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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL MARE: SPECCHIO DEL CIELO, SEDE DELL’ABISSO…

Lezione N.: 
9

Prof. Giuseppe Nibbi                    Lo sguardo di Erodoto 2006             13-14-15  dicembre  2006     

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL MARE: SPECCHIO DEL CIELO, SEDE DELL’ABISSO…

     Abbiamo lasciato la cittadina di Ascra in Beozia – dove siamo stati ospitati da Esiodo – e, strada facendo abbiamo visitato il santuario di Delfi dove abbiamo incontrato il mito di “Apollo delfino”. Poi il capitano Agenore di Tiro – che dirige il nostro viaggio – a bordo dello scené (del carro da trasporto degli attori), ci ha condotto a Kirra, sulla costa settentrionale del golfo di Corinto. Kirra è il porto di Delfi e oggi questa località si chiama Itéa. Siete andati – come invita il REPERTORIO dello scorso itinerario – a fare una visita alla cittadina di Itéa?

      Giunti nel porto di Kirra il capitano Agenore di Tiro ha soffiato – come se fosse una tromba – in una conchiglia e, al suono della conchiglia, è apparso un grosso branco di delfini. Noi ora stiamo continuando nostro viaggio sulla groppa di questi delfini. I delfini, scivolando veloci tra le onde, sono usciti dal golfo di Patrasso e hanno puntato verso sud, e ora, sul loro dorso, stiamo procedendo lungo la costa ionica del Peloponneso: dobbiamo raggiungere il capo Ténaro e la penisola di Máni. Dal punto strategico del capo Ténaro dobbiamo osservare il mare.

     Erodoto narra, nel capitolo 24 del libro I de Le Storie, il leggendario racconto che ha come protagonista il poeta lirico (il famoso citaredo) Arione di Metimna che, dopo essere stato costretto a buttarsi in mare dai marinai corinzi della nave su cui viaggiava – che volevano impadronirsi delle sue ricchezze – fu salvato da un delfino che lo prese sul dorso e lo portò a riva, fino al promontorio Ténaro: la punta più a sud del Peloponneso e della Grecia. Sul promontorio Ténaro – scrive Erodoto – in un tempio dedicato a Posidone, c’era un ex-voto d’Arione di Metimna, di modeste proporzioni: c’immaginiamo fosse una tavoletta di legno con sopra un dipinto che rappresentava una persona sulla groppa di un delfino. Sapete perché – allude Erodoto – il mare va osservato da questo punto di osservazione?

     Prima di riflettere su questo interrogativo – mentre stiamo navigando sul dorso dei delfini che ci stanno conducendo al capo Ténaro, alla penisola di Máni – dobbiamo dire che la parola “mare” ci porta ad incontrare ancora la scrittrice Irène Némirovsky che ormai tutti conosciamo. Perché la parola “mare” ci porta ad incontrare ancora la scrittrice Irène Némirovsky?

     La scorsa settimana non abbiamo avuto il tempo di sottolineare il fatto che Irène Némirovsky, negli anni trenta, era considerata la più importante scrittrice di Francia e lo era anche il 13 luglio 1942 quando fu arrestata per essere condotta ad Auschwitz. Nel 1929 l’editore parigino Bernard Grasset riceve, per posta, un manoscritto: comincia a leggerlo e ne rimane affascinato, non se ne stacca fino a notte fonda, finché non ha terminato la lettura, quello che ha letto è il testo di un romanzo. Bernard Grasset decide di pubblicare immediatamente questo romanzo che s’intitola David Golder, ma si accorge che l’autore non si è firmato e, sul plico di spedizione, non  ha lasciato neppure l’indirizzo ma solo il numero di una casella postale. Bernard Grasset scrive subito alla casella postale per contattare l’autore, per proporre un contratto, ma non riceve risposta e allora fa pubblicare una serie di annunci sui giornali parigini. Finalmente, dopo alcuni mesi, l’autore si fa vivo, si presenta nell’ufficio dell’editore: è una bella signora di ventisei anni, di origine russa, proveniente da Kiev, figlia di uno dei più noti banchieri ebrei della Russia zarista il quale, dopo la Rivoluzione del 1917, è sbarcato con tutta la famiglia a Parigi e di nuovo ha fatto fortuna.

     «Perché, signora, si è fatta aspettare così tanto tempo?» Chiede l’editore. E la signora, sorridente, risponde: «Avevo una cosa importante da fare, un mese fa ho partorito una bambina, si chiama Denise, ed è la mia prima figlia…».

     Irène Némirovsky è in Francia solo da dieci anni e l’editore Grasset si meraviglia che questa signora scriva in francese in modo straordinario. Lui è pieno di ammirazione (la signora è affascinante) ma è dubbioso: non è convinto che sia proprio lei l’autrice del manoscritto che ha letto e che contiene il testo di un romanzo brillante, crudele e audace. Questo romanzo sembra l’opera di uno scrittore maturo e l’editore teme che, questa signora, stia facendo da prestanome a qualche autore famoso che vuole restare nell’ombra. Bernard Grasset interroga a lungo la signora e la signora risponde: per quanto riguarda la lingua (l’uso magistrale della lingua francese) Irène spiega all’editore che lei parla francese da sempre e, rispetto al francese, il russo è come se fosse la sua seconda lingua («Ha mai letto Guerra e pace, signor Grasset, – replica Irène – si è accorto che inizia in francese e che, in tutto il testo del romanzo la lingua francese accompagna quella russa? Sono compaesana di Leone Tolstoj…», e inoltre dichiara (in quanto a lingue) di parlare anche il polacco, l’inglese, il basco, il finlandese e naturalmente un po’ di yiddish. E poi, abbastanza spazientita – mostrando tutta la sua maturità e autorità – Irène Némirovsky cambia tono e comincia a fare sfoggio della sua cultura letteraria (russa, francese, europea) e cita tutti i racconti che, dall’età di quattordici anni, lei ha già scritto, e allora l’editore Grasset, un po’intimorito, non ha più dubbi.

     Appena pubblicato – siamo nel 1929 – il romanzo David Golder viene lodato da tutta la critica e ottiene un grande successo di pubblico e Irène Némirovsky diventa la più importante scrittrice di Francia.

     Irène Némirovsky ha cominciato a scrivere il testo di David Golder nel 1925 a Biarritz, la notissima città balneare, climatica, idrominerale dei Bassi Pirenei, sull’oceano Atlantico, situata a nord della costa basca (siamo vicini al confine con la Spagna) e delimitata a sud dalla vasta foresta (soprattutto pineta) delle Lande.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con la guida della Francia (durante le vacanze) potete fare una visita a Biarritz …

     Chi è David Golder, il protagonista del romanzo? David Golder è un ebreo di origine russa, magnate della finanza internazionale. Il romanzo racconta la sua ascesa, il punto di massimo splendore e poi lo spettacolare tracollo della sua banca che lo manda in rovina. Il romanzo racconta anche le avventure della moglie di Golder, Gloria, notoriamente infedele, abituata ad un tenore di vita altissimo, bisognosa di ingenti somme di denaro per mantenere il suo amante. Golder ha anche una figlia, frivola e ingrata, che lui ama senza essere ricambiato. Il vecchio David Golder, in seguito al fallimento della sua banca, cessa di essere il terrore della Borsa e si trova sul lastrico: è un uomo rovinato, è un uomo vinto. Il vecchio Golder, in seguito al fallimento, ridiventa il piccolo ebreo che era stato in gioventù ad Odessa (povero ma intraprendente) e, dopo aver preso coscienza di questo fatto, ritrova la tenacia e ricomincia a ricostruire il suo patrimonio. Dopo aver messo a segno – in Russia – un buon affare, che potrebbe portarlo a ridiventare ricco, David Golder s’imbarca a Sinferopoli, in Crimea, per tornare in Europa.

     L’anno scorso ci siamo stati con Erodoto nella colonia greca di Sinferopoli, vi ricordate? Sinferopoli è l’antico nome della città di Yalta: è un nome greco Sun-fero-polis: la città (polis) dove si portano (fero), dove si raccolgono, dove si trafficano (sunfero) le merci, dove si fanno affari. Sulla nave su cui s’imbarca, stremato dalla fatica, per il vecchio Golder arriva la fine.

     La trama di questo romanzo è banale e si può raccontare senza togliere nulla al gusto della lettura. La bellezza del romanzo David Golder – di cui si consiglia la lettura – sta nel modo in cui è scritto: nella forma dei dialoghi incalzanti, nelle metafore, nell’ironia, nelle allusioni. Golder, alla fine, viene assistito da un emigrante ebreo, che viaggia verso l’Europa nella speranza di una vita migliore, il quale raccoglie le sue ultime parole pronunciate in lingua yiddish: una lingua che si trovava ormai nel profondo dei ricordi del vecchio banchiere e che riemerge dal passato nella sua mente. Golder quindi, alla fine, si riconcilia con la sua tradizione culturale che lui aveva dimenticato da quando, nel suo cuore,  la passione per il denaro aveva preso il posto di qualsiasi altro sentimento.

     La fine di David Golder avviene in mezzo al mare – sull’orlo dell’abisso – nel corso di una furiosa tempesta. Irène Némirovsky – con l’allegoria finale del David Golder – ci porta (come abbiamo detto all’inizio di questa riflessione) ad incontrare ancora il “mare” nei termini del mito, secondo la tradizione della sapienza poetica dove il “mare” è sempre – insieme alla luce, alle tenebre, all’albero …– una delle componenti fondamentali dei Racconti sulle Origini.

     Il primo paesaggio intellettuale della Letteratura dell’Antico Testamento (che allegoricamente Irène Némirovsky ripropone nel finale di David Golder) si manifesta nei primi due versetti del libro della Genesi (che tutti abbiamo in mente) dove troviamo il Cielo diviso dalla Terra avvolta dalle Tenebre e su questo scenario è presente Ruha Elohim, il vento impetuoso (secondo la traduzione letterale), lo spirito di Dio (secondo la traduzione allegorica) che aleggia sulle acque le quali riempiono le profondità degli abissi: i mari. Ruha Elohim crea (conquista) il Cielo (la Terra – informe e deserta – esiste già) e sfida l’Abisso (l’Abisso è circondato dalle Tenebre: anche l’Abisso e le Tenebre, in questo scenario, esistono già ). Ruha Elohim aleggia sulle acque che hanno riempito l’Abisso: anche il mare esiste già. Ruha Elohim crea il Cielo e sfida l’Abisso perché la superficie del mare riflette il colore del Cielo e questo fatto determina una divisione: nella mentalità degli scrivani del libro della Genesi l’atto del creare corrisponde all’azione di “dividere”. Ruha Elohim crea il Cielo e sfida l’Abisso perché la superficie del mare determina un confine tra il Cielo che contiene la Luce e l’Abisso che contiene le Tenebre.

     Nei racconti che sviluppano il tema del Principio il mare colma l’Abisso e quindi il mare contiene l’acqua che viene dal Cielo, contiene la vita, e riempie l’Abisso, sede delle Tenebre simbolo della morte. In tutte le culture dell’Età assiale della storia (in tutte le opere prodotte dalle civiltà antiche e contenenti i Racconti sulle Origini: nella letteratura indiana, cinese, persiana, mesopotamica, veterotestamentaria) troviamo espresso questo concetto, questa idea cardine sulla quale stiamo riflettendo in funzione della didattica della lettura e della scrittura: il mare non è solo un ammasso di acque ma ha una valenza simbolica fondamentale che nasce dalla riflessione sul tema delle Origini. Sul mare si riflette il Cielo e nel mare è contenuto l’Abisso. Sulla superficie del mare si riflette la Luce che dovrebbe ricacciare le Tenebre nel profondo. Nel mare si ripropone incessantemente la lotta tra il Bene e il Male che ha caratterizzato lo scenario delle Origini: il mare rappresenta la turbolenza, l’incertezza e il mistero delle Origini.

     Il mare ci ricorda che i Racconti sulle Origini non sono stati scritti definitivamente una volta per tutte. Il Bene (il Cielo) ha conquistato la superficie e ha spinto il Male nel profondo (nell’Abisso), ma il Male non è stato sconfitto e, dal profondo, opera per sconvolgere spesso la superficie, agisce per portare lo scombussolamento sul piano del Bene. La situazione delle Origini (che si presenta – nella rete dei Racconti primordiali – come uno scontro titanico tra il Bene e il Male, tra il Cielo e l’Abisso) si ripete ininterrottamente, e di fronte all’immensità del mare abbiamo l’impressione di trovarci davanti al palcoscenico dove la grande rappresentazione delle Origini, del Principio, sta per compiersi o dove, la prima scena, si è appena conclusa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A quale mare – a quale località marina – siete particolarmente affezionate, affezionati ? …

Scrivete quattro righe in proposito… 

     Questo concetto, questa idea cardine, – legata alla parola-chiave “mare” – naturalmente è anche patrimonio della cultura greca, eredità culturale del movimento della sapienza poetica orfica. Ora possiamo capire meglio il verso (l’unico verso superstite) dei Ditirambi di Arione di Metimna. Nell’itinerario scorso abbiamo detto che avremmo inserito, nel testo del frammento, due parole greche utili per dedicarci alla riflessione. Rileggiamo il frammento di Arione:

LEGERE MULTUM….

Arione di Metimna, Frammento dai Ditirambi (VII sec. a.C)

(Salta) gioioso il delfino tra l’onde

prediletto del dìo (Poseidone)

che tra le Nereidi vive in eterno.

Il delfino è rapsodo (è sarto, è mediatore)

nel mare (talassa) portatore di morte

nel mare (pélagos) dispensatore d’immortalità

     Nell’unico frammento che possediamo di Arione di Metimna possiamo leggere due volte la parola “mare” espressa con due termini diversi.

     Per continuare questa riflessione torniamo sulla scia di Erodoto e della sua opera. Erodoto nel testo de Le Storie utilizza centinaia di volte la parole “mare”. Nella lingua ionica anche la parola “mare” (come la parola “albero”, che abbiamo incontrato qualche settimana fa) viene espressa con due termini diversi. E anche Arione di Metimna – citaredo, rappresentante del movimento della sapienza poetica orfica di stampo lirico – utilizza, a brevissima distanza l’una dall’altra (come abbiamo letto, nell’unico frammento che ci rimane dei suoi Ditirambi) due parole diverse per definire il mare, perché? Il perché è legato al ragionamento sul tema delle Origini che abbiamo fatto poco fa ed è legato all’idea cardine che il mare, in superficie, rispecchia la luce del Cielo, il Bene, la Vita, l’Immortalità, e nel profondo, nell’Abisso, racchiude le Tenebre, il Male, la Morte. Il vocabolario ionico definisce il mare, inteso nella sua superficie che tocca il Cielo e su cui si naviga, con la parola pélagos, mentre per definire il mare come contenitore dell’Abisso, in cui si naufraga, utilizza la parola talassa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nella vostra esperienza di lettrici e di lettori dove – in quale testo, in quale libro, in quale immagine – avete trovato un “mare” che potete definire come pélagos (superficie navigabile, specchio della luce, del bene, della vita, dell’Immortalità) e un “mare” che potete definire come talassa (abisso in cui si naufraga, baratro delle tenebre, del male, della morte)? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     A questo punto – dopo aver definito questa prospettiva lessicale – dobbiamo rileggere i capitoli 23 e 24 del libro I de Le Storie dove Erodoto racconta il fatto straordinario e meraviglioso di Arione di Metimna trasportato al capo Ténaro sulla groppa di un delfino. Dobbiamo rileggere questo brano per constatare come Erodoto utilizza i due termini – talassa e pélagos – che traducono la parola “mare”:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  23 24

(A) Periandro capitò di assistere a un fatto straordinario e meraviglioso: Arione di Metimna trasportato al capo Ténaro sulla groppa di un delfino. Era un citaredo secondo a nessuno di quelli del suo tempo e primo degli uomini, a nostra conoscenza, che compose ditirambi, diede ad essi il nome e li fece eseguire a Corinto.

Questo Arione, dicono, che passava la maggior parte del tempo presso Periandro, fu preso dal desiderio di prendere il mare (pélagos) e di far vela verso l’Italia e la Sicilia; e, dopo aver accumulato grandi ricchezze, volle tornare di nuovo a Corinto.

Partì, dunque, da Taranto e, siccome non si fidava di nessuno più che dei Corinzi, noleggiò, appunto, un battello di cittadini di Corinto. Questi, però, quando furono in alto mare (talassa), tramarono di gettare ai pesci Arione e impadronirsi delle sue ricchezze. Egli, accortosi del malvagio proposito, si diede a scongiurarli, offrendo i suoi tesori, ma chiedendo salva la vita.

Non riuscì tuttavia con tale mezzo a convincerli; anzi, i marinai gli imposero o di darsi egli stesso la morte, per poter avere sepoltura in terra o di gettarsi in mare (talassa) al più presto.

Messo in tal modo alle strette, Arione chiese che, se proprio così avevano deciso, gli permettessero almeno di cantare per l’ultima volta, sotto l’albero maestro, ritto fra i banchi dei rematori, con tutta la pompa dei suoi ornamenti: prometteva che, dopo aver cantato, si sarebbe dato la morte; ed essi, che erano allettati dal piacere di poter ascoltare il miglior cantore che ci fosse fra gli uomini, si ritirarono dalla poppa verso il centro della nave.

Arione, quindi, indossati tutti i suoi paramenti e presa in mano la cetra, sotto l’albero maestro, ritto tra i banchi dei rematori, eseguì, dal principio alla fine, il “nomo ortio” (Era un inno liturgico, a struttura rigidamente regolare e a tono elevato; di solito accompagnato dal flauto, ma da Arione eseguito con la cetra); alla fine del canto, così come stava, con tutti i vestiti, si gettò in mare (baratros talassicos).

I marinai fecero vela verso Corinto; quanto ad Arione, dicono che un delfino, presolo sul dorso, lo portò nuotando sulla superficie del mare (pélagos) al promontorio Ténaro; qui sceso a terra, si diresse a Corinto abbigliato com’era; e, giunto colà, spiegò tutto l’accaduto.

Periandro, dicono, piuttosto incredulo, tenne Arione sotto sorveglianza, senza lasciarlo andare in alcun luogo; intanto aspettava con impazienza l’arrivo dei marinai: quando questi furono arrivati, chiamatili al suo cospetto, chiese loro se avevano qualche notizia di Arione da riferirgli. E mentre quelli lo assicuravano che era sano e salvo in Italia e lo avevano lasciato in buone condizioni a Taranto, comparve loro davanti Arione, vestito come quando aveva spiccato il salto in mare (talassa); di modo che essi, sbigottiti, non ebbero più modo, colti in fallo, di negare l’accaduto.            

Questo è quanto raccontano Corinzi e Lesbi; ed esiste, in verità, al capo Ténaro un ex-voto d’Arione, di modeste proporzioni, che rappresenta un uomo sulla groppa di un delfino che nuota sulla superficie del (póntos) mare…

     Dopo avere riletto questo brano possiamo constatare come Erodoto usi i due termini che traducono la parola “mare” in modo da evidenziare bene quando si fa riferimento al Cielo e quando si fa riferimento all’Abisso, ma, attenzione, perché Erodoto usa un terzo termine per definire il mare, usa la parola póntos. La parola póntos definisce un mare che – anche per le sue ridotte dimensioni – mette facilmente in comunicazione una terra con l’altra, sul quale si naviga più facilmente e si naufraga meno: nell’antichità, per esempio, il Mar Nero è stato chiamato Pontos Eusinos. Il termine póntos diventa quindi la metafora di qualcosa che unisce piuttosto che dividere. Non è necessario essere degli esperti filologi per capire che da questo termine greco ionico, il quale indica il mare come elemento di unione, deriva le parola “ponte”.

     Perché Erodoto utilizza questo termine? Il linguaggio è lo specchio del pensiero e qui Erodoto racconta in modo allegorico, non solo per il piacere di narrare una storia leggendaria, ma soprattutto scrive per imbastire una riflessione sul tema delle Origini. Difatti rientra in scena un altro mitico elemento di unione: con la lettura di questo brano abbiamo rincontrato la figura del mitico “delfino” che fa da tramite, da mediatore tra l’Abisso e il Cielo, tra la Morte e l’Immortalità. Se l’immagine del “delfino” rappresenta un punto di unione ecco che anche il termine che – in questo caso – definisce il mare deve essere adeguato (póntos) ad esprimere questa idea che contiene un interrogativo fecondo di prospettive nella Storia del Pensiero Umano: esiste un punto d’incontro tra i contrari, c’è un punto d’unione nei contrasti? L’immagine mitica del “delfino” può essere sostituita con un dato reale, storico, naturale, fisico (fisicos), ordinario (kosmicos)? Questo interrogativo indica la direzione che – sulla scia di Erodoto – deve prendere (dopo le vacanze) il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Il linguaggio è lo specchio del pensiero e capiamo che, nel movimento della sapienza poetica orfica, – dal tempo dei poeti lirici al tempo di Erodoto – c’è un vivace dibattito in corso sul tema del Principio e sul tema della Morte e dell’Immortalità. Che cos’è la Morte? È la condizione in cui le tenebre e il silenzio favoriscono un eterno riposo (come dire: «Per favore, basta con l’esistenza! Torniamo alla quiete precedente alle Origini!») oppure è la porta per una nuova vita radicata nell’essenza? Questo dibattito continua ancora: intriso di cultura orfica. Il simbolo di questo dibattito, allora – al tempo dei poeti lirici, al tempo di Erodoto – è l’immagine del delfino che, con il suo librarsi tra l’Abisso e il Cielo, invita alla riflessione. Il delfino – nel racconto allegorico – salva il poeta e lo prende sulla sua groppa facendo sì che anche la poetessa, il poeta, diventi un tramite, diventi un mediatore tra il Cielo e l’Abisso.

     Il movimento della sapienza poetica orfica (con i suoi filoni: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia) vuole imbastire una riflessione sul tema dell’incerto evento del Principio per dare (per provare a dare) un senso all’evento ineluttabile della “fine”.

     Questa riflessione è fruttuosa e, a questo punto, possiamo capire meglio – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – perché Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel testo del suo racconto allegorico intitolato Lighea (lo avete letto?), faccia dire al senatore Rosario La Ciura: «Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità» .

     Stiamo sempre (metaforicamente) viaggiando sulla groppa dei delfini che – al richiamo del capitano Agenore – ci hanno preso sul loro dorso nel porto di Kirra. I delfini, scivolando veloci tra le onde, sono usciti dal golfo di Patrasso e hanno puntato verso sud, e ora, navigando con loro, stiamo procedendo lungo la costa ionica del Peloponneso: abbiamo ormai oltrepassato la penisola Messenica (è necessario l’ausilio dell’atlante e della guida della Grecia) e i nostri fantastici, mitici “delfini traghettatori” si dirigono verso la penisola della Laconia in direzione del capo Ténaro e della penisola di Máni.

     Il motivo per cui – sulla scia di Erodoto – dobbiamo raggiungere il capo Ténaro lo conosciamo già. Qui – racconta Erodoto – c’era un tempio di Posidone che conteneva anche un ex-voto di Arione di Metimna: una tavoletta di legno con sopra un dipinto che rappresentava una persona sulla groppa di un delfino, che rappresenta, simbolicamente, il vivace dibattito in corso – al tempo dei poeti lirici, al tempo di Erodoto – sul tema della Morte e dell’Immortalità. Oggi questo modello culturale esiste sempre nella nostra mente di lettrici e di lettori.

     Il capo Ténaro, il punto strategico che stiamo per raggiungere, ha assunto – attraverso l’immagine del simulacro, dell’ex-voto di Arione di Metimna – il carattere di un paesaggio intellettuale: da qui dobbiamo osservare il mare tenendo conto che, la valenza di paesaggio intellettuale che questo luogo assume, dipende – allude Erodoto – non solo dal simbolo del delfino salvatore e mediatore cantato dal poeta, ma dipende soprattutto dalle caratteristiche naturali di questo territorio di cui il capo Ténaro è la punta estrema.

     Che significato ha questo discorso? Significa che qui, dal capo Ténaro, la vista del mare produce effetti speciali, singolari, straordinari: è un effetto naturale che, però, si coglie a pieno se nella nostra mente c’è la consapevolezza di trovarci di fronte ad un paesaggio intellettuale. Dal capo Ténaro – se sappiamo osservare il grandioso panorama con l’occhio lirico di Arione di Metimna, con lo sguardo allusivo di Erodoto e con il bagaglio culturale della sapienza poetica orfica – possiamo percepire il mare (lì s’incontrano lo Ionio e l’Egeo) nel suo significato di pélagos (superficie navigabile, specchio della luce, del bene, della vita, dell’Immortalità) ma soprattutto nel suo significato di talassa (abisso in cui si naufraga, baratro delle tenebre, voragine del male, sede della morte). Dal capo Ténaro (e non solo in particolari situazioni climatiche…) succede che, osservando l’immensità del mare, si ha una visione dell’Abisso, si vede il baratro formarsi tra le onde.

     Se poi accade che un branco di delfini (spettacolo non inconsueto in questo luogo) salta tra i flutti ecco che, da capo Ténaro, all’occhio dell’osservatrice e dell’osservatore, la vista del mare propone un’alternanza continua di visioni: il mare si presenta come lo specchio della luce e subito dopo come lo specchio della desolazione, per ritornare ad apparire come lo specchio della luce e poi ancora come lo specchio della desolazione, e così via (bisogna raggiungere questo luogo preparati!). E all’occhio – se la mente è consapevole delle parole-chiave e delle idee cardine necessarie – appare davvero Arione di Metimna, tra le onde, che, sul dorso del delfino, canta, accompagnandosi con la cetra, e l’orecchio sembra percepire davvero l’eco della sua voce che interpreta i Ditirambi, portata sulle ali del vento (ánemos) della Ionia.

     A capo Ténaro la visione dell’Abisso, l’apparizione del baratro, l’immagine del mare che si presenta come lo specchio della desolazione sono senza dubbio il frutto di una immaginazione: qui i Greci pensavano vi fosse la porta dell’Ade, l’ingresso del regno dei morti da dove Persefone era entrata per diventare la regina del mondo dei trapassati. Ed è certamente l’ambiente naturale che contribuisce a creare questa singolare allucinazione mitica.

     Perché affermiamo questo? Che caratteristiche ha l’ambiente naturale del territorio in cui si trova il capo Ténaro? Il territorio di cui il capo Ténaro (oggi capo Matapan) è l’estrema propaggine si chiama: penisola di Mani.

     La penisola di Mani, a sud del monte Taigeto, è sicuramente la regione più atipica di tutta la Grecia: è particolarmente brulla, selvaggia, solitaria,  orrida, e gli abitanti hanno innalzato (dall’XI al XIII secolo), specialmente sulle coste, innumerevoli torri difensive che rendono questo luogo molto affascinante sebbene poco rassicurante. Nel paesaggio della penisola di Mani è impresso – scrive chi l’ha descritta – l’abominio della desolazione e la viaggiatrice e il viaggiatore che l’attraversa predispone la mente e adegua l’occhio a cogliere nel mare – una volta raggiunta, a sud, la punta estrema del capo Ténaro – l’immagine dell’Abisso.

     Visitare la penisola di Mani è un’esperienza molto suggestiva che si può fare (virtualmente) in queste settimane di vacanza. La visita alla penisola di Mani si snoda in un itinerario che va dalla cittadina laconica di Gíthio (fondata dai Fenici e antico porto di Sparta) fino al capo Ténaro. La cittadina di Gíthio ci ricorda un fatto mitico – Erodoto ce lo suggerisce – e non possiamo fare a meno di citarlo. Situata di fronte al porto di Gíthio e, oggi, collegata alla terraferma da una diga carrabile c’è l’isola di Marathònissi (l’isola del finocchio selvatico) che nell’antichità si chiamava Kràne. Secondo i Racconti mitici su quest’isoletta si rifugiarono Paride ed Elena in fuga da Sparta, qui passarono la loro prima notte insieme, qui comincia e finisce la loro fatale e incendiaria luna di miele, una luna di miele casta perché i due amanti – narrano i Racconti mitici – stavano vicini tenendosi per mano ma erano troppo preoccupati per desiderare di amoreggiare. È interessante quindi viaggiare dalla cittadina laconica di Gíthio fino al capo Ténaro con l’ausilio dell’atlante, della guida della Grecia e navigando in rete.

     Noi, ora, possiamo occuparci solo di fare due cose: percorrere una tappa di questo itinerario e poi incontrare un libro pubblicato nel 1958 ma tradotto e stampato recentemente in Italia.

     I delfini, i nostri mitici traghettatori, approdano nella bella e riparata baia di Porto Kágio che nell’antichità si chiamava baia Apoikeia cioè la “baia della Migrazione”, questo luogo deve il suo nome moderno ai Veneziani che l’hanno ribattezzata, in modo affine, “porto delle Quaglie” per il gran numero di quaglie che vi si trovano durante la stagione migratoria. Da Porto Kágio, percorrendo 6 chilometri verso nord, camminando in salita, raggiungiamo Váthia che è uno dei tipici villaggi della penisola di Mani: semiabbandonato, irto di torri medioevali che affiancate l’una all’altra creano l’effetto di un’unica fortezza. Váthia è situata in una posizione straordinaria, sulla cima di un monte, e offre uno stupendo panorama sul capo Ténaro ed è in questo ambiente brullo, selvaggio, solitario, orrido, che la viaggiatrice, il viaggiatore, può misurarsi con la visione dell’Abisso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “abisso” (baratron nella lingua di Erodoto) richiama i termini: profondità, voragine, baratro, precipizio, burrone, dirupo, strapiombo, rovina, perdizione,  divario, distanza incolmabile…

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “abisso”? Vi siete mai trovate, trovati, sull’orlo del baratro, davanti all’abisso? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Un interessante supporto, per compiere il viaggio virtuale e per preparare il viaggio reale nella penisola di Mani, è il libro intitolato Mani. Viaggi nel Peloponneso pubblicato nel 1958 da Patrik Leigh Fermor. Patrik Leigh Fermor è nato nel 1915 a Londra e nel 1933 ha compiuto il suo primo grande viaggio a piedi da Londra a Istanbul che ha descritto nei suoi due primi libri. Grande studioso e amante della cultura ellenica nel 1942 si è offerto volontario (faceva parte di una squadra speciale) per essere paracadutato a Creta, che era stata occupata dall’esercito nazista. Non era propriamente una visita di piacere: travestito da pastore ha organizzato la resistenza sull’isola e, con un’azione avventurosa, ha diretto (alla testa di un piccolo gruppo di temerari) il rapimento del generale Kreipe, il comandate dell’esercito tedesco sull’isola. Dalla fine della guerra Leigh Fermor è vissuto prevalentemente a Kardamili, nel Peloponneso, in una casa che lui stesso ha progettato e costruito.

     E adesso leggiamo due pagine che fanno riferimento alla riflessione che questa sera abbiamo fatto su due concetti-cardine della Storia del Pensiero Umano: l’idea dell’Abisso e l’idea dell’abominio della desolazione. Queste due idee sono legate al tema delle Origini codificato nei grandi racconti mitici sulla creazione. Ed è proprio – come abbiamo studiato questa sera – la possibilità (innocua) della visione dell’Abisso e l’opportunità (faticosa ma seducente) di percepire il senso dell’abominio della desolazione che rendono affascinante un viaggio nel Mani.

LEGERE MULTUM….

Patrick Leigh Fermor, Mani. Viaggi nel Peloponneso (1958)

Sulla mappa la parte meridionale del Peloponneso sembra un dente deforme appena strappato dalla gengiva, con tre penisole protese a sud come scheggiate e cariate radici. Il rebbio (ciascuna delle punte di una forchetta) centrale è formato dalla catena del Taigeto, che, dalle colline pedemontane a nord nel cuore della Morea alla punta di Capo Matapan (Capo Ténaro) battuta dalle tempeste a sud, si allunga per un centinaio di miglia. Per circa metà della sua lunghezza – settantacinque miglia sul lato occidentale e quarantacinque sull’orientale, per una larghezza di cinquanta miglia – il Taigeto si spinge affusolandosi in mare. Questo è il Mani. Dato che la catena supera i 2400 metri nella parte centrale, calando a nord e a sud di balza in balza, queste distanze a volo d’uccello si possono tranquillamente raddoppiare e triplicare, e a volte, calcolando via terra, decuplicare. Come il Taigeto dell’entroterra divide la pianura messenica dalla laconica, il suo proseguimento, il Mani immerso nel mare, divide l’Egeo dallo Ionio, e il suo capo selvaggio, il Ténaro, l’ingresso nell’Ade degli antichi, è il punto più meridionale della Grecia continentale. Nulla se non il vuoto Mediterraneo, che s’inabissa a profondità enormi, giace tra questo sperone di roccia e le sabbie africane, e da questo punto l’immensa muraglia del Taigeto, le cui cime più alte sbarrano i confini settentrionali del Mani, innalza un nudo e arido inferno di roccia.

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     Insieme a Patrick Leigh Fermor – il quale rappresenta un modello esemplare di viaggiatore che (come Bruce Chatwin, suo grande amico) si muove quasi sempre a piedi – possiamo attraversare la penisola di Mani (verso cui ci ha indirizzato Erodoto). Se vogliamo giocare con le parole (come fa spesso Erodoto): Mani è un dito del Peloponneso, e noi sappiamo (basta guardare la carta geografica che la penisola del Peloponneso assomiglia a una mano con quattro dita ). Il Mani è una terra magnifica e strana che si distacca dal resto della Grecia per la sua natura aspra e allucinatoria e per la sua storica inaccessibilità.

     Leigh Fermor descrive i paesaggi del Mani – affascinanti e quasi lunari – facendone rivivere le storie, le leggende e i personaggi non solo dell’epoca greca antica ma anche dell’epoca bizantina, veneziana e turca. Leigh Fermor insegna alle lettrici e ai lettori a muoversi simultaneamente nel tempo e nello spazio trasmettendo un’idea: viaggiare e studiare sono due attività che procedono insieme, il viaggio è studio e lo studio è viaggio.

     Da capo Ténaro – sull’estrema punta della penisola di Mani – il mare mostra tanto la visione del Cielo riflesso in superficie quanto la visione del baratro che sprofonda nell’Abisso. Erodoto, ne Le Storie, utilizza centinaia di volte la parola “mare”, usando (come sappiamo) tre termini diversi. Erodoto utilizza il termine pélagos quando il mare fa pensare al Cielo, alla superficie navigabile, allo specchio della luce, del bene, della vita, dell’Immortalità. Uitilizza il termine talassa quando il mare fa pensare all’Abisso in cui si naufraga, al baratro delle tenebre, alla voragine del male, alla sede della morte. E usa il termine póntos quando il mare diventa la metafora di qualcosa che unisce, di qualcosa che facilita la comunicazione. I primi due termini – pélagos e talassa – nominano e rappresentano il mare come sede del contrasto mentre il termine póntos permette di riflettere sul fatto che, proprio in concomitanza con l’idea del contrasto, si tende a configurare il concetto dell’armonia.

     L’armonia nasce dai contrasti? Erodoto coltiva questa idea e la ribadisce nel testo de Le Storie, la sua convinzione deriva dal fatto che ha studiato, da adolescente, in una Scuola eraclitea e noi sappiamo che nel pensiero di Eraclito il tema dei “contrasti” risulta fondamentale e lo constateremo prossimamente. Il mare è il principale oggetto naturale che – dalle Origini – propone una grande ininterrotta rappresentazione che – dall’età degli albori – seduce e stimola l’attività riflessiva della persona. Il mare presenta e replica costantemente un grandioso spettacolo di danza: il mare fa ballare il corpo e la mente delle persone con i suoi innumerevoli ritmi contrastanti. Il mare, con la sua continua e contrastante mutevolezza, trascina l’intelletto dell’essere umano a produrre molti pensieri. Chi non è rimasto e chi non rimane affascinato dal mare?   

     Il mare (questo straordinario oggetto naturale di vitale importanza) ha ispirato a chi lo ha osservato e studiato (soprattutto alle poetesse e ai poeti lirici dell’Età assiale della storia) un’idea di fondamentale importanza in funzione della riflessione sul tema delle Origini. Il mare – allude Erodoto – ha introdotto nella Storia del Pensiero Umano un argomento di grande valore: quello della funzione essenziale che hanno i contrari nello sviluppo della vita. Erodoto, nel testo de Le Storie, allude costantemente al fatto che il mare è un paesaggio intellettuale depositario delle parole e delle idee utili per riflettere sul tema de l’armonia misteriosa dei contrari.

     Vorrei fare un inciso (ma lo avrete senz’altro già capito per conto vostro): la riflessione, a cui hanno dato vita le poetesse e i poeti lirici dell’Età assiale della storia – nell’ambito del movimento della sapienza poetica orfica – sul tema de l’armonia misteriosa dei contrari, costituisce l’inizio di una trafila intellettuale che conduce ad elaborare i concetti di tesi, di antitesi e di sintesi. Queste parole – tesi, antitesi e sintesi –, già appartenenti (come sappiamo) al vocabolario di Erodoto, ci ricordano che a primavera, probabilmente, dovremo rincontrare il giovane Hegel il quale ha utilizzato queste parole-chiave per elaborare un sistema (una dialettica) che descrive il funzionamento della realtà. Dobbiamo avere la consapevolezza (coscienza, autocoscienza e ragione sono tra gli argomenti de l’ultimo numero de L’ANTIbagno) della parabola culturale delle parole: tesi, antitesi e sintesi.

     Il mare – allude Erodoto – ha ispirato alle poetesse e ai poeti lirici orfici il tema de l’armonia misteriosa dei contrari e questo tema ha portato alla formulazione dei concetti di tesi, di antitesi e di sintesi. Per questo motivo Hegel nel testo della Fenomenologia dello Spirito allude al fatto che questi termini sono intrisi di cultura orfica. Il mare in quanto “pelagos” è lo specchio del Cielo: potrebbe essere la tesi. Il mare in quanto “talassa” è lo specchio dell’Abisso: potrebbe essere l’antitesi. Il mare in quanto “pontos” è lo specchio dell’Armonia: potrebbe essere la sintesi.

     Ma il mare, con la sua continua e contrastante mutevolezza, chi lo ferma? L’Armonia (il “pontos”) – come cantano le poetesse e i poeti lirici orfici – rimanda costantemente al Cielo (al “pelagos”) e il Cielo si misura incessantemente con l’Abisso (il “talassa”) e l’intelletto, utilizzando la forma poetica, mette in “armonia” il Cielo e l’Abisso con un “ponte” (con il mitico “delfino”) e così via in un eterno ritorno, ma ora stiamo andando troppo il là, in un territorio dove dovremo entrare a suo tempo. 

     Il linguaggio – allude Erodoto – è un gioco di specchi per il pensiero e la mente ha bisogno di specchi (di parole-chiave, di idee-cardine) per riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura. La parola “mare” è da considerarsi uno dei termini più significativi del catalogo della sapienza poetica orfica insieme alle parole: albero, poesia, perfezione, maschera, statua, prosopopea.

     Il mare viene considerato, per sua natura, – da principio, in origine – l’oggetto in cui i contrari si armonizzano, a cominciare dalla contraddizione (dall’aporia) più evidente: l’acqua del mare è salmastra e fa pensare alla morte, ma il mare pullula di vita. Il mare raccoglie tutte le acque e – allude Erodoto – dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose, e un dio detiene l’arché (il principio) di tutte le acque.

     L’acqua è il principio inafferrabile di tutte le cose ed è proprio per questo motivo che – allude Erodoto facendo tesoro della riflessione allegorica delle poetesse e dei poeti lirici dell’Età assiale della storia – le persone danno le spalle alla sicura terraferma per avventurarsi nel mare verso l’ignoto, rischiando il naufragio. Ma solo facendo così si può raggiungere un nuovo porto e incominciare un’altra navigazione del pensiero e poi un’altra, e poi un’altra ancora.

     Questo itinerario è l’ultimo dell’anno 2006 e la riflessione che abbiamo fatto questa sera indica la direzione che dobbiamo prendere nell’anno che verrà.

     La nave Sidonia, pilotata dal capitano Agenore, ha seguito la scia dei delfini ed è ormeggiata nel Porto Kágio in attesa di riprendere il mare (il pelago, il talassa, il ponto). Dopo aver visitato il Mani siamo di nuovo in partenza: dove andiamo? Dobbiamo far rotta verso est, dobbiamo doppiare le isole Cicladi, attraversare tutto il Mar Egeo e approdare sul continente asiatico in una polis che si chiama Mileto e che Erodoto, nel testo de Le Storie, cita ben cinquanta volte, ma noi dovremo andare oltre le citazioni di Erodoto. A Mileto ci aspetta – per festeggiare il nuovo anno – un personaggio che si chiama Talete e che Erodoto, nel testo de Le Storie, cita quattro volte.

     Abbiamo detto poc’anzi che: dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose, e un dio detiene l’arché (il principio) di tutte le acque. Talete condivide pienamente questo concetto e lo elabora. Questo concetto si sviluppa attraverso i filoni del movimento della sapienza poetica orfica: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza e, con Talete, la fisica. Dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose, e un dio detiene l’arché (il principio) di tutte le acque. In che modo Talete elabora questo concetto? Quale direzione prende il movimento della sapienza poetica orfica con Talete? Ci occuperemo di questi argomenti dopo le vacanze.

     Anche quest’anno siamo arrivati a Natale: il ventitreesimo natale della storia di questa esperienza didattica. E anche quest’anno la Scuola celebra questa festività e la celebra nell’ambito che è di sua competenza: in funzione della didattica della lettura e della scrittura. A Natale si fa il presepio e al centro del presepio c’è un bambino, c’è un bambino nato da poco in mezzo a qualche difficoltà.

     Abbiamo iniziato questo itinerario con Irène Némirovsky e con Irène Némirovsky vogliamo concludere. Vogliamo che sia Irène Némirovsky a “fare il presepio” attraverso la sua scrittura, attraverso una pagina del suo romanzo Suite francese.

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Irène Némirovsky, Suite francese  (1940-1942)

L’inverno precedente – il primo inverno di guerra – era stato lungo e duro. Ma che dire di quello del 1940-1941? Freddo e neve cominciarono già alla fine di novembre. Nevicava sulle case bombardate, sui ponti che venivano ricostruiti, sulle strade di Parigi dove non passavano più né automobili né autobus, dove camminavano donne impellicciate con cappucci di lana in testa e dove altre donne, in coda davanti ai negozi, battevano i denti. La neve cadeva sui binari della ferrovia, sui fili del telegrafo piegati e a volte spezzati sotto il suo peso, sulle uniformi verdi dei soldati tedeschi di sentinella davanti alle caserme, sulle bandiere rosse con la svastica che sventolavano in cima ai monumenti. Negli appartamenti gelidi la neve proiettava una luce livida e lugubre che accresceva la sensazione di freddo e di disagio. I vecchi e i bambini delle famiglie povere rimanevano a letto per settimane: solo in quel modo stavano un po’ al caldo.

A Natale il freddo si fece ancora più pungente; solo nei corridoi del mètro ci si sottraeva un po’ alla sua morsa. E la neve continuava a cadere inesorabilmente, lenta e tenace sugli alberi di boulevard Delessert dove i Péricand erano tornati ad abitare –perché appartenevano a quell’alta borghesia francese che preferisce vedere i propri figli privati di pane, di carne e di aria piuttosto che di diplomi, e non bisognava a nessun costo interrompere gli studi di Hubert, già tanto compromessi dagli eventi dell’estate precedente né quelli di Bernard, che era prossimo agli otto anni e si era dimenticato di tutto quello che aveva imparato prima dell’esodo, sicché la madre gli faceva recitare: «La Terra è una sfera che non poggia su niente» manco avesse sette anni invece che otto (che disastro!).

Fiocchi di neve si impigliavano nei veli da lutto della signora Péricand quando, superata fieramente la coda dei clienti davanti a un negozio, si fermava sulla porta sventolando come un vessillo la tessera rilasciata alle madri di famiglia numerosa che le dava diritto di precedenza.

Sotto la neve, Jeanne e Maurice Michaud aspettavano invece il loro turno, appoggiandosi l’uno all’altro come cavalli stanchi prima di rimettersi in cammino.

La campagna era bianca, immensa, muta; poi, per qualche giorno, la neve si scioglieva e i contadini tiravano un sospiro di sollievo «Fa bene al cuore vedere la terra» dicevano. Ma all’indomani nevicava di nuovo, nel cielo gracchiavano i corvi. «Ce ne sono tanti quest’anno» mormoravano i giovani pensando ai campi di battaglia, alle città bombardate, ma i vecchi rispondevano: «Non più del solito!». In campagna niente cambiava, si aspettava. Si aspettava la fine della guerra, la fine dell’assedio, il ritorno dei prigionieri, la fine dell’inverno.

«Non ci sarà primavera quest’anno» sospiravano le donne La neve era sparita ma la terra era grigia, dura, sonora come il ferro. Le patate gelavano, le bestie non avevano più foraggio, avrebbero già dovuto pascolare fuori, ma non era ancora spuntato un filo d’erba.

Alla fattoria dei Labarie i vecchi si tappavano in casa, dietro le grandi porte di legno che la notte venivano sprangate. La famiglia si riuniva intorno alla stufa e le donne lavoravano a maglia per i prigionieri senza scambiarsi una parola. Madeleine e Cécile tagliavano lenzuola vecchie per ricavarne camiciole e fasce: Madeleine aspettava un bambino. Quando un colpo di vento più forte degli altri scuoteva la porta le vecchie dicevano: «Gesù, Giuseppe e Maria, aiutateci voi!».

Nella fattoria vicina piangeva un bambinello nato poco prima di Natale e il cui padre era prigioniero. La madre aveva altri tre figli. Era una contadina lunga e magra, pudica, silenziosa, riservata, che non si lamentava mai. Quando qualcuno le diceva: «Come farete a cavarvela, Louise, senza un uomo in casa, con tutto questo lavoro, nessuno per aiutarla e quattro bambini?», lei sorrideva debolmente mentre gli occhi restavano freddi e tristi e rispondeva: «E che posso fare ?». La sera, appena i piccoli si addormentavano, la si vedeva comparire dai Labarie. Si sedeva con il suo lavoro a maglia vicinissimo alla porta in modo da sentire nel silenzio della notte le voci dei bambini, caso mai la chiamassero. Quando nessuno la guardava, alzava furtivamente gli occhi e osservava Madeleine con il suo giovane marito, senza invidia, senza malanimo, con muta tristezza, poi si affrettava ad abbassare lo sguardo sul lavoro e un quarto d’ora dopo si alzava, prendeva gli zoccoli e diceva sottovoce: «Ecco, adesso devo andare. Buonanotte a tutti», e tornava a casa sua. Lei non riusciva a prender sonno. Quasi tutte le sue notti le passava così, a cercare il sonno in quel letto freddo e vuoto. Aveva pensato di mettere a dormire con sé il maggiore dei figli, ma era stata trattenuta da una sorta di timore superstizioso: il posto doveva restare libero per l’assente.

Quella notte soffiava un vento rabbioso, una tempesta che dai monti del Morvan investiva il paese. «Ancora neve, domani» avevano detto i contadini. Nella grande casa silenziosa, che scricchiolava tutta come una nave alla deriva, la donna per la prima volta si lasciava andare, si abbandonava al pianto. Non lo aveva fatto quando il marito era stato richiamato nel ‘39, né quando se ne andava dopo qualche breve licenza, né quando aveva saputo che era stato fatto prigioniero, e neppure quando aveva partorito senza di lui.

Ma adesso era allo stremo: tutto quel lavoro il piccolino così esuberante che la sfiniva con la sua voracità e le sue grida la vacca che quasi non dava più latte per via del freddo le galline che non facevano più uova perché non avevano mangime a sufficienza, e il ghiaccio da spaccare al lavatoio Era troppo Non ne poteva più Era stremata, malata Non voleva neanche più vivere a che scopo vivere? Non avrebbe più rivisto suo marito, sentivano troppo la mancanza l’uno dell’altro, lui sarebbe morto in Germania. Che freddo in quel grande letto: prese lo scaldino di ceramica che aveva infilato fra le lenzuola due ore prima quando ancora scottava e che adesso non conservava più un briciolo di calore, lo posò adagio sulle piastrelle del pavimento e, nel ritrarre la mano, toccò per un istante le mattonelle gelate ed ebbe ancora più freddo, fin nel profondo del cuore. Era scossa dai singhiozzi. Che cosa si poteva dire per consolarla? «Non sei la sola…». Sì, lo sapeva, ma altre erano più fortunate Madeleine Labarie, per esempio Non le augurava del male, no Ma era troppo! C’era troppo dolore nel mondo. Il suo corpo magro era intirizzito. Aveva un bel rannicchiarsi sotto la coperta, sotto il piumino, ma era come se il freddo la penetrasse fin nelle ossa. «Passerà, » le dicevano «lui tornerà e la guerra finirà!». No! No! Non lo credeva più, sarebbe durata e durata

La terra era gelata, ghiacciata sin nel profondo, come lei. Che raffiche! Che furia! La tempesta avrebbe fatto sicuramente volar via delle tegole. Si mise a sedere nel letto, rimase in ascolto per un attimo e all’improvviso, sul volto afflitto e bagnato di lacrime, passò un’espressione più dolce, incredula. Il vento si era placato; nato chissà come, se n’era andato chissà dove. Nella sua furia cieca aveva spezzato rami, squassato tetti; aveva disperso le ultime tracce di neve sulla collina, e adesso da un cielo scuro e burrascoso cadeva la pioggia , ancora fredda ma impetuosa, fitta, e si apriva un varco sino alle radici nascoste degli alberi, sino al nero e profondo cuore della terra…

     Irène Némirovsky con la sua scrittura ha fatto “il presepio”. «Nella fattoria vicina piangeva un bambinello nato poco prima di Natale e il cui padre era prigioniero. La madre aveva altri tre figli. Era una contadina lunga e magra, pudica, silenziosa, riservata, che non si lamentava mai». Al centro del presepio – dal tempo degli albori – c’è un bambino, c’è un bambino nato da poco, in mezzo a qualche difficoltà: abbiamo già nominato in questo Percorso le partorienti (con la maschera di Latona) e le levatrici (con la maschera di Ilizia, che raffigura il concetto della maieutica).

     L’anno 2005 è stato un anno importante per la Cultura anche perché si sono celebrati in Europa e nel mondo i 400 anni (1605-2005) di Don Chisciotte de la Mancia e di Sancio Panza suo fedele scudiero: due figure che continuano ad evocare Dioniso e Orfeo. In Spagna, l’anno scorso, nel 2005, c’è stata una lettura pubblica quotidiana del romanzo di Cervantes: una pagina al giorno è stata letta e trasmessa da tutti i media e il re di Spagna (per dare l’esempio) ha dato inizio a questa lettura pubblica.

     L’anno 2006 sta per terminare: è stato un anno molto importante  per la didattica della lettura e della scrittura in Italia (lo avevamo annunciato a suo tempo nella prima lezione del gennaio 2006) perché ricorrono i 400 anni (1606-2006) della nascita (sul modello della figura di Marcolpho) del personaggio di Bertoldo creato da Giulio Cesare Croce nel 1606. Ora ci sono state grandi manifestazioni: cerimonie, convegni, tutti i giornali ne hanno scritto, tutte le radio e tutte le televisioni ne hanno parlato. Anche da noi un sedicente re, in galera (e non per motivi politici),  avrebbe potuto leggere Bertoldo: ma chissà se sa leggere?

     Sto scherzando: non è successo nulla di tutto questo come a suo tempo, non è successo nulla per i 2000 anni delle Metamorfosi di Ovidio, ed è preoccupante questa perdita di “memoria”! Quando riprenderemo il nostro Percorso dovremo ricordare, brevemente, questo avvenimento: è compito della Scuola commemorare in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Si ritorna a Scuola nell’anno 2007:

Alla Scuola “Redi”:  mercoledì 10 gennaio 

Alla Scuola “Levi”:  giovedì 11 gennaio …

Alla Scuola “Don Milani”:  venerdì 12 gennaio …

      e saremo a Mileto in compagnia di Erodoto che continua a viaggiare con noi.

     Ora, la nave Sidonia, al comando del capitano Agenore di Tiro, è appena uscita dalla bella baia di Porto Kágio, si allontana dalla penisola di Mani e inizia la sua navigazione verso est: si distacca dall’immagine dell’Abisso che ricopre le tenebre. Nella letteratura dei Vangeli – a proposito del Natale – riecheggiano espressioni orfiche: «Il popolo avvolto nelle tenebre ha visto una grande luce e i Magi hanno visto la luce della sua stella, in oriente …». Noi tutti siamo un po’ come i Magi: ognuno segue una stella, ognuno segue la stella che illumina la via della conoscenza. E la via della conoscenza è fatta di curiosità, di riflessione e di immaginazione.

     Non dimenticatevi – tra un festeggiamento e l’altro – di decorare anche l’albero genealogico lessicale che possiamo considerare l’albero del natale dell’intelletto e come scrive Dante Alighieri (parafrasando Tommaso d’Aquino) nel terzo canto dell’Inferno, facendo parlare Virgilio al quale ha domandato: ma dove mia hai portato? Virgilio risponde …

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Noi siam venuti al luogo ov’io l’ho detto

che tu vedrai le genti dolorose

 c’hanno perduto il ben dello intelletto”.

     È necessario lo studium per curare l’Intelletto, quindi buon Natale di studio a tutti: tanti auguri e un bacio fraterno …

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 15, 2006