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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLE BIOGRAFIE DEL PITAGORA MITICO…

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi         Lo sguardo di Erodoto 2007       7-8-9  febbraio 2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLE BIOGRAFIE DEL PITAGORA MITICO…

     Siamo partiti dalla polis Mileto e, questa sera, siamo in vista di Crotone. Siamo tornati sulle coste della Calabria ionica, un centinaio di chilometri più a sud dell’antica Sibari e di Turi da dove siamo partiti nell’ottobre dello scorso anno. Se entrassimo oggi nel porto Nuovo di Crotone potremmo osservare dal ponte della nave Sidonia (a bordo della quale, al comando del capitano Agenore di Tiro, stiamo compiendo i nostri spostamenti nel mar Mediterraneo) la grande e poderosa struttura del Castello, a pianta poligonale con torrioni cilindrici angolari, fatto costruire nel 1541 da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, per difendere questo tratto di costa dalle incursioni saracene (ma anche dalle incursioni di altre potenze europee). Ma noi, questa sera (avvalendoci del potere diacronico che ha un Percorso di studio), stiamo entrando nell’Antico porto di Crotone: quello che serviva la polis di Kròton 2500 anni fa. E 2500 anni fa sul promontorio dove oggi troneggia l’attuale Castello, c’era l’Acropoli che si trovava al centro di una grande città fondata (più di un secolo prima) dai coloni achei.

     Erodoto, nel testo de Le Storie, cita una decina di volte la polis di Crotone e contribuisce ad informare le lettrici e i lettori sull’importanza di questa città: si capisce anche, dal modo in cui ne parla, che Erodoto, mentre sta scrivendo il testo de Le Storie, abita da queste parti. La polis di Crotone, secondo le notizie che possediamo, è celebre per la sua ricchezza, per le donne bellissime, per la potenza militare, per la vittoria su Sibari, per essere la città natale di Milone, il più grande atleta dell’antichità, acclamato ad Olimpia. La polis di Crotone, e ne rimane traccia, ha intorno un circuito di mura poderose lungo ben 12 miglia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La città di Crotone, che è capoluogo di provincia (ha una targa automobilistica che ricorda l’antica polis di Kròton), merita una visita: se utilizzi la guida della Calabria puoi trovare molte altre notizie …

Nei locali del Castello, fatto costruire nel 1541 da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, e che sorge in posizione panoramica sul sito dell’antica Acropoli, che cosa puoi trovare oggi? 

Fai una piccola ricerca in proposito…

     Dal testo de Le Storie di Erodoto emerge anche il fatto che nell’antichità a Crotone deve essersi sviluppata un’importante Scuola di medicina di cui, nel tempo, si sono perse le tracce. Su quale base facciamo questa affermazione? Sulla base che ci fornisce uno dei racconti allegorici, di stile romanzesco, imbastiti da Erodoto nel III libro de Le Storie in cui uno dei protagonisti è un medico di Crotone che si chiama Democede e che risulta essere molto qualificato nella sua professione. Erodoto nel III libro de Le Storie fa entrare in scena il medico Democede di Crotone insieme ad altri personaggi in un contesto che necessita di essere chiarito. Uno di questi personaggi è Policrate, il tiranno di Samo, che noi conosciamo bene. L’incontro con Policrate è avvenuto qualche settimana fa (nella seconda metà di novembre) con la mediazione del testo dell’opera di Erodoto. Il personaggio di Policrate, ne Le Storie, viene citato nel II e nel III libro per ben 24 volte. Il nome di Policrate è conosciuto soprattutto per il famoso racconto de L’anello di Policrate, nel libro III 39-46, uno dei brani più studiati del testo de Le Storie. Erodoto con il racconto de L’anello di Policrate invita lettrici e lettori a riflettere sul tema del Destino, o meglio, sulla questione del Destino in rapporto alla Fortuna.

     Policrate (ce l’ha scritto nel nome che significa: molto fortunato) è baciato dalla Fortuna: le cose, gli affari, le azioni che intraprende gli vanno tutte bene, fila sempre tutto secondo il suo volere, ma questo, spiega Erodoto in molti capitoli de Le Storie, è un fatto negativo perché chi è troppo fortunato attira su di sé l’invidia degli dèi e la punizione del Destino prima o poi si abbatte su di lui.  «Chi è troppo fortunato fa una brutta fine» così scrive a Policrate il faraone Amasi, il re dell’Egitto. Il faraone Amasi è un gran mattacchione (da come lo descrive Erodoto) ma è anche saggio e la sa lunga sul tema del Destino e quindi consiglia al suo amico e alleato Policrate (c’è un patto di non-belligeranza tra l’Egitto e Samo) di procurarsi volontariamente, ogni tanto, un contrattempo, un inconveniente, un piccolo danno, uno svantaggio, un dispiacere: «Fa in modo – consiglia Amasi a Policrate – che, ogni tanto, ti capiti qualcosa in modo da evitare l’invidia degli dèi e la punizione del Destino». Ma Policrate è troppo fortunato ed è galvanizzato soprattutto dopo l’episodio dell’anello e quindi vuole lanciarsi alla conquista del mondo. Policrate, ci racconta Erodoto, non vuole dare retta ai consigli di Amasi ma neppure ai consigli degli amici e degli indovini che lo sconsigliano dall’intraprendere azioni militari e, scrive Erodoto, non dà retta neppure alla figlia che in sogno ha avuto questa visione: «Le pareva che suo padre, sospeso in alto, fosse lavato da Zeus e unto dal sole». Lei considera questa visione di cattivo auspicio ma Policrate invece, che ha in mente «di estendere il suo dominio sulla Ionia e le isole» la interpreta come un segno positivo.

     E così Policrate muove (naviga) da Samo contro Orete: chi è costui? Orete è il satrapo (governatore con pieni poteri) persiano che, nella città di Sardi, governa la Lidia in nome del re di Persia. Orete però, ci racconta Erodoto, approfittando della turbolenza che regna nell’impero persiano (c’è un violento scontro in atto tra Medi e Persiani per assicurarsi la successione) si rende indipendente e nonostante gli avvertimenti del potere centrale (che non ha una stabilità) riesce a mantenere la sua autonomia. Policrate, con la spedizione contro Orete, vorrebbe sostituirsi a lui e poi magari proporsi come ulteriore pretendente alla guida dell’impero persiano. Ma la spedizione di Policrate contro Orete finisce male: Policrate, infine, riceve la punizione che il Destino riserva a chi è troppo fortunato. Policrate, prima di morire, ha il tempo di indirizzare il suo genio vendicatore contro Orete  ed Erodoto, lo sappiamo, sostiene che la vendetta è il principale motore della Storia. Vi ricordo che stiamo raccontando questi fatti, che contengono anche l’epilogo della storia di Policrate. per far entrare in scena il personaggio che c’interessa: il medico Democede di Crotone.      

     E allora leggiamo come Erodoto ci racconta questi avvenimenti:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  125

Policrate (il tiranno di Samo), incurante di ogni consiglio, fece vela alla volta di Orete (il satrapo persiano di Sardi), conducendo con sé, oltre a molti altri compagni. anche Democede di Crotone, figlio di Callifonte, il quale non solo era medico, ma nella sua arte era il più abile di quelli del suo tempo. Giunto che fu in Magnesia, Policrate morì di mala morte, in modo non certo degno di lui e del suo grande animo; poiché, se si eccettuano i tiranni che regnarono a Siracusa, nessuno degli altri tiranni di Grecia merita di essere paragonato a Policrate per la sua magnificenza.

Orete, dopo averlo fatto morire in modo indegno di essere riferito, lo fece affiggere a una croce: quanto agli uomini del seguito, se erano di Samo li lasciò andare, consigliandoli d’essergli grati se potevano godere la libertà; quanti, invece, erano forestieri o già schiavi degli accompagnatori, li trattenne nel numero dei suoi schiavi. Così Policrate, sollevato in alto, rese vera in pieno la visione della figlia: era, infatti, lavato da Zeus, quando pioveva ed era unto dal sole, che dal corpo spremeva stille di umore.

Così miseramente finì la grande felicità di Policrate, proprio come gli aveva predetto Amasi, re d’Egitto…

     In questo capitolo Erodoto narra la tragica fine di Policrate nei confronti del quale esprime un giudizio positivo, forse mosso dalla compassione (di fronte alla morte): Erodoto definisce Policrate come una persona di grande animo e di grande “magnificenza. Sappiamo che Erodoto ha già scritto (e abbiamo letto) che Policrate era un pirata, un taglieggiatore, un voltagabbana, un gozzovigliatore. Ma non è tanto di Policrate che vogliamo parlare: a noi adesso interessa il personaggio che Erodoto presenta all’inizio del brano: il medico Democede di Crotone il quale “nella sua arte era il più abile di quelli del suo tempo”. Erodoto c’informa che Democede di Crotone, in quanto accompagnatore di Policrate e in quanto forestiero e non cittadino di Samo (i cittadini di Samo vengono liberati da Orete), viene trattenuto nel numero degli schiavi del satrapo di Sardi. Nei capitoli successici (126 127 128 del libro III de Le Storie che potete leggere per conto vostro) Erodoto ci racconta che Orete “fu raggiunto dal genio vendicatore di Policrate” e anche lui è destinato a fare una brutta fine. Infatti quando in Persia, dopo la violenta guerra di successione,  prende il potere, Dario decide subito di liquidare Orete che ha commesso molte atrocità e, senza dichiarargli guerra, con una mossa astuta, ci racconta Erodoto, organizzata da un certo Bageo, figlio di Artonte (con uno stratagemma di carattere letterario: andate a leggere il cap. 128 del libro III), lo fa uccidere. Naturalmente i tesori e gli schiavi di Orete vengono confiscati e Dario ne entra in possesso: tra gli schiavi c’è anche il medico di fiducia che aveva accompagnato Policrate a Sardi, ma Dario non lo sa ancora. Dario non sa che poco tempo dopo a Susa, la capitale del suo impero, avrebbe avuto bisogno di un medico.

     Ma diamo la parola (diamo voce) ad Erodoto in modo che possa raccontarci i fatti.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  129

Poco tempo dopo che erano giunti a Susa, dove erano stati trasportati i beni di Orete, volle il caso che Dario, in una partita di caccia alle fiere, balzando da cavallo, si slogasse un piede e certo la slogatura doveva essere abbastanza grave, poiché la caviglia gli era uscita fuori dalle articolazioni.

Il re, che era solito anche prima circondarsi di quegli Egiziani che avevano fama di essere i più valenti nell’arte medica, ricorse alla loro opera. Ma questi, storcendo e forzando il piede, non facevano che peggiorare il male; tanto che per sette giorni e sette notti Dario non poté prendere sonno a causa del dolore che non lo abbandonava un minuto. All’ottavo giorno, mentr’egli si trovava in cattive condizioni, un tale che ancora prima, quand’era a Sardi, aveva per caso udito parlare della abilità di Democede di Crotone, ne fece parola con Dario. Questi diede ordine che fosse condotto a lui il più presto possibile e quando l’ebbero scovato fra gli schiavi di Orete, non so dove confinato e del tutto negletto, lo condussero alla sua presenza, che trascinava i ceppi ed era rivestito di cenci…

     Quando Democede di Crotone viene a trovarsi davanti al re Dario riflette se sia conveniente rivelare la sua identità. Democede di Crotone teme che, dopo aver curato Dario e averlo fatto guarire, il re difficilmente lo farà tornare in Grecia. Ma diamo la parola (diamo voce) ad Erodoto in modo che possa continuare a raccontare:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  130

Quando gli fu ritto davanti, Dario gli chiese se conosceva l’arte medica; ma quello subito non volle ammetterlo, per timore di essere per sempre privato della sua Grecia, se avesse rivelato chi era.

Dario, però, si avvide che egli simulava, pur sapendo di medicina, e diede ordine a quelli che l’avevano condotto di portare lì in mezzo i flagelli e i pungoli. Allora quello si manifestò, dicendo che non aveva in materia cognizioni precise ma, avendo praticato con un medico, aveva dell’arte qualche conoscenza.

Dario gli si affidò ed egli usando dei rimedi greci e applicando cure blande dopo quelle violente, fece sì che il re potesse prendere sonno e in breve tempo gli ridiede la salute, quando ormai non sperava più di potersi reggere sul piede.

In seguito a ciò, Dario gli donò due paia di ceppi d’oro; ma il medico gli domandò se era con intenzione che gli raddoppiava il male, in ricompensa perché l’aveva guarito. Soddisfatto da questa battuta di spirito, Dario lo fece condurre presso le sue donne, e gli eunuchi che l’accompagnarono spiegavano alle donne che era quello che aveva ridato la vita al re. Allora ciascuna di esse, attingendo con una coppa allo scrigno dell’oro, ne faceva dono a Democede con tanta abbondanza, che un servo, che gli veniva dietro e si chiamava Scitone, raccogliendo gli stateri che cadevano dalle coppe ricolme, anche per sé ne pose in serbo una bella quantità…

     Il medico, il quale “nella sua arte era il più abile di quelli del suo tempo”, viene adeguatamente ricompensato per aver ridato la salute al re Dario. A questo punto Erodoto, continuando il suo racconto, coglie l’occasione per comunicare, alle lettrici e ai lettori per quale ragione Democede si sia spostato da Crotone in Grecia: prima sull’isola di Egìna e poi a Samo presso Policrate. Inoltre Erodoto, nel testo del capitolo che stiamo per leggere, tesse l’elogio dei medici di Crotone che “avevano fama di essere i primi per tutta la Grecia”, ed Erodoto sembra alludere al fatto che nell’antichità a Crotone, vi fosse una importante Scuola di medicina: questo fatto è probabile ma gli studiosi non ne hanno mai trovato traccia. (La Scuola di medicina di Crotone è stata assorbita dal Pitagorismo? Che cosa significa?).

     Leggiamo questo capitolo:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  131

Ecco come questo Democede, che veniva da Crotone, era entrato in dimestichezza con Policrate. In Crotone egli viveva con il padre che era di carattere difficile; e poiché non poteva resistere, lasciatelo, s’era recato a Egina.

Stabilitesi in quest’isola, nel primo anno aveva superato gli altri medici, pur non essendo fornito di mezzi e non avendo nessuno degli arnesi che si richiedono per esercitare quell’arte. Nel secondo anno lo prendono a pubbliche spese gli Egineti, dietro compenso d’un talento; il terzo anno, gli Ateniesi per 100 mine; il quarto anno Policrate per due talenti.                                         

Fu così che giunse a Samo e per merito di lui non poco godettero fama i medici di Crotone; poiché tutto ciò avvenne quando i medici di Crotone avevano fama di essere i primi per tutta la Grecia: dopo di loro venivano quelli di Cirene.

     Democede di Crotone, dopo avere risanato Dario, diventa il suo medico personale con tutti i privilegi materiali e morali connessi a questo ruolo importante. A Democede non manca nulla (né la ricchezza, né il rispetto, né la soddisfazione personale), tranne una sola cosa, scrive Erodoto: la possibilità di tornare a Crotone, di tornare nella Magna Grecia in modo da poter ancora usufruire della propria autonomia, della propria indipendenza. A questo punto entra in scena la regina Atossa. Essa è la figlia di Ciro ed è la moglie di Dario: un giorno lei scopre di avere un problema di salute e questo fatto apre a Democede di Crotone una possibile via di fuga. Ma ascoltiamo Erodoto che, con lo stile del romanzo, narra questi avvenimenti:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  132 133 134 135 136 137 138

Allora, dunque, Democede per aver guarito Dario, ebbe in Susa una magnifica casa ed era diventato compagno di mensa del re. Nulla gli mancava, tranne una sola cosa: non poteva tornare in Grecia.

Intanto, quei medici egiziani che prima curavano il re e dovevano essere impalati, perché si erano lasciati superare in abilità da un medico greco, egli con la sua intercessione presso il re riuscì a salvarli. Così pure liberò dalla miseria un indovino di Elea che aveva accompagnato Policrate e se ne stava tra gli schiavi negletto e disprezzato.

Era insomma un potente personaggio questo Democede presso il re.

Poco tempo dopo tali avvenimenti si verificarono questi altri fatti.

Atossa, figlia di Ciro e moglie di Dario, sentì radicarsi un ascesso al seno, che poi, essendosi rotto, si andava diffondendo. Finché fu di modeste proporzioni essa lo teneva nascosto e, per pudore, non ne parlava ad alcuno; ma quando si trovò in stato grave, fece venire Democede e glielo mostrò. Egli, mentre rassicurava che l’avrebbe guarita le fece giurare che, in cambio, gli avrebbe reso il servizio che le chiedeva; naturalmente, non le avrebbe richiesto nulla che potesse portarle vergogna.

Quando, dopo questa promessa, egli con la sua arte l’ebbe guarita, allora Atossa, seguendo i consigli di Democede, in letto con Dario gli tenne questo discorso: «O re, tu, pur avendo in mano così grande potenza, te ne stai ozioso, senza aggiungere all’impero di Persia altri popoli o accrescerne il prestigio. È necessario che un uomo, nel fiore della giovinezza e padrone di mezzi potenti, mostri anche il suo valore con qualche impresa, affinché i Persiani sappiano che sono dominati da un uomo. Per due ragioni ti conviene fare questo: perché i Persiani conoscano che chi detiene il comando è un uomo e perché si logorino con la guerra e non abbiano voglia, vivendo nell’ozio, di congiurare contro di te. Ed è in questo momento che tu potrai compiere qualche grande azione, finché sei nell’età giovanile: poiché col crescere del corpo crescono anche le forze dell’ingegno che, invece, invecchiano, quando il corpo invecchia e diventano inette a ogni impresa».

Questo essa diceva per suggerimento di Democede e il re così rispondeva: «O donna, tu hai detto proprio tutto quello che io ho già in animo di fare; poiché io ho deciso di aggiogare con un ponte questo continente all’altro e di marciare contro gli Sciti.

«In poco tempo questo sarà fatto compiuto».  Replica Atossa: «Ascoltami ora: lascia da parte l’idea di muovere dapprima contro gli Sciti, poiché questi saranno sempre tuoi, quando tu lo voglia.

«Fammi, invece, una spedizione contro la Grecia perché io desidero, per averne sentito parlare, delle ancelle di Laconia, di Argo, dell’Attica e di Corinto.

«Hai con te un uomo che è il più indicato di tutti per informarti su ogni particolare della Grecia e fare da guida: quello che ha guarito il tuo piede».

Dario risponde: «O donna, poiché tu pensi che dobbiamo per prima sfidare la Grecia, a me pare in primo luogo che sia meglio mandare tra i Greci, insieme con l’uomo che tu dici, degli osservatori, i quali, dopo aver notato e osservato ogni cosa, riferiranno a noi; poi, quando avrò tutte le informazioni, muoverò contro di loro».

Così disse, e parlare e agire fu tutt’uno. Infatti, non appena spuntò il giorno, chiamati a sé 15 ragguardevoli Persiani, comandò loro che sotto la guida di Democede percorressero le regioni litoranee della Grecia ponendo cura che Democede non sfuggisse loro, ma glielo riconducessero indietro ad ogni costo.

Impartiti tali ordini a costoro, chiamò per secondo Democede e lo pregò di ritornare da lui dopo aver mostrato la Grecia ai Persiani e aver spiegato ogni cosa: gli concedeva di prendere tutte le sue suppellettili e di portarle in dono a suo padre e ai fratelli, promettendogliene altre in gran numero; inoltre a quei doni promise di aggiungere una nave da carico piena di ogni ben di Dio, che l’avrebbe accompagnato nella navigazione.

Dario, secondo me, gli faceva queste promesse senza alcuna intenzione di ingannarlo; ma Democede, per timore che il re lo volesse mettere alla prova, non fu precipitoso nell’accettare tutto ciò che gli si offriva; dichiarò che le cose sue le avrebbe lasciate lì sul posto, per riaverle ancora al suo ritorno; ma la nave che Dario gli prometteva per portar doni ai fratelli, l’accettava volentieri.

Dopo aver impartito anche a lui i suoi comandi, Dario li lasciò andare verso il mare.

Discesi costoro in Fenicia e precisamente presso la città di Sidone, fecero subito allestire due triremi e, contemporaneamente, un grande vascello pieno di vettovaglie di ogni sorta: quando tutto fu pronto, salparono alla volta della Grecia.

Approdati sul litorale, osservavano ogni cosa e ne prendevano nota finché, dopo aver visitato la maggior parte delle località, e le più rinomate, arrivarono in Italia, a Taranto. Qui il re della città, Aristofilide, per simpatia verso Democede, non solo fece togliere i timoni alle navi persiane, ma cacciò in prigione i Persiani stessi come se fossero senz’altro delle spie.

E mentre essi subivano questo trattamento, Democede se ne andò a Crotone: solo quando egli fu arrivato alla sua città, Aristofilide lasciò liberi i Persiani e restituì ciò che aveva tolto alle loro navi.

Di là, messisi in mare, i Persiani, che s’erano dati a inseguire Democede, giunsero a Crotone e, trovatolo nella piazza del mercato, misero le mani su di lui. Quelli di Crotone, in parte, per timore della potenza persiana, erano pronti a lasciarlo andare, altri, invece, si opponevano e picchiavano con bastoni i Persiani, che s’affannavano a dir loro: «Uomini di Crotone, badate bene a quello che fate: voi cercate di liberare uno schiavo che è fuggito via dal re. Come sopporterà il re così grave oltraggio? Come ciò che fate andrà a finir bene, se ci strapperete dalle mani costui? Quale città attaccheremo con le armi, prima di questa? Quale, prima di questa, cercheremo di ridurre in schiavitù?».

Pur con queste minacce, non riuscirono a convincere i Crotoniati; sicché, privati di Democede e spogliati del vascello che li scortava, fecero di nuovo vela verso l’Asia e non cercarono di visitare la Grecia e di proseguirvi più oltre i loro studi, essendo rimasti senza guida.

Però, al momento in cui prendevano il mare, Democede aveva fatto loro una raccomandazione, incaricandoli di dire a Dario che Democede aveva preso in moglie la figlia di Milone; poiché il nome del lottatore Milone (il più grande atleta dell’antichità) godeva grande prestigio presso il re.

Secondo me, la ragione per cui Democede affrettò tali nozze, spendendo grandi somme, era di far vedere a Dario che anche nella sua patria egli era tenuto in gran conto.

Salpati da Crotone, i Persiani andarono a sbattere con le navi presso il territorio Iapigio (sulle coste della Puglia, nella terra d’Otranto), e ivi, ridotti in schiavitù, furono liberati da Gillo, esule di Taranto, il quale li ricondusse al re Dario.

     E così Democede riesce a tornare a Crotone ed Erodoto, come di solito fa, tronca di netto questa narrazione (trova un altro aggancio, anche perché probabilmente non sa altro di Democede) e comincia a raccontare un’altra storia con altri personaggi…

     Anche noi lasciamo Democede (felice di essere tornato nella sua città natale, sposo novello della figlia di Milone) e lo sostituiamo con un altro personaggio, ben più conosciuto di lui, vissuto a Crotone: questo personaggio si chiama Pitagora di Samo. Chi è costui? Non è facile rispondere a questa domanda perché ci troviamo di fronte ad un personaggio, come molti di quelli che abbiamo incontrato e che incontreremo, la cui storia si confonde con il mito. Di Pitagora sappiamo con sicurezza che è nato, attorno al 570 a.C., nell’isola di Samo. Pitagora è figlio del gioielliere Mnesarco: sappiamo che a Samo c’è una famosa Scuola di cesellatura e di fusione dei metalli. Pitagora, per dissidi col tiranno Policrate, ha lasciato il suo luogo d’origine nel 530 a.C., per stabilirsi a Crotone, nella Magna Grecia, dove ha fondato la sua Scuola che ha le caratteristiche di una comunità filosofico-religiosa di stampo orfico (noi abbiamo studiato i caratteri principali della dottrina orfica e sappiamo che si presenta come un movimento riformatore in senso morale). Per un certo periodo di tempo la polis di Crotone è stata governata da Pitagora e dai pitagorici i quali hanno cercato d’imporre, in una città dove il tasso di corruzione era molto alto, una rigida riforma dei costumi (l’Orfismo è una dottrina che tende a regolamentare in senso etico i rapporti nella società) ma intorno al 500 a.C., il governo dei pitagorici viene rovesciato con una sommossa popolare ispirata (istigata) dal partito degli affari. I locali della Scuola di Pitagora vengono incendiati e i membri della comunità devono fuggire e devono allontanarsi dalla città. Pitagora si sarebbe ritirato a Metaponto, dove avrebbe cominciato lo sciopero della fame e sarebbe morto dopo quaranta giorni di digiuno. I seguaci di Pitagora si sono dispersi ma non si sono estinti, anzi si sono moltiplicati e hanno fondato molte Scuole attive nel bacino del Mediterraneo.

     Di Pitagora non possediamo nessuno scritto ma su di lui è fiorita una vera e propria (copiosissima) letteratura leggendaria che lo ha reso un personaggio mitico ma che riporta anche le parole-chiave e le idee cardine del suo pensiero. E anche noi (che non ci possiamo fermare a Crotone più di tanto) dobbiamo, per motivi di studio, regolamentare la materia.

     L’incontro con il mito,  occupandoci della vita di Pitagora, ha inizio con la sua nascita. Nello scorso itinerario abbiamo incontrato Ecateo di Mileto il quale, come ben sappiamo, ha sempre sostenuto (Erodoto su questo fatto riflette e dubita, Plutarco di Cheronea su questo fatto riflette e annuisce) che tra i suoi antenati ci fosse un dio: ebbene, anche la nascita di Pitagora prevede la mitica presenza di un dio. La tradizione mitica racconta che Pitagora è figlio del dio Ermes, ma non direttamente, non in modo carnale (il padre carnale risulta essere il gioielliere Mnesarco), ma in termini spirituali. Che cosa significa? Intanto per prima cosa facciamo appello alle parole-chiave e alle idee-cardine che abbiamo conosciuto e capito e su cui ci siamo applicate/applicati in questo Percorso spesso attraverso macchinose riflessioni e complessi riferimenti. Nonostante la difficoltà, la macchinosità e la complessità (che ci hanno accompagnato in questo Percorso) adesso ci siamo fatti un’idea di che cosa sia il movimento della sapienza poetica orfica, il primo importante movimento intellettuale della nostra cultura. Ebbene dobbiamo dire che Pitagora di Samo è uno dei personaggi più emblematici e rappresentativi del movimento della sapienza poetica orfica, ma non solo, perché la figura di Pitagora raccoglie in sé anche elementi della sapienza poetica provenienti dai libri dei Veda indiani ed elementi della sapienza poetica prodotti dal pensiero di Zarathustra. La figura di Pitagora quindi s’inserisce nel quadro più generale della sapienza poetica dell’Età assiale della storia, un argomento che conosciamo: un ramo dell’albero genealogico lessicale su cui abbiamo puntato l’attenzione nei primi itinerari del nostro Percorso.

     Pitagora nascendo a Samo, da giovane si è sicuramente formato alla Scuola (che novant’anni dopo ha frequentato anche Erodoto esule da Alicarnasso) di cui conosciamo il Manifesto in cui la parola poesia, poìesis, e la parola téleios, perfezione, compiutezza, iniziaticità, entrano in profonda relazione tra loro. Diogene Laerzio, nella sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi (che puntualmente incontriamo), scrive (barcamenandosi tra la realtà e il mito) che Pitagora, attraverso una raccomandazione avuta dallo zio Zoilo, ha potuto frequentare la Scuola dell’obbligo nella classe del famoso maestro Ferecide di Siro (un  celebre logografo, uno dei Sette Sapienti) che come prima cosa: «gli insegnò a fare i miracoli». Diogene Laerzio narra che Ferecide di Siro è stato il primo tra i Greci a scrivere «intorno alla natura e [all’origine] degli dèi» e aggiunge che molte cose meravigliose si narrano di lui. Diogene Laerzio attribuisce a Ferecide di Siro il dono della preveggenza e riporta una serie di esempi: «Ferecide passeggiava una volta lungo il lido di Samo quando vide una nave correre col vento in poppa e predisse che fra non molto sarebbe affondata: affondò dinanzi ai suoi occhi. Attinta l’acqua da un pozzo e bevutala Ferecide predisse che entro tre giorni sarebbe avvenuto un terremoto: così avvenne. A Messene Ferecide consigliò all’ospite Perilao di trasferirsi insieme con i suoi, quello non gli diede retta: Messene fu conquistata e distrutta».

     Erodoto, nel testo de Le Stori, sebbene non sia superstizioso non cita mai Ferecide. Erodoto, ridendo sotto i baffi, allude al fatto che queste situazioni narrate da Diogene Laerzio (il quale sembra divertirsi anche lui a raccontarle, 500 anni dopo Erodoto) non si possono considerare propriamente come fatti miracolosi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ferecide (un personaggio avvolto nel mito) è nato sulla bella isola di Siros, al centro delle Cicladi… Con la guida della Grecia e navigando in rete fai una visita a Siros: sai perché è denominata “l’isola del Papa”?…

Sai da quale divinità greca prende il nome il capoluogo dell’isola e perché?   Buon viaggio e buone ricerche…

     Che cosa s’intende dire con l’espressione: «Ferecide insegnò a Pitagora a fare i miracoli»? Questa affermazione riguarda il campo della guarigione delle malattie? “Malattia” e “miracolo” sono due termini che molto spesso s’incontrano. Ma Ferecide di Siro non risulta essere un guaritore (abbiamo constatato, poco fa, seguendo il testo di Erodoto che all’epoca ci sono i medici bravi come quelli di Crotone). Forse l’espressione «fare i miracoli» riguarda la volontà. Spesso diciamo: «questa persona ha fatto un miracolo» per rimarcare il fatto che è stata compiuta, soprattutto con la volontà, una grande impresa. Probabilmente Pitagora, alla Scuola di Ferecide di Siro (il quale, scrive ancora Diogene Laerzio, «non onorava né l’oro né l’argento»), ha imparato una disciplina di vita basata sul distacco dai beni materiali, sull’attaccamento alla spiritualità e sull’uso della volontà con la quale a volte si fanno grandi cose, si fanno i miracoli. Nella cultura greca ionica la parola miracolo corrisponde al termine tauma-tauma che fa subito pensare alla parola “taumaturgo” che per noi definisce una persona che è in grado di far guarire. Nella cultura greca ionica (quella di 2500 anni fa) la parola taumaturgos non definisce ancora una guaritrice o un guaritore. Il greco ionico, per definire una persona che è in grado di far guarire da una malattia, utilizza il termine iatrόs-iatrós che traduce la parola “medico” (iatría è la “medicina” nel senso di disciplina non di farmaco). La parola taumaturgos (colei o colui che fa i miracoli) definisce piuttosto una persona volitiva, una persona fortemente impegnata nel realizzare gli obiettivi che si è proposta.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In quale occasione – utilizzando la volontà – hai “fatto i miracoli” o li hai visti fare da qualcuno?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Si capisce che l’ambiente di Samo, per uno volenteroso di conoscere come Pitagora, risulta ristretto. Tutti gli antichi biografi sono concordi nel fare del giovane Pitagora un instancabile viaggiatore, assetato di una conoscenza ben più ampia di quella dei pensatori fisici della vicina polis di Mileto di cui siamo stati ospiti nelle scorse settimane. Scrive Diogene Laerzio:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Pitagora di Samo fu un instancabile viaggiatore, andò lontano dalla patria e fu iniziato a tutti i misteri greci e stranieri. Si recò così in Egitto, all’epoca di Policrate, imparò la lingua egiziana, si recò nella Caldea dai Magi. Inoltre visitò a Creta la grotta del monte Ida (dove è nato Zeus) e in Egitto visitò i luoghi sacri e apprese le più segrete dottrine degli dèi

     Abbiamo detto che Pitagora ha avuto molti biografi: sono state scritte centinaia di biografie su di lui. Le due biografie più significative scritte su Pitagora, a detta di tutte le studiose e gli studiosi, sono le opere di due pensatori neoplatonici, Porfirio di Tiro e Giamblico di Calcide, vissuti tra il III e il IV secolo d.C.

     Porfirio di Tiro (232-304) è il più fedele discepolo di Plotino e come il suo maestro è vissuto e ha svolto buona parte della sua attività a Roma. Noi sappiamo già che è stato Porfirio a mettere in ordine le 54 opere di Plotino (redatte tra il 253 e il 269 e mai pubblicate) distribuendole in 6 gruppi di 9 libri ciascuno a cui ha dato il nome di Enneadi (un’enneade è un insieme di nove cose), e le Enneadi di Plotino, ordinate da Porfirio di Tiro, sono una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano. Porfirio è famoso anche per aver scritto l’Isagoge o Introduzione alle categorie di Aristotele, opera che ha avuto uno straordinario successo nelle università europee durante tutto il medioevo dove si è svolto un dibattito serrato sul pensiero di Aristotele (sulla “cristianizzazione” del pensiero di Aristotele). Porfirio ha condotto, da buon neoplatonico e discepolo di Plotino, la polemica contro il Cristianesimo e ha scritto una grande opera (in 15 libri) intitolata (Kata Christianon) Contro i Cristiani (270 circa). Quest’opera è andata perduta, bruciata e distrutta più volte: prima del 325 per volere dell’imperatore Costantino e poi di nuovo (qualcuno la conservava e la riproduceva) per volere dell’imperatore Teodosio II nel 435 e poi (ce n’era ancora qualche copia in giro) sotto l’imperatore Valentiniano nel 448. Di quest’opera di Porfirio per fortuna rimangono molte citazioni (sono frammenti) perché i Padri della Chiesa (ora non possiamo scendere nei particolari perché se no saltiamo in un altro Percorso) in particolare Girolamo e Macario di Magnesia (i quali si lamentano di non poter disporre dell’opera completa) hanno utilizzato i libri dell’opera Contro i Cristiani di Porfirio come stimolo per costruire in modo più valido la dottrina del Cristianesimo.

     La critica dottrinale molto acuta che Porfirio, da neoplatonico (da orfico pitagorico), fa al Cristianesimo è quella tipica: come è possibile proclamare la resurrezione della carne, la santificazione della materia, l’immortalità (per quanto futura) dei corpi se l’elemento vitale (anche per la letteratura ellenistica dei Vangeli) è lo Spirito (Pneuma) di cui è fatta l’anima che risulta essere in alternativa assoluta con il corpo? Solo lo Spirito può avere la possibilità di non degradarsi e di continuare a vivere: è l’anima che dura in eterno e il corpo (la prigione dell’anima) è bene che si disperda (la morte del corpo ha un senso) nella polvere (è un bel dibattito, che continua e non a caso la dottrina del Cristianesimo, sulla scia della critica dottrinale di Porfirio di Tiro, per non cadere in contraddizione, ha recuperato anche l’anima neoplatonica).

     Nell’opera intitolata Contro il Cristianesimo di Porfirio di Tiro, (che ha subìto ingiustamente la persecuzione) l’autore si contraddistingue per la grande erudizione e per l’acume esegetico. Porfirio (quando dimostra che tanto la letteratura dell’Antico Testamento quanto quella dei Vangeli non è storica non è materiale ma è allegorica) è spirituale (la letteratura dei Vangeli non racconta la storia della vita di Gesù ma la storia della predicazione su Gesù), può essere considerato (Girolamo e Macario di Magnesia l’hanno subito intuito) un anticipatore della moderna esegesi biblica: infatti nei verbali dei dibattiti per la preparazione dei Documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, Porfirio di Tiro viene citato molte volte come se fosse un Dottore della Chiesa. Il pensiero ha le ali”, scrive Averroè e quando un’opera contiene “un pensiero intelligente” resiste alla distruzione, non ci sono decreti imperiali che tengano.

     Ma il testo di Porfirio che ora c’interessa, e che ha avuto più successo di pubblico, è La vita di Pitagora, opera di divulgazione in cui l’intellettuale neoplatonico di Tiro si diverte a giocare con il mito. Leggiamo che cosa ci racconta Porfirio quando, dopo la morte del maestro Ferecide di Siro, Pitagora lascia la sua isola e se ne va in Egitto con l’intenzione di studiare le scienze matematiche.

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Porfirio di Tiro, Vita di Pitagora

Pitagora, dopo la morte di Ferecide, volle approfondire lo studio delle scienze matematiche. Per questo motivo decise di rivolgersi ai sacerdoti egizi che erano i più competenti nello studio di queste discipline. Pitagora pensò di farsi scrivere una lettera dal tiranno Policrate per potersi presentare al Faraone Amasi. Poi prese con sé tre preziosi calici d’argento dal laboratorio di suo padre Mnesarco e li custodì nel suo bagaglio, infine s’imbarcò e partì alla volta dell’Egitto.

In Egitto, nonostante la raccomandazione del faraone e i doni preziosi che recava, per Pitagora, le cose non furono facili: i sacerdoti di Eliopoli si dichiararono ipocritamente indegni di un così illustre allievo e lo mandarono dai più anziani e venerabili sacerdoti di Menfi. I sacerdoti di Menfi, a loro volta, con lo stesso pretesto, lo mandarono dai sacerdoti di Tebe, i più severi maestri del mondo, i quali sottoposero Pitagora a prove di eccezionale durezza. Ma Pitagora aveva già acquisito un forte carattere e una grande volontà ed egli superò brillantemente tutte le prove e conquistò l’ammirazione di quegli esigentissimi maestri che lo accolsero come un adepto e lo iniziarono a tutti i misteri.

     Dopo questa esperienza di studio tra i sacerdoti egizi, Pitagora continua la sua formazione viaggiando per il mondo: è allievo dei Caldei con i quali studia l’astronomia, con i Fenici studiando la logistica e la geometria, con i Magi (una delle sei tribù del popolo dei Medi in Asia Minore) studia la magia e si perfeziona nei riti mistici. La tradizione vuole che Pitagora in Persia abbia incontrato Zarathustra. E a questo proposito entra in scena Erodoto il quale nel IV libro de Le Storie racconta che Pitagora ha avuto come schiavo un dio che si chiama Zamolxis, e noi sappiamo che Zamolxis o Salmoside o Salmoxis è uno dei nomi che è stato attribuito a Zarathustra quando la sua figura è stata divinizzata dai popoli che vivevano lungo le sponde del basso Danubio. Questo schiavo di nome Zamolxis o Salmoside o Salmoxis, racconta Erodoto, una volta diventato libero e molto ricco, si costruì una bellissima villa e invitò a cena i cittadini più importanti del suo paese nativo. Durante il banchetto Zamolxis comunicò agli invitati che essi non sarebbero mai morti e che lui stesso era un immortale e che andava e veniva dall’Ade a suo piacimento. Dopo aver fatto queste affermazioni Zamolxis scomparve all’improvviso e si rinchiuse in un appartamento sotterraneo che si era precedentemente costruito. In questa abitazione sotterranea rimase per più di tre anni finché un giorno, quando ormai tutti lo credevano morto, spuntò fuori vivo e vegeto, e fu venerato come un dio dal popolo dei Geti.

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Erodoto, Le Storie IV  95 96

A quel che ho sentito dire dai Greci che abitano l’Ellesponto e il Ponto, questo Zamolxis, che era un uomo, sarebbe stato schiavo in Samo e, precisamente, schiavo di Pitagora, figlio di Mnesarco; di poi, divenuto libero, si sarebbe procurato molti beni e, ricco, se ne sarebbe tornato al suo paese.

Ora, siccome i Traci vivevano miseramente ed erano piuttosto rozzi, egli che, per aver avuto rapporti con i Greci e con il saggio Pitagora, che per saggezza era il più eminente dei Greci, conosceva il modo di vivere ionico e costumi ben più progrediti di quelli dei Traci, fece costruire una grande sala in cui accoglieva e convitava i più ragguardevoli fra i cittadini, cui insegnava che né lui, né i suoi commensali, né i loro discendenti per tutti i tempi sarebbero morti ma sarebbero andati in un luogo tale in cui sarebbero sopravvissuti per l’eternità, godendo di ogni bene.

Però, mentre si comportava così come s’è detto, e teneva questi ragionamenti, nello stesso tempo faceva costruire per sé una stanza sotterranea. Quando questa fu terminata, egli scomparve dalla vista dei Traci e, sceso giù nella dimora sottoterra, visse colà per tre anni.

I Traci ne sentivano la mancanza e lo piangevano come morto ma al quarto anno, apparve loro di nuovo e così tutto quello che Zamolxis diceva divenne credibile. Così, a quanto dicono, egli si comportò. Io, per quel che riguarda la stanza sotterranea, né mi rifiuto di credere, né presto credenza eccessiva; mi pare però che questo Zamolxis sia vissuto molti anni prima di Pitagora. Ma sia egli stato un uomo, o, piuttosto, una divinità dei Geti, basti quanto s’è detto.

Costoro dunque, con tale loro modo di pensare, quando furono vinti dai Persiani, seguirono il resto dell’esercito…

     Come sempre fa, Erodoto manifesta i suoi dubbi sulla veridicità storica di questi avvenimenti.

     È probabile che Pitagora abbia appreso dal pensiero di Zarathustra la teoria degli opposti: secondo Zarathustra tutto si genera dallo scontro delle forze del Bene (della Luce) e del Male (delle Tenebre). A questo proposito dobbiamo ribadire il fatto che la figura di Pitagora raccoglie in sé elementi della sapienza poetica provenienti dai libri dei Veda indiani (il concetto dell’anima migrante) ed elementi della sapienza poetica prodotti dal pensiero di Zarathustra. La figura di Pitagora è complessa perché la sua formazione intellettuale è molto articolata: il pensiero di Pitagora s’inserisce e spazia nel quadro più generale ed eterogeneo della sapienza poetica dell’Età assiale della storia, dal Manifesto della Scuola di Samo, ai misteri Egizi, dal concetto dell’anima migrante dei libri indiani dei Veda all’astronomia dei Caldei, dalla geometria dei Fenici ai culti mistici dei Magi fino allo scontro tra gli opposti di Zarathustra.

     Pitagora, dopo i suoi viaggi di formazione in giro per il mondo, torna in patria con un notevole patrimonio di esperienze intellettuali e comincia ad insegnare: è maestro anche del figlio di Policrate, il tiranno di Samo. In fatto di educazione e di moralità nasce un diverbio tra Policrate e Pitagora: la condotta di vita di Policrate (che Erodoto definisce un pirata, un razziatore, un voltagabbana e un gozzovigliatore) a Pitagora non può andare a genio. Pitagora non sopporta un tipo così e quindi decide di emigrare e, a quarant’anni, prende di nuovo la via del mare e sbarca a Crotone. Questa grande e ricca polis della Magna Grecia accoglie Pitagora con favore e la bulé, l’assemblea degli anziani (il Senato), lo invita a tenere una serie di lezioni ai giovani sulla saggezza orfica e sui valori della cultura greca. Pitagora è un personaggio affascinante: la sua coerenza morale, in una città dove spicca la corruzione, attira molti giovani intorno a lui.

     In poco tempo le lezioni di Pitagora vengono frequentate da circa 300 giovani studenti e questo gruppo comincia a condizionare anche la vita politica della città. Questi avvenimenti della vita di Pitagora a Crotone ce li racconta un altro illustre personaggio della Storia della cultura che ha citato, nella sua opera, molte volte la figura di Pitagora: questo personaggio si chiama Aulo Gellio. E come prima, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo fatto conoscenza con Porfirio di Tiro e con le sue opere così ora, sulla scia della biografia di Pitagora, dobbiamo fare conoscenza con quest’altro importante personaggio. Aulo Gellio (122 circa-175/180 circa) è un intellettuale romano nato durante il regno dell’imperatore Adriano (in un momento di grande attenzione per la cultura greca). Aulo Gellio ha studiato la grammatica e la retorica e nel 143 compie il suo primo viaggio in Grecia per completare la sua formazione intellettuale. Ritorna poi successivamente ad Atene una seconda volta per continuare a “fare ricerca” e per sviluppare maggiormente il suo sapere.

     Ad Atene Aulo Gellio entra in contatto, attraverso Calvisio Tauro, con la Scuola platonica, poi, attraverso Erode Attico con il movimento dei Sofisti e inoltre con la Scuola cinica attraverso Pellegrino Proteo. Ad Atene, a contatto con questi personaggi, Aulo Gellio segue la trafila di un vivace dibattito in corso sui più importanti temi che in questo momento appassionano il mondo della cultura: il rapporto tra anima e corpo, la relazione tra fisica e metafisica, il confronto tra fede e ragione. Aulo Gellio partecipa e interviene in questo dibattito svolgendo un ruolo che potremmo definire di segretario: comincia col prendere appunti durante gli incontri che si svolgono tra questi personaggi (Calvisio Tauro, Erode Attico, Pellegrino Proteo) e poi, essendo un esperto scrittore (esperto di grammatica e retorica), si lascia prendere la mano e comincia per conto proprio a stendere un’opera che diventa una raccolta di scritti in venti libri che ci sono stati tramandati quasi completamente fino all’ottavo. L’opera di Aulo Gellio contiene una lunga serie di considerazioni e di riflessioni personali sui più svariati argomenti e poi contiene gli appunti, le citazioni, i verbali (riscritti in elegante prosa) degli incontri tra intellettuali platonici, sofisti, cinici che avvenivano ad Atene nelle “lunghe notti invernali”. Per questo motivo questa famosa opera di Aulo Gellio s’intitola Notti Attiche. Quest’opera,  di non facile lettura, è una ricchissima fonte d’informazione (come gli Opuscoli di Plutarco di Cheronea) sugli argomenti più vari: la grammatica, la letteratura, il diritto, la religione, la storia, la geografia, le scienze naturali, la matematica e la filosofia con notizie sulla vita, le opere, le dottrine, e le idee di numerosi pensatori dell’antichità. Anche Notti Attiche di Aulo Gellio ha avuto un’ampia diffusione nel Medioevo e nel Rinascimento: la citano spesso Francesco Petrarca, Tommaso Moro, Erasmo da Rotterdam.

     Nelle Notti Attiche Aulo Gellio cita più volte Pitagora raccontando episodi della sua vita: soprattutto della permanenza di Pitagora a Crotone e delle caratteristiche della Scuola pitagorica. Aulo Gellio ci mette al corrente del famoso catalogo delle regole della Scuola pitagorica: un elenco di norme stranissime che certamente sono delle metafore il cui significato è rivelato solo agli adepti, e Aulo Gellio fa anche delle ipotesi sul significato di alcune di queste metafore rivelandone il contenuto. La Scuola pitagorica ha la caratteristica di funzionare come una confraternita religiosa, come una setta misterica di stampo orfico e costituisce un modello che viene ripreso nel corso dei secoli. Ma leggiamo che cosa scrive Aulo Gellio:

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Aulo Gellio, Notti Attiche (seconda metà del II secolo)

Pitagora, a causa di un diverbio insanabile con il tiranno Policrate, abbandonò l’isola di Samo e navigò alla volta di Crotone dove fu accolto con favore. L’assemblea degli anziani lo invitò a parlare ai giovani della città sulla saggezza orfica e sui valori della cultura greca. Pitagora accolse di buon grado l’invito e cominciò, nell’aula del Senato, a tenere, con tono pacato e solenne, le sue lezioni. Pitagora, con il fascino della sua predicazione e con l’esempio silenzioso della sua vita, fece avvicinare trecento giovani intorno a sé, i quali cominciarono a chiedere che le Istituzioni fossero governate secondo gl’insegnamenti del maestro. Pitagora aveva così fondato una Scuola anzi, per essere più precisi, una setta misterica, nella quale dovevano essere osservate delle regole che apparivano strane nella loro formulazione ma che contenevano un senso segreto tipico di tutte le confraternite di carattere orfico. L’elenco dei precetti della Scuola pitagorica era il seguente: Non mangiare le fave. Non spezzare il pane. Non attizzare il fuoco col ferro. Non toccare il gallo bianco. Non mangiare il cuore. Non guardarti nello specchio accanto al lume. Quando ti alzi dal letto non lasciare l’impronta del tuo corpo. Quando togli la pignatta dal fuoco rimescola le ceneri. Queste affermazioni hanno un significato metaforico: «non spezzare il pane» significa «non separarti dagli amici» e «non attizzare il fuoco con il ferro» significa «sii sempre disposto a perdonare».  Il divieto più misterioso della dottrina pitagorica risulta essere quello delle fave. Quale allegoria si nasconde dietro all’odio che Pitagora porta verso questo nutriente legume? Aristotele dice che l’avversione di Pitagora per le fave era a causa di un’allergia che si portava dietro fin da bambino. In presenza del maestro questo prodotto non poteva essere nominato: pena gravi sanzioni e l’espulsione dalla Scuola.

Gli adepti della Scuola di Pitagora vivevano tutt’insieme secondo il regime della comunità dei beni. Ogni sera al tramonto erano invitati a porsi tre domande: Che cosa ho fatto di male? Che cosa ho fatto di bene? Che cosa ho omesso di fare? Dopo di che dovevano pronunciare la seguente frase: «Lo giuro su Colui che ha rivelato alla nostra anima la divina tetraktys» (La “tetraktys” è il triangolo perfetto a cui corrisponde il numero 10: numero divino per eccellenza secondo Pitagora)

     A questo punto, per mettere ancora di più in evidenza la figura carismatica di Pitagora, facciamo intervenire anche Diogene Laerzio che con la sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi continua ad accompagnarci:

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Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Tutte le notti il Maestro (Pitagora) parlava. Ad ascoltarlo venivano da ogni parte del mondo. Lui però non si mostrava a nessuno: parlava tenendosi nascosto dietro una tenda. Chi, per combinazione, anche se di sfuggita riusciva a vederlo, se ne gloriava poi per tutta la vita.

Egli (Pitagora) aveva un aspetto maestoso, il volto splendente e le chiome ondeggianti, era avvolto in un manto bianco e da tutto il suo essere emanava un’affabile dolcezza.

Ogni suo discorso iniziava con la frase: «Per l’aria che respiro, per l’acqua che bevo non sopporterò alcuna obiezione su ciò che sto per dire»

Solo pochi fortunati erano ammessi alla sua presenza e gli stessi allievi non avevano la possibilità di vederlo se non dopo cinque anni di studi. Un giorno un nuovo adepto, introdottosi di nascosto nel suo appartamento, riuscì a scorgerlo mentre faceva il bagno in una tinozza e raccontò agli altri di aver intravisto una coscia d’oro.

Pitagora divideva gli esseri umani in due categorie: i matematici, ovvero coloro che hanno diritto ad accedere alla conoscenza (mathémata), e gli acusmatici che invece possono solo stare a sentire.

I discepoli della scuola pitagorica erano tenuti alla segretezza assoluta: si racconta che un giorno un allievo, tale Ippaso, rivelasse l’esistenza dei numeri irrazionali e la conseguente incrinatura dell’armonia numerica su cui si reggeva la dottrina pitagorica, Ippaso fu colpito dalla maledizione del Maestro e naufragò a poche miglia da Crotone, mentre cercava disperatamente di prendere il largo.

     Abbiamo detto che le due biografie più significative scritte su Pitagora sono le opere di due pensatori neoplatonici, Porfirio di Tiro e Giamblico di Calcide, vissuti tra il III e il IV secolo d.C.Porfirio di Tiro lo abbiamo incontrato poco fa e ora incontriamo Giamblico di Calcide (250 circa-330 circa) che di Porfirio è stato discepolo. Le opere di Giamblico di Calcide hanno contribuito notevolmente alla formazione culturale dell’imperatore Giuliano l’Apostata (331-363), nipote di Costantino, che per contrastare l’ascesa al potere del Cristianesimo ha cercato invano di restaurare la religione dell’ellenismo.

     Dobbiamo dire che tanto le opere di Porfirio di Tiro quanto quelle di Giamblico di Calcide (ciò che rimasto delle loro opere) hanno avuto uno straordinario successo nel periodo del Rinascimento italiano e fiorentino. Le opere di Giamblico di Calcide,  e in particolare la Raccolta delle dottrine pitagoriche, hanno contribuito allo sviluppo intellettuale e all’affermazione in tutto il mondo (dal 1450 al 1525) del movimento rinascimentale. Le opere di Porfirio e di Giamblico sono state tradotte (in latino, dal 1474 al 1497) da Marsilio Ficino, segretario dell’Accademia fiorentina fondata da Lorenzo il Magnifico, il quale ha potuto usufruire dei testi delle opere di Giamblico anche per scrivere la sua opera fondamentale: Teologia platonica de immortalitate animorum, Teologia platonica sull’immortalità delle anime (1474). Ora non possiamo approfondire l’opera di Marsilio Ficino perché è fuori Percorso ma si capisce già dal titolo come la cultura della sapienza poetica orfica e del pitagorismo contribuiscano a formare il pensiero moderno.

     Giamblico di Calcide ha scritto un trattato (redatto tra il 300 e il 330) intitolato Peri mysterion logos, Sui misteri, che va considerato il libro fondamentale della religiosità greca dell’epoca tardoantica. Questo libro, sulla scia delle Enneadi di Plotino e della Scuola pitagorica, descrive un itinerario che deve servire per condurre gli esseri umani a purificarsi e a liberarsi dagli aspetti negativi che procura la corporeità. La purificazione avviene con la conoscenza e la pratica dei culti divini che l’Umanità ha ereditato. Secondo Giambico,che riprende la tradizione della Scuola pitagorica, la conoscenza del divino è innata nella persona umana. Dio è un ente che s’identifica con l’idea del Bene di Platone: il pensiero di Platone viene trasformato in una religione per creare un’alternativa ideologica al Cristianesimo e poi i pensatori cristiani (nei secoli) sapranno utilizzare a pieno questa operazione culturale, che trasforma il Neoplatonismo in religione, per “cristianizzare” il potente pensiero di Platone e per dare al Cristianesimo una forte base filosofica.  Dio è l’Uno, capace di emanare gli esseri divini, e ad ogni emanazione dell’Uno corrisponde una divinità, corrisponde uno degli dèi. Tra gli dèi e gli esseri umani è situato il regno dei demoni che donano la salute e infliggono la malattia. Per risalire all’Uno, per liberarsi dalla ruota della reincarnazione e ritornare ad unirsi con la Divinità, l’anima deve imparare a evocare le Entità divine (gli dèi o le Idee pure del mondo di Platone) una dopo l’altra in un cammino di ascensione: questo itinerario prevede un rituale mistico contrassegnato da formulari magici da recitare in preghiera.

     Per quanto riguarda i rituali mistici e i formulari magici, Giamblico attribuisce grande importanza alle dottrine egiziane e al pensiero di Pitagora. Gli esseri umani, secondo Giambico, entrano in contatto con la divinità attraverso una disciplina che si chiama: teurgia. Giamblico di Calcide attraverso l’opera Peri mysterion logos, Sui misteri, costruisce la teologia del neoplatonismo (una delle basi ideologiche su cui si sviluppa la teologia cristiana) utilizzando la disciplina della teurgia. Che cos’è la teurgia e che differenza c’è tra la teurgia e la teologia? La teologia è la disciplina che parla degli dèi, che parla di Dio. La teurgia è una sapienza o un’arte di natura magica che cerca di evocare gli dèi, di evocare Dio stesso in modo che gli dèi o Dio stesso possano agire sugli esseri umani. La prassi dei rituali teurgici, che Giamblico di Calcide prescrive nel suo libro Sui misteri, diventa di moda nel XV e nel XVI secolo nell’Europa rinascimentale (a Firenze ci sono molti templi teurgici). Uno dei rituali teurgici tradizionali prevede il telestiché, cioè l’animazione di una statua consacrata della divinità (abbiamo già incontrato la parola-chiave statua nel nostro Percorso). Il teurgo (il sacerdote), detto docheus, svolge un ruolo di medium (Pitagora viene considerato il modello del teurgo, il prototipo del medium). In questo rito è necessario anche un sigofalòs, una trottola magica, che viene fatta girare con uno spago: questa trottola è a forma di disco d’oro con sopra un triangolo (la tetraktys di Pitagora). Il triangolo gira e quando si ferma i vertici (come fossero delle frecce) indicano le formule mistiche scritte sulla superficie del disco. Al centro del disco c’è uno zàffiro, pietra preziosa di colore blu, azzurro intenso, che costituisce il tramite con il Cielo, che rispecchia lo spazio etereo. La trottola magica non può essere fatta ruotare sempre: la sua rotazione coincide con i movimenti delle sfere celesti (con l’armonia celeste di Pitagora). La trottola deve attrarre le intuizioni metafisiche, i pensieri delle Entità divine. La rotazione della trottola magica è sincronizzata ad un calendario teurgico che scandisce il tempo dell’anno liturgico astrale. Dopo aver assorbito le intuizioni metafisiche, facendo girare la trottola, il docheus entra dentro la statua consacrata della divinità (come se fosse un’armatura) e attraverso il fuoco sacro va in estasi ipnotica, parla e svela i pensieri delle Entità divine. Le anime dei partecipanti al rito vengono attirate verso la Luce Originaria, prodotta dalle emanazioni divine dell’Uno, e possono congiungersi con l’Intuibile (questi termini derivano dal linguaggio della Scuola pitagorica). L’anima esce così dal corpo (evade temporaneamente dalla prigione materiale) ed entra in comunione con la divinità e poi ritorna nel corpo rinnovata, purificata, divinizzata (diremmo in Grazia di Dio). I rituali teurgici, come abbiamo notato, sono impregnati di pitagorismo e a questo punto dobbiamo citare l’opera di Giamblico di Calcide che contiene la biografia di Pitagora e raccoglie le dottrine pitagoriche.

     Quest’opera s’intitola Synagoge ton Pythagoreion dogmaton, Raccolta delle dottrine pitagoriche: Synagoge in greco significa “raccolta”, ed è un’opera in dieci libri, di cui cinque sono andati perduti, che trattavano di teologia aritmetica, di mistica dei numeri, di musica, di geometria, di astronomia. Il primo libro, conservato interamente (è quello su cui probabilmente si è concentrato il maggior interesse), tratta Della vita pitagorica e presenta Pitagora come un grande modello di vita e come un personaggio straordinario tanto che le biografie su Pitagora hanno contribuito alla formazione della letteratura agiografica, sulla vita dei Santi (dalle figure degli antichi martiri, fino a San Benedetto, ai Fioretti di San Francesco, fino a Padre Pio). Leggiamo un frammento della Synagoge:

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Giamblico di Calcide, Synagoge. Della vita pitagorica (300-330)

A Pitagora vengono attribuiti numerosi eventi straordinari: uccise un serpente velenoso con un morso. Conversò per molti anni con un’orsa daunica. Persuase una giovenca a non mangiare più fave. Accarezzò un’aquila bianca che era scesa dal cielo apposta per salutarlo. Fu visto nello stesso istante sia a Crotone che a Metaponto. Fu salutato a gran voce dal fiume Nesso che, scorrendo accanto a lui, pare avesse esclamato: «Salve o Pitagora».

Pitagora ha un carattere sovrannaturale, è il vero teurgo: di lui si dice: «tre sono le nature dell’Universo: gli dèi, i mortali e quelli come Pitagora». Il suo nome, nelle conversazioni, non veniva mai fatto esplicitamente dai suoi discepoli; si preferiva usare l’espressione «quell’Uomo» oppure il più dogmatico «autós éfe (lui stesso lo ha detto)».

     Le regole, i misteri, il carattere dogmatico dell’insegnamento di Pitagora, finiscono per infastidire la maggioranza dei cittadini di Crotone e si forma una forte opposizione contro Pitagora. Il capo di questa opposizione è un certo Cilone, giovanotto di buona famiglia e di carattere violento. Ma ascoltiamo il racconto di Giambico:

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Giamblico di Calcide, Synagoge. Della vita pitagorica (300-330)

A capo dell’opposizione a Pitagora era un certo Cilone, giovanotto di buona famiglia e di carattere violento. Costui, avendo visto respinta la propria domanda d’ammissione alla Scuola pitagorica (era necessario superare un severo esame d’ammissione), non ebbe più pace finché non riuscì a trovare un modo per vendicarsi. Una notte, alla testa di un centinaio di giovani facinorosi, circondò la sede dei pitagorici, ovvero la villa dell’atleta Milone, e dopo aver invitato inutilmente gli adepti a venir fuori, dette fuoco alla casa. Pochissimi riuscirono a fuggire, tra essi Archippo, Liside e lo stesso Pitagora. Sennonché, proprio dietro la casa di Milone, c’era un vasto campo di fave e il vecchio Maestro, pur di non attraversarlo, preferì farsi uccidere dai congiurati. Altri dicono che il Maestro riapparve a Metaponto, nel tempio delle Muse, e qui si lasciò morire d’inedia con la scusa che non aveva più voglia di vivere. C’è chi dice che sia vissuto 70 anni, chi 90, chi 107 e chi più di 150.

     Pitagora è certamente un personaggio straordinario. Non dobbiamo meravigliarci quindi che, come abbiamo già detto all’inizio dell’itinerario di questa sera, a lui venga attribuita una paternità divina: si dice che Pitagora fosse figlio del dio Ermes. La tradizione racconta che il dio Ermes, volendo fare un regalo al figlio Etalide, gli promise qualsiasi cosa avesse voluto a eccezione dell’immortalità, ed Etalide pensò bene di chiedergli un’eterna memoria, ovvero la possibilità di ricordare, anche dopo morto, tutte le vite precedenti. Grazie a questa facoltà Pitagora, come scrive Diogene Laerzio, ha sostenuto di aver già vissuto quattro volte e di essere stato prima Etalide, poi Euforbo, nei cui panni era stato ferito a Troia da Menelao, quindi Ermotimo, che aveva riconosciuto in un tempio lo scudo di Menelao, e infine Pirro, un povero pescatore dell’isola di Delo. Tra una reincarnazione umana e l’altra, scrive sempre Diogene Laerzio, l’anima di Pitagora si è trasferita in numerosi animali e perfino in qualche pianta. Secondo la sapienza poetica orfico-pitagorica il ciclo delle reincarnazioni è di 216 anni: il 216 è uno dei numeri magici (è un segreto, non si dovrebbe rivelare) della Scuola pitagorica, essendo il cubo del numero 6. Secondo gli esperti di sapienza poetica orfico-pitagorica l’ultima apparizione di Pitagora reincarnato dovrebbe essere avvenuta intorno al 1810 d.C.. Pitagora reincarnato (in quanto figura straordinaria) non può che essere un personaggio importante: e qual è il personaggio più importante che è comparso (dalle nostre parti) nel 1810? Nel 1810 è nato Camillo Benso conte di Cavour (chi non lo conosce?). Camillo Benso conte di Cavour, come direbbe qualche buontempone (per esempio il principe don Fabrizio di Salina profondo conoscitore del Pitagora matematico e astronomo), è riuscito a risolvere il difficile teorema dell’Unità d’Italia (e il termine teorema è certamente parola-chiave di Scuola pitagorica). Questa è un’ipotesi scherzosa ma qualcuno potrebbe lasciarsi suggestionare dal fatto che Camillo Benso conte di Cavour, oltre ad essere nato nel 1810, è morto il 6 giugno 1861: e che cosa c’è di strano, direte voi? Se osserviamo bene, senza lasciarci suggestionare, i numeri di questa data: 6-6-1861 notiamo che ci sono tre sei con i quali, senza lasciarci suggestionare, possiamo comporre il magico cubo di sei: il sacro numero 216. E poi i numeri restanti 1 8 1 (presenti tanto nella data di nascita quanto in quella di morte di Camillo Benso), sommati insieme, fanno 10, fanno la divina tetraktis. Non lasciamoci suggestionare ma sta di fatto che, se proprio ci vogliamo pensare, dal 6 giugno 1861 l’anima di Pitagora è in libertà e si dovrebbe reincarnare in una persona (se sommiamo il 1810 con il 216) intorno al 2026.

     Intanto (fino al 2026) l’anima di Pitagora sta migrando (“Non è vero ma ci credo” è il titolo) e noi in conclusione, senza lasciarci suggestionare, tiriamo le fila di questo itinerario dedicato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, alle biografie del Pitagora mitico.

     In questo itinerario abbiamo visto il nome di Pitagora avvicinarsi alle parole: miracolo, mistero, magia, e questi accostamenti fanno sorridere i nostri due accompagnatori perché, tanto Erodoto quanto il capitano Agenore di Tiro, sono piuttosto razionalisti e preferiscono il Pitagora matematico, pur sempre mistico, ma in chiave scientifica più che in chiave esoterica. Del Pitagora matematico non abbiamo ancora detto niente e noi dobbiamo fare molte domande al Maestro di Samo emigrato a Crotone. Quindi lanciamo un appello all’anima di Pitagora perché compaia la prossima settimana, qui a Crotone, sulla via che stiamo percorrendo. Per ottenete questo facciamo una promessa: promettiamo di tenerci lontani (almeno per questa settimana), molto lontani, dai campi di fave! Per ora, perché quando però verrà la stagione non possiamo promettere di stare lontani, almeno per un assaggio tradizionale, da fave e salame, fave e pecorino, patate e fave: chissà che Pitagora (in allegra compagnia di Erodoto e di Agenore) non cambi idea!

     Le vie della didattica della lettura e della scrittura sono, quasi, infinite. La Scuola è sempre qui: questa scuola non è infinita, ma non è ancora finita, il viaggio continua e sapete che cosa ha da insegnarci il Pitagora matematico?

     Per saperlo correte numerosi…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 9, 2007