura nomade, continuamente dissociata dalla realtà. Walser, camminando durante la sua passeggiata, osserva le persone (professori, librai, funzionari di banca, cantanti, attrici, signore intellettuali, sarti) e analizza l’ambiente (il centro della città, la campagna, i boschi …) come se guardasse gli esseri umani e le cose da una distanza invalicabile. Walser vede tutto, nota tutto, è sommerso da un turbine di pensieri e di riflessioni sugli stessi pensieri che gli vengono in mente, ma è assolutamente estraneo a ogni rapporto funzionale con il mondo.

     Come è possibile vivere la vita – si domanda Walser – pensando solo agli interessi materiali e alle ambizioni? Vive sereno chi non si lascia coinvolgere nel vortice degli affari. La passeggiata di Walser è soprattutto un itinerario nel labirinto della mente quando i pensieri (e capita a tutti) si accavallano inesorabilmente in modo fantastico creando una situazione fatta di ironia e di allegria. Robert Walser è un poeta orfico: non sa dove andare ma è felice quando va. E quando va, quando riesce a dare libero sfogo al vagabondaggio dell’anima, diventa allegro e questa allegria (questa leggerezza intellettuale) fa sollevare i pensieri negli strati più alti dell’intelletto. Robert Walser, per mezzo di questa allegra leggerezza, riesce a intuire il momento in cui sta assaporando il paradosso della libertà, cioè la libertà di essere legato alla Terra, di essere vincolato alla Natura: in questa intuizione la vita trova un senso, che cosa significa? Non si è liberi quando si fa ciò che si vuole, spesso a scapito degli altri, ma quando si intuisce di far parte integrante della natura: questa intuizione (non facile da cogliere) ci svincola dal mondo e ci lega alla Terra, e allora anche la morte non fa più paura. Questo tipo di libertà (paradossalmente vincolata), la natura, la riserva soprattutto agli animali: quando gli animali, pensa Walser, risalgono al trotto un bosco senza meta e senza consapevolezza, sono estranei a ogni rapporto funzionale con mondo; loro, gli animali, non lo sanno, non lo sentono, ma a noi l’intelligenza – quando è sgombra, quando è estranea, quando non è asservita agli interessi materiali – riserva questa fortuna: di sentirci libere, di sentirci liberi da ogni rapporto funzionale con il mondo, allora nasce l’allegria, la leggerezza, la capacità di dare.

     Leggiamo la straordinaria apologia che Robert Walser fa dell’esercizio – conoscitivo, gratuito e benefico – del passeggiare quando non sono solo le gambe a muoversi ma soprattutto la mente.

LEGERE MULTUM….

Robert Walser, La passeggiata (1919)

Senza guardarmi attorno in cerca d’altro, mi affrettai verso la cassa comunale per la faccenda delle tasse. A questo punto è necessario rettificare un errore grossolano.

Infatti, come ora mi sovviene in ritardo, non si trattava di pagamento, bensì, momentaneamente, di un semplice colloquio col signor presidente della spettabile commissione delle imposte, nonché della presentazione o rilascio di una formale dichiarazione. Nessuno vorrà, spero, aversene a male per questo equivoco, ma si preferirà anzi ascoltare con cortesia quanto avrò da dire in proposito.

Non diversamente dall’energico signor sarto Dünn, che mi aveva garantito l’irreprensibilità del suo prodotto, io qui prometto e garantisco, per quanto concerne la richiestami dichiarazione fiscale, esattezza e completezza di notizie, insieme a concisione e brevità.

... continua la lettura ...

     La passeggiata è anche la metafora del continuo divenire di persone e cose, e con questo pensiero ci congediamo da Eraclito che dopo aver perso atto dell’esistenza di un tipo come Robert Walser si sente persino più rinfrancato e, salutandoci, riprende la via dei monti. Noi invece riprendiamo la via del mare con la nave Sidonia: partiamo da Efeso per fare di nuovo rotta verso ovest, verso le coste della Magna Grecia. Però questa volta andremo più a nord della Sicilia, più a nord della Calabria, raggiungeremo la Campania, le coste del Cilento finché, tra Punta Licosa e Capo Palinuro, incontreremo la foce del fiume Alento: lì ci appariranno le solide mura di una città che si chiama Elea. Ma anche la storia di Elea comincia nella Ionia: non ci sarebbe Elea se non ci fosse stata una città della Ionia di nome Focea che si trova a nord di Efeso. Ebbene, un brutto giorno dell’anno 545 a.C. (anno più anno meno), i Focesi vengono a trovarsi in una situazione molto imbarazzante: il fatto è che, da questa situazione imbarazzante, dipende anche l’esistenza di Elea con tutto ciò che ne consegue per la Storia del Pensiero Umano.

     Per raccontare questa situazione non basta una battuta: è necessario l’intervento di Erodoto. E quindi è proprio Erodoto (che ci tiene ad essere protagonista) – mentre il capitano Agenore di Tiro c’invita all’imbarco – a dire: correte, la prossima settimana perché come canta l’orfica prosopopea: «Non c’è Elea senza Focea» …

      La Scuola c’è … è qui …

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 2, 2007