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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA MITICA FIGURA DEL DELFINO …

Lezione N.: 
8

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006            1- 6 - 7 dicembre  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO 

SULLA MITICA FIGURA DEL DELFINO …

     Siamo entrati nell’ultimo mese di questo anno solare, il 2006, e tra due settimane andremo in vacanza, faremo una pausa di riflessione (le vacanze servono anche per questo) ma il nostro Percorso, sotto lo sguardo allusivo di Erodoto, continua e continuerà ancora nell’anno che verrà. In questi primi otto itinerari, viaggiando per il secondo anno scolastico consecutivo dentro al testo de Le Storie di Erodoto, abbiamo perfezionato la nostra conoscenza, in funzione della didattica della lettura e della scrittura (secondo la natura di questo Percorso didattico), su due argomenti, su due questioni intellettuali, su due temi fondamentali: il tema dell’albero genealogico lessicale e il tema della sapienza poetica orfica (gli studiosi di Erodoto oggi si occupano soprattutto di questi due temi che sono due argomenti di grande attualità).  

     L’albero genealogico lessicale, contenente le parole-chiave e le idee-cardine che costituiscono la struttura portante della nostra mente e del nostro pensiero, lo abbiamo ammirato, alla partenza presso l’antica Turi, sotto forma di una pianta maestosa (déndron è il termine greco che definisce l’albero nella sua forma naturale). L’albero genealogico lessicale, dopo la nostra partenza dall’antica Turi, ci ha accompagnato e ci accompagna nei nostri frequenti viaggi simboleggiato dall’albero maestro (istós è il termine greco che definisce l’albero nella sua forma metaforica, allegorica) della nave Sidonia e, ultimamente, dall’albero scenico del carro da viaggio, lo scené, che ci ha trasportati all’interno del territorio ellenico fino ad Ascra in Beozia, nella grande casa colonica di Esiodo, dove abbiamo sognato di partecipare ad una festosa cena contadina:  questa sera siamo qui per il dopocena.

    Sull’albero genealogico lessicale noi abbiamo imparato a riconoscere, disposte su vari piani, le parole più antiche, quattro coppie di parole, le cosiddette parole della memoria degli albori; poi abbiamo imparato a riconoscere le parole (una ventina, con quattro termini in evidenza) dell’Età assiale della storia. Questi cataloghi di parole occupano i primi piani dell’albero genealogico lessicale.

     Il testo de Le Storie di Erodoto ci ha insegnato inoltre, ci sta insegnando da circa un secolo, a riconoscere un nuovo ramo dell’albero genealogico lessicale che si sviluppa sul piano dell’Età assiale della storia. Questo nuovo ramo rappresenta un grande movimento culturale che è stato chiamato della “sapienza poetica”, che si sviluppa soprattutto sul territorio ellenico, prendendo il nome, così lo hanno chiamato gli studiosi, di “sapienza poetica orfica”. Il movimento della sapienza poetica orfica, lo ribadiamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura, secondo la natura di questo Percorso didattico, è alla base del Pensiero greco. Il movimento della sapienza poetica orfica crea i presupposti intellettuali su cui nascono e si sviluppano le discipline (l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia) che determinano il fiorire della civiltà greca. Noi conosciamo, nelle sue linee generali, il movimento della sapienza poetica orfica e soprattutto, sotto lo sguardo allusivo di Erodoto, abbiamo cominciato a catalogare le parole-chiave che emergono dal proficuo lavorìo intellettuale che si sviluppa all’interno di questa eterogenea corrente di pensiero nella quale, insieme ad una schiera di anonimi poeti (ai quali la tradizione ha dato nomi mitici: Orfeo, Museo, Lino, Tamiri, Olimpo, Dioniso …), troviamo, come ci suggerisce il testo de Le Storie di Erodoto, i nomi di Omero (anche il nome di Omero è un nome mitico) e di Esiodo.

     La Storia della Letteratura, nel suo codificare le cose (dai grammatici alessandrini in avanti), indica le opere di Omero e di Esiodo come sapienza poetica orfica di genere epico-lirico (la letteratura che chiamiamo comunemente: l’epica). Nella complessa evoluzione del movimento della sapienza poetica orfica il termine epos, che in origine significa racconto, definisce (dal X al VII secolo a.C.) l’insieme delle canzoni (cantate con l’accompagnamento di uno strumento: di qui, in origine, il termine liricos) che hanno come argomento le gesta degli dèi e degli eroi. Successivamente (dal VII al V secolo a.C.) il fattore epico (l’epopea, lo spirito eroico) decade e prevale l’elemento lirico che si distingue per aver dato al componimento poetico un carattere sentimentale, erotico, nostalgico, malinconico, e anche politico e religioso. Le ragioni per cui prevale la lirica dipendono dal fatto che, con il tramonto delle monarchie patriarcali e il prevalere della polis, nasce una nuova riflessione più profonda di carattere politico (sul valore della democrazia), di carattere civile (sul valore delle leggi) e di carattere religioso (sulla teologia orfica improntata all’etica). La produzione lirica, nello sviluppo del movimento della sapienza poetica orfica, è stata abbondantissima, purtroppo è andata quasi tutta perduta. I frammenti che noi possediamo (per fortuna è un corpus abbastanza significativo) sono stati conservati nelle citazioni dei grammatici alessandrini.

     Nel secolo scorso, per fortuna, interessanti scoperte sono state fatte traducendo i papiri egizi. Ricordo, a questo proposito che, il penultimo numero, il n.13, de la rivista L’ANTIbagno riporta la notizia dell’ultimo ritrovamento importante: l’ultimo canto della poetessa Saffo che noi conosciamo bene perché ultimamente l’abbiamo incontrata in tutti i Percorsi che abbiamo fatto. Per secoli l’ultimo canto di Saffo è rimasto su un rotolo di papiro che copriva la fasciatura di una mummia egizia, poi per alcuni decenni è stato custodito, senza che nessuno se ne accorgesse, negli archivi dell’Università di Colonia; finalmente, nel mese di giugno dell’anno 2005, gli ultimi dodici versi di Saffo sono stati pubblicati. Questa lirica esprime una riflessione sulla vecchiaia e cita il mito di Titone, lo sposo di Aurora. Aurora chiede ed ottiene che Titone diventi immortale ma, presa dall’entusiasmo, si dimentica di chiedere che lo sposo conservi l’età che ha, l’età giovanile; Titone diventa immortale ma è condannato a continuare ad invecchiare in eterno, e i risultati ce li possiamo immaginare: mentre Aurora, ogni mattina, ricompare con la sua giovinezza, Titone si sveglia sempre più decrepito. Forse questi (ultimi) versi di Saffo sono quelli che, secondo la leggenda, il legislatore ateniese Solone (poeta lirico lui stesso) avrebbe voluto imparare prima di morire, per conservare sempre nella memoria le parole della poetessa che più amava e di cui stimava l’affascinante galanteria.

     Leggiamo questi versi, leggiamo questo frammento di poesia lirica:

LEGERE MULTUM….

Saffo,  L’ultimo canto (VI secolo a.C.)

Il mio corpo ora è vecchio,

i miei capelli si son mutati (in bianchi) laddove erano scuri.

Il mio cuore è cresciuto pesante,

le mie ginocchia non mi sostengono, loro che una volta erano agili

per la danza come quelle dei cerbiatti.

Questa condizione io stessa lamento, ma che fare?

Per un essere umano non c’è modo di non invecchiare.

Una volta Titone, racconta la leggenda,

di Aurora incoronata di rosa follemente innamorato

sfuggì alla fine del mondo bello e giovane allora

tuttavia nel tempo dell’età grigia fu preso,

lui sposo di una moglie immortale.

     L’elenco dei poeti lirici, che la Storia della Letteratura greca ci propone, è lungo. In questo elenco troviamo i nomi di Callino e di Mimnermo (che abbiamo già incontrato lo scorso anno occupandoci della formazione intellettuale di Erodoto), troviamo i nomi di Tirteo e di Solone (il grande legislatore, ammiratore di Saffo), troviamo i nomi di Focilide, di Teognide e di Senofane (che incontreremo ancora, strada facendo quando faremo tappa ad Elea). In questo elenco troviamo i nomi di Archiloco, di Ipponatte, di Simonide di Samo (detto l’Amorgìno, appartenente alla Scuola dell’isola di Samo di cui abbiamo studiato, nelle sue linee generali, il Manifesto: in questa Scuola ha studiato anche Erodoto). In questo elenco troviamo i nomi di Alceo, di Saffo e di Anacreonte, troviamo i nomi di Terprando, di Alcmane, di Arione, di Stesicoro, di Ibico; e poi ancora i nomi di Simonide di Ceo, di Bacchilide, di Mirtide e di Corinna (due poetesse della Beozia) e infine il nome di Pindaro (colui che viene considerato il più importante poeta dell’antichità, citato da Erodoto e incontrato nei nostri Percorsi più di una volta: anche lo scorso anno). Voi capite che se dovessimo occuparci di tutti questi personaggi dovremmo partire per attraversare un nuovo vasto territorio e il nostro viaggio durerebbe un anno intero (come minimo).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se sei attratto da un nome tu puoi andare a “fare ricerca” utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca casalinga o pubblica, e la rete…

     Qualcuna di queste poetesse e di questi poeti, autrici e autori di poesia lirica, già li conosciamo; questa sera dobbiamo incontrare un personaggio, che non abbiamo mai avuto l’occasione di avvicinare, il cui nome compare nel catalogo delle protagoniste e dei protagonisti dell’eterogeneo movimento culturale della sapienza poetica orfica. Prima di incontrare questo personaggio, il cui nome teniamo in sospeso dalla scorsa settimana, facciamo il punto della situazione in funzione dell’albero genealogico lessicale.

     Quali parole-chiave e quali idee-cardine fioriscono sul ramo dell’albero genealogico lessicale che è stato chiamato della “sapienza poetica orfica”?  Le prime due parole emergenti sono le più potenti perché sono direttamente collegate al tema delle Origini, e sono la parola “poesia” e la parola “perfezione”. Poi, in relazione a questi due termini originari, abbiamo incontrato le parole: albero, maschera, statua, prosopopea, Inoltre, sotto il patrocinio di Omero, troviamo le  parole: emozione, ira, onore. E poi, sotto la tutela di Esiodo, emergono le parole: dolore, lavoro, giustizia.

     Le poetesse e i poeti lirici, di cui conosciamo la lista dei nomi, hanno fatte proprie tutte le parole di questo catalogo. Le poetesse e i poeti lirici ci tengono ad aggiungere solo una parola in più: la parola delfino, e questa aggiunta è in funzione della riflessione alla quale ci dobbiamo dedicare. Il movimento della sapienza poetica orfica ci propone (per ora) una serie di parole che oggi hanno un posto significativo nella nostra mente, nei nostri pensieri.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Comincia a riflettere sul significato e sul valore (per te, oggi … ) di queste parole-chiave perché – a fine Percorso – saremo invitati a scegliere, per dare una “forma” al nostro “intelletto collettivo”: una “forma” (“In principio è la forma”, ci ricorda Erodoto… ) sulla quale potremo riflettere ulteriormente (La Scuola deve educare a “pensare”, deve insegnare a “mettere in ordine il catalogo dei nostri pensieri”)…

     E ora andiamo ad incontrare il personaggio, che non abbiamo mai avuto l’occasione di avvicinare, il cui nome compare nel catalogo delle poetesse e dei poeti lirici che abbiamo letto poc’anzi. Questo personaggio si chiama Arione di Metimna.

     Chi è Arione di Metimna e perché andiamo ad incontrare proprio lui? Arione di Metimna è nato sull’isola di Lesbo nella seconda metà del VII secolo a.C. Mtimna è, dopo Mitilene che ha dato i natali alla poetessa Saffo, la cittadina più importante dell’isola di Lesbo;si trova a nord, ed è utile dare un’occhiata all’atlante e andare a leggere la guida della Grecia: ci sono delle belle spiagge davanti a Metimna e un poderoso castello sovrasta questa cittadina: sapete chi l’ha costruito? Andate a fare una piccola ricerca. Arione di Metimna è un poeta specializzato nel genere della lirica corale. Il fondatore della Scuola della lirica corale è Terpandro di Lesbo vissuto nella prima metà del VII secolo a.C. (il suo nome è nella lista) e Arione è, molto probabilmente, un suo discepolo. La lirica corale esprime il sentimento della collettività ed è una poesia creata per essere cantata dai cori e accompagnata da strumenti musicali (flauti, lire, cetre, strumenti a percussione) e dalla danza. La poesia lirica corale viene composta per le feste, civili e religiose (gli Inni), viene composta per la celebrazione dei giochi, per le processioni in onore di Dioniso (i Ditirambi), per i matrimoni (gli Epitalami), per i riti d’iniziazione dei fanciulli e delle fanciulle (i Partenii), viene composta per far risaltare la gioia e l’allegria dei banchetti, delle riunioni conviviali (gli Scolii). La lirica corale è stata scritta soprattutto in dialetto dorico ed è più complessa, come costrutto, rispetto alla poesia lirica in genere.

     Terpandro di Lesbo, il fondatore della Scuola di lirica corale, è un figura importante per il movimento della sapienza poetica orfica, perché ha riformato la musica citaredica costruendo un nuovo strumento, l’eptacordo (una cetra con sette corde che sostituisce il tetracordo, cetra con quattro corde) che rende l’armonia più ricca e più complessa. Terpandro da Lesbo emigra a Sparta dove fonda (con una sovvenzione statale) una Scuola che diffonde la poesia corale nel Peloponneso. Terpandro scrive una raccolta di Canti liturgici (in onore di Dioniso) che s’intitola Nomoi, che significa “regole”, e difatti questo testo poetico contiene una serie di norme musicali per comporre la poesia corale: di quest’opera rimangono alcuni frammenti incompleti.

     Arione di Metimna è il continuatore della Scuola lirica corale di Terpandro ed è l’autore di un’opera che s’intitola Ditirambi (Canti liturgici in onore di Dioniso). Arione di Metimna è stato il primo scrittore a dare una vera forma letteraria alla lirica corale. Il ditirambo è un tipo di verso, una forma poetica particolare, dal quale si sviluppa il genere letterario della tragedia. Arione di Metimna viene chiamato a Corinto, viene scritturato dalle autorità (con un contratto molto vantaggioso) per organizzare, nell’ambito dei culti orfici, il rito (che veniva celebrato annualmente) della nascita, della comparsa, di Dioniso. Questo rito veniva celebrato nelle campagne dopo il periodo della vendemmia: con il vino novello compare Dioniso e inizia l’anno liturgico. La polis di Corinto vuole uscire dal provincialismo e desidera che si dia a questo rito un tocco di classe. Arione di Metimna viene incaricato di progettare una nuova scenografia per la processione dionisiaca e lui crea un carro (un grande scené) a forma di barca per ribadire il fatto che Dioniso viene dal mare. La barca di Dioniso ha un albero maestro: l’albero, sul carro di Dioniso, serve come elemento di sostegno della scenografia. La scenografia tradizionale prevede che sull’albero del carro di Dioniso, portato in processione, venissero attaccati i falli (modellati nella creta) come simbolo di fecondità. Arione di Metimna sostituisce i falli (che erano piuttosto oggetti di cattivo gusto) facendo esporre, sull’albero della barca di Dioniso, i delfini (sempre modellati nella creta). I delfini sono considerati figli di Poseidone (di Nettuno), il dio del mare, e rappresentano il concetto della fecondità nel senso dell’immortalità. Il delfino (delfis) abita il mare, ma è un mammifero ed è il primo modello da cui la fantasia umana parte per dar vita al personaggio mitico della sirena. Il delfino è la figura che rappresenta il mediatore (il rapsodo, il sarto: colui che ricuce la distanza) tra l’umano e il divino.

     Arione di Metimna elimina dal rito dionisiaco il sacrificio di un animale (il caprone, il tragòs) tipicamente terrestre e lo sostituisce con una rappresentazione tenuta sotto una scenografia dove dominano i delfini: esseri che, con il loro modo di muoversi e di procedere saltando, colmano il distacco tra il mare, il cielo e la terra. La processione in onore della nascita di Dioniso si chiude quando il carro a forma di barca diventa un palcoscenico su cui l’attore, con la maschera di un caprone (tragòs) sul volto (o anche di un serpente), recita episodi del mito di Dioniso accompagnato dal coro che, sotto l’albero dei delfini, fa eco in modo sempre più preponderante. Questa struttura scenica, prima di Tespi, è il modello su cui si sviluppa il genere letterario della tragedia. Arione di Metimna compone, per la celebrazione dei culti orfici, per i riti di Dioniso, una raccolta di canti lirici corali che prendono il nome di ditirambi corinziaci.

     Il termine delfino, delfis in greco, fa correre la nostra mente al famoso santuario che, in questi anni abbiamo visitato più volte: il santuario di Delfi. Questa località è posta in splendida posizione, ai piedi del monte Parnaso sui rilievi della Fòcide, e non è molto distante dal luogo in cui virtualmente ci troviamo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se tu non l’avessi ancora fatto – con l’enciclopedia, con la guida della Grecia o sulla rete – puoi fare una vista a Delfi…

     Adesso è necessario puntare l’attenzione su un particolare di fondamentale importanza. In origine questo luogo era consacrato alla dèa Ghè (la Terra) ed era venerato per l’abbondanza delle acque: il santuario corrispondeva ad una fonte, una fonte sede della dèa Themis, figlia di Ghé (témenos è il bosco sacro). A guardia della fonte c’era il figlio della dèa Ghè il cui nome è Pitone che aveva la forma di un serpente (in greco il termine pitoς -pitòs significa sacca, sacco, contenitore flessibile: il Pitone è un grosso sacco). Un famoso Inno orfico attribuito ad Omero racconta che Latona (ve la ricordate Latona perseguitata da Era per essere stata fecondata da Zeus?), dopo aver partorito i gemelli Apollo e Artemide deve fuggire da Delo, l’isola natante, e si rifugia nel bosco sacro della dèa Ghé, nella Fòcide, alle pendici del monte Parnaso. Lì Latona e i suoi figli vengono aggrediti da Pitone ma Apollo (fortissimo fin dalla nascita) uccide il serpente e, sotto forma di delfino, s’impadronisce della fonte oracolare che da quel momento si chiamerà Delfi. Ma la dèa Era, sempre più assetata di vendetta, guida lo spirito (infernale) di Pitone contro Apollo delfino il quale deve fuggire. Apollo delfino attraverso la rete dei numerosi corsi d’acqua raggiunge il mare e nuota fino all’isola di Creta, dove, saltando tra le onde, appare ai marinai di Cnosso, li invita ad unirsi a lui: con loro sbarca nella Fòcide e prende possesso definitivamente del santuario e nomina i Cretesi sacerdoti. Tra di essi c’è anche una donna nella quale s’incarna lo spirito di Pitone, che continuava a vagare in quel luogo: questa donna prende il nome di Pizia (colei che governa lo spirito di Pitone) e diventa il primo oracolo (il primo mediatore tra il dio e gli esseri umani) del santuario. Artemide, la gemella di Apollo, prende le sembianze della dèa Themis e così (secondo i Racconti sulle origini) i figli di Latona diventano padroni anche di questo santuario: Artemide del bosco sacro, e Apollo, soprannominato delfico e pitico, dell’Oracolo. La figura del delfino (e della sirena) è di grande rilevanza nello sviluppo del movimento della sapienza poetica orfica in funzione lirica.

     I Ditirambi di Arione di Metimna è un’opera che, all’epoca, alla fine del VII secolo, ha avuto un grande successo di pubblico che gli procura molta soddisfazione (anche economica). Dei famosi Ditirambi di Arione di Metimna rimane un solo frammento che è stato tramandato dal più importante dei suoi discepoli: Pràtina di Fliunte. Pràtina di Fliunte è l’iniziatore del genere letterario del dramma satiresco: sembra ne abbia scritti trentadue ma dei suoi testi rimane solo una decina di frammenti; in uno di questi frammenti gli studiosi hanno rinvenuto una citazione dai Ditirambi di Arione di Metimna che Pràtina di Fliunte considera il suo maestro. Il frammento di Arione di Metimna, citato e tramandato da Pràtina di Fliunte, si compone di due versi che, nonostante qualche lacuna, sono perfettamente comprensibili e l’idea che veicolano è chiara: Arione di Metimna, riformando il rito dionisiaco, introduce, nel movimento della sapienza poetica orfica, una riflessione che sposta l’interesse dal tema della fecondità a quello dell’immortalità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

Il termine “immortalità” a quale parola lo accosteresti: la memoria, la fede, la natura, il genio, la fantasia ?  Scrivi quattro righe in proposito, ma basta anche una parola sola

     Nel VII secolo a.C. l’argomento dell’immortalità diventa centrale per l’Orfismo (come per tutte le culture dell’Età assiale). Leggiamo il frammento di Arione di Metimna:

LEGERE MULTUM….

Arione di Metimna, Frammento dai Ditirambi (VII sec. a.C)

(Salta) gioioso il delfino tra l’onde

prediletto del dìo (Poseidone)

che tra le Nereidi vive in eterno.

Il delfino è rapsodo (è sarto, è mediatore)

nel mare (quando è) portatore di morte

nel mare (quando è) dispensatore d’immortalità

     Attenzione: quei due “(quando è)” posti tra parentesi vanno sostituiti con due parole greche, ma questa operazione la completeremo nel prossimo itinerario: dobbiamo procedere con ordine e navigare con perizia…

     Le parole dell’ultimo verso del frammento di Arione non dovrebbero essere sconosciute alle nostre orecchie: dove le abbiamo già sentite, parole simili, la scorsa settimana? A proposito, siete andate, siete andati, a svolgere l’indagine consigliata dal repertorio della scorsa settimana: avete scoperto chi è Lighea? Parole simili alle parole dell’ultimo verso dell’unico frammento di Arione di Metimna le abbiamo lette (la scorsa settimana) nel racconto intitolato Lighea scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e pronunciate da uno dei protagonisti: il senatore Rosario La Ciura. Non c’è da meravigliarsi: il racconto Lighea di Tomasi di Lampedusa è intriso di cultura orfica ed è quindi un fatto normale che lo scrittore siciliano (un grecista agguerrito) faccia pronunciare al senatore La Ciura, grande ellenista, parole simili all’ultimo verso dell’unico frammento di Arione di Metimna. Il senatore Rosario La Ciura, quando parla, cita le parole-chiave e sviluppa le idee-cardine della “sapienza poetica orfica”: «Saranno pericolosi – fa dire Giuseppe Tomasi di Lampedusa al senatore La Ciura – come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità».

     A questo punto interviene Erodoto, che ci tiene particolarmente a svolgere il proprio ruolo di esegeta e a rivelarci gli sviluppi narrativi di questo famoso verso. Vi ricordate dove ci troviamo? Siamo ospiti a casa di Esiodo ad Ascra, nella regione della Beozia. La casa di Esiodo è una grande casa colonica (secondo la tradizione contadina) e lì abbiamo trovato posto tutti. La comunità rurale di Ascra (secondo l’ospitalità contadina) ha preparato una bella cena con il menù tipico delle battiture, delle vendemmie, delle fienagioni, delle frangiture. Ed ora la cena (che dura dalla scorsa settimana) è terminata e il dopocena è arrivato e noi sappiamo che Erodoto ha promesso di raccontarci uno dei suoi straordinari racconti allegorici. I racconti allegorici di Erodoto sono tutti intrisi di cultura orfica, tutti impregnati di sapienza poetica. Naturalmente il racconto di Erodoto ha come protagonista il famoso citaredo Arione di Metimna.

     Il racconto di Erodoto, che troviamo nei capitoli 23 e 24 del libro I de Le Storie, arricchisce la riflessione che stiamo facendo e ci svela che nella vita di Arione c’è anche un aspetto mitico…

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  23 24

Periandro, colui che comunicò a Trasibulo il vaticinio, era figlio di Cipselo ed era signore di Corinto.

Durante la sua vita, dicono i Corinzi (e con loro sono d’accordo i cittadini di Lesbo), gli capitò di assistere a un fatto straordinario e meraviglioso: Arione di Metimna (Nell’isola di Lesbo, la seconda città, per importanza, dopo Mitilene) trasportato al capo Ténaro (L’odierno capo Matapan, all’estremità meridionale della Laconia) sulla groppa di un delfino. Era un citaredo secondo a nessuno di quelli del suo tempo e primo degli uomini, a nostra conoscenza, che compose ditirambi (Canti corali in onore di Dioniso), diede ad essi il nome e li fece eseguire a Corinto.

Questo Arione, dicono, che passava la maggior parte del tempo presso Periandro, fu preso dal desiderio di prendere il mare e di far vela verso l’Italia e la Sicilia; e, dopo aver accumulato grandi ricchezze, volle tornare di nuovo a Corinto.

Partì, dunque, da Taranto e, siccome non si fidava di nessuno più che dei Corinzi, noleggiò, appunto, un battello di cittadini di Corinto. Questi, però, quando furono in alto mare, tramarono di gettare ai pesci Arione e impadronirsi delle sue ricchezze.

Egli, accortosi del malvagio proposito, si diede a scongiurarli, offrendo i suoi tesori, ma chiedendo salva la vita.

Non riuscì tuttavia con tale mezzo a convincerli; anzi, i marinai gli imposero o di darsi egli stesso la morte, per poter avere sepoltura in terra (Si attribuiva alla sepoltura molta importanza, si credeva – credenza orfica – che le anime degli insepolti non potessero trovar pace nell’al di là) o di gettarsi in mare al più presto.

Messo in tal modo alle strette, Arione chiese che, se proprio così avevano deciso, gli permettessero almeno di cantare per l’ultima volta, sotto l’albero maestro, ritto fra i banchi dei rematori, con tutta la pompa dei suoi ornamenti: prometteva che, dopo aver cantato, si sarebbe dato la morte; ed essi, che erano allettati dal piacere di poter ascoltare il miglior cantore che ci fosse fra gli uomini, si ritirarono dalla poppa verso il centro della nave.

Arione, quindi, indossati tutti i suoi paramenti e presa in mano la cetra, sotto l’albero maestro, ritto tra i banchi dei rematori, eseguì, dal principio alla fine, il “nomo ortio” (Era un inno liturgico, a struttura rigidamente regolare e a tono elevato; di solito accompagnato dal flauto, ma da Arione eseguito con la cetra); alla fine del canto, così come stava, con tutti i vestiti, si gettò in mare.

I marinai fecero vela verso Corinto; quanto ad Arione, dicono che un delfino, presolo sul dorso, lo portò nuotando sulla superficie del mare al promontorio Ténaro; qui sceso a terra, si diresse a Corinto abbigliato com’era; e, giunto colà, spiegò tutto l’accaduto.

Periandro, dicono, piuttosto incredulo, tenne Arione sotto sorveglianza, senza lasciarlo andare in alcun luogo; intanto aspettava con impazienza l’arrivo dei marinai: quando questi furono arrivati, chiamatili al suo cospetto, chiese loro se avevano qualche notizia di Arione da riferirgli. E mentre quelli lo assicuravano che era sano e salvo in Italia e lo avevano lasciato in buone condizioni a Taranto, comparve loro davanti Arione, vestito come quando aveva spiccato il salto in mare; di modo che essi, sbigottiti, non ebbero più modo, colti in fallo, di negare l’accaduto.            

Questo è quanto raccontano Corinzi e Lesbi; ed esiste, in verità, al capo Ténaro (In un tempio di Posidone, dove lo vide anche Pausania nel II secolo d.C.) un ex-voto d’Arione, di modeste proporzioni, che rappresenta un uomo sulla groppa di un delfino che nuota sulla superficie del mare (Arione a cavallo di un delfino si trova raffigurato anche su delle monete di Metimna, nell’isola di Lesbo)…

     La vita di Arione di Metimna è contrassegnata da questo episodio leggendario che conferma una metafora di carattere orfico: la figura della persona sulla groppa del delfino rappresenta l’idea dell’immortalità, ed Erodoto ce lo spiega con il suo stile allusivo (anche questo brano, così come il frammento di Arione di Metimna, nel prossimo itinerario lo riprenderemo in considerazione per osservare da vicino una significativa parola-chiave: dobbiamo procedere con ordine, e navigare con perizia).

     Adesso sulla scia del capitolo che abbiamo letto dobbiamo domandarci: che riflessioni sviluppa la sapienza poetica orfica sull’immortalità? Il concetto dell’immortalità, per i Greci di cultura orfica, non corrisponde tanto all’idea di vivere in eterno all’infinito in un infinito futuro ma corrisponde piuttosto all’idea di salvarsi la vita nel presente (per la cultura orfica l’infinito è la somma di tanti punti, di segmenti, di frammenti, finiti in se stessi), di poter passare indenni attraverso i tre regni: la Terra (la materia solida), il Mare (la materia liquida), il Cielo (la materia eterea). Il delfino è il simbolo dell’immortalità perché scende indenne negli abissi liquidi (nei Racconti sulle origini, in principio c’è sempre “l’abisso” e ci sono sempre “le acque”), fende l’aria eterea con la sua danza nel cielo, e nuota fino a giungere in prossimità della riva, fino a toccare, con il proprio corpo, la terra solida.

     I racconti allegorici di Erodoto, come questo che abbiamo letto, sono tutti intrisi di cultura orfica, tutti impregnati di sapienza poetica. In che modo Erodoto è legato alla cultura orfica? L’opera di Erodoto è legata alla cultura orfica soprattutto perché esprime una profonda, penetrante, immensa tragicità. Il racconto che ha come protagonista Arione di Metimna è, per il contenuto, il canovaccio di una tragedia (ricorda Euripide con tanto di deus ex machina). La presenza della figura del delfino rimanda alla forma primordiale del genere letterario della tragedia (la processione in onore della nascita di Dioniso con il carro a forma di barca al cui albero maestro sono appesi i delfini) di cui Arione è stato uno dei creatori.

     La sapienza poetica orfica si esprime attraverso l’epica, attraverso la lirica, attraverso la tragedia ed Erodoto ne Le Storie allude a questo passaggio. Il brano che abbiamo letto è esemplare in questo senso: l’epica, la lirica, la tragedia s’incontrano con la storia. Erodoto, lo abbiamo studiato lo scorso ann, è contemporaneo dei massimi scrittori tragici greci: di Eschilo, di Sofocle (di cui probabilmente è amico fraterno) e di Euripide (di cui forse è stato rivale nella polemica intellettuale). L’epoca di Erodoto è il periodo d’oro del teatro, e il teatro (lo abbiamo studiato) è pervaso dallo spirito dei misteri religiosi, dei riti popolari, dei culti di Dioniso: il teatro è la fucina maggiore, è il laboratorio più grande, in cui si sviluppa la sapienza poetica greca. Tutto ciò influisce sulla formazione culturale di Erodoto e sul suo modo di scrivere.

     Erodoto ci mostra la storia del mondo attraverso i destini dei singoli individui, e nei suoi racconti allegorici (epici, lirici, tragici, intrisi di cultura orfica), si narra, sebbene in modo metaforico, la storia dell’umanità perché è sempre presente l’individuo concreto, la singola persona con un nome preciso. Non importa se quella persona è vera: importa che sia verosimile, in modo che il maggior numero di ascoltatrici, di ascoltatori, di lettrici, di lettori, si possa immedesimare con lei. La persona è sempre al centro: grande o mediocre, generosa o crudele, vittoriosa o infelice che sia. Con nomi diversi e in altri contesti ne Le Storie di Erodoto ritroviamo i personaggi tragici, e orfici, per eccellenza: Antigone, Medea, Cassandra, Clitemnestra, lo Spirito di Dario e di Egisto. In Erodoto il mito si mescola alla realtà, le leggende si mescolano ai fatti: il brano che abbiamo letto, e che ha come protagonista Arione di Metimna, è esemplare.

     Erodoto cerca di tenere separati i due ordini di cose (il mito dalla realtà, le leggende dai fatti) senza trascurare nessuno dei due, ma senza stabilire gerarchie. Erodoto sa quanto il modo di pensare e le decisioni di una persona dipendano dalle convinzioni, dai sogni, dalle paure, dalle premonizioni che ha nella mente. Erodoto sa che una visione apparsa in sogno a un re può decidere il destino di uno Stato e di milioni di sudditi. Erodoto sa quanto la persona sia debole e indifesa di fronte al terrore creato dalla sua stessa immaginazione. Con queste convinzioni Erodoto si propone come obiettivo quello di tramandare la storia del mondo distinguendo ciò che è “mitico” da ciò che è “verosimile”. Nessuno l’aveva mai fatto prima di lui: è il primo ad avere un’idea del genere, ma di questa idea, Erodoto, è debitore nei confronti dell’evoluzione della sapienza poetica orfica (l’epica, la lirica, la tragedia, la storia) di cui ha potuto nutrirsi. Erodoto raccoglie senza sosta materiali per la sua opera, e interroga testimoni, aedi e sacerdoti, e scopre che ognuno di essi ricorda cose diverse e in modo diverso.

     Inoltre, 2500 anni prima di noi scopre una particolare e fondamentale caratteristica della memoria, vale a dire che le persone ricordano non quanto è realmente accaduto, ma ricordano ciò che vogliono ricordare. Ogni persona vede la realtà a modo suo, ogni persona vi aggiunge i propri ingredienti e questo rende impossibile ricostruire il passato nella sua verità storica: tutto quello che possiamo ottenerne sono varianti più o meno verosimili, più o meno rispondenti alla nostra mentalità odierna.

     Il passato, allude Erodoto, non esiste in modo oggettivo: esistono solo le sue infinite versioni.

     Il passato, allude Erodoto, è finto.

     I Racconti sulle origini, allude Erodoto, sono finti, ma esistono: sono i Racconti (Logoi) stessi a rappresentare la forma delle Origini non tanto con la loro valenza di verità storica, ma con il loro bagaglio di simbologia allegorica che li rende verosimili.

     Il passato, allude Erodoto, non ci tramanda la verità, ma ci trasmette i termini (parole e idee) di una riflessione sulla difficoltà a stabilire la verità. Non è facile coltivare questo pensiero ai tempi di Erodoto (ma non è facile neppure  oggi in cui c’è la tv a stabilire la “verità”, e a fare, come scrive Popper, da “manganello mediatico”).

     Erodoto è consapevole di questa difficoltà, ma non si arrende, prosegue le sue indagini (istorie) e, su ogni fatto, cita diverse opinioni, oppure le respinge tutte in quanto assurde e contrarie al buon senso. Erodoto non registra passivamente, ma partecipa attivamente alla creazione di quella significativa arte che è la storia.

     Che cos’è, allude Erodoto, la Storia? La Storia, allude Erodoto, è anche l’arte di operare una continua mediazione per distinguere i miti (spesso cristallizzati nella mente delle persone) dai fatti (di cui esistono infinite versioni). Le definizioni che riguardano la Storia (che continuiamo ad incontrare nel testo dell’opera di Erodoto) devono servirci per riflettere e per far crescere il catalogo dei nostri pensieri.

     A proposito: sulla parola “mediazione” (omologia) siamo invitati subito a riflettere. Erodoto nei suoi viaggi ha potuto contare sulla figura del pròsseno. Viaggiare, nell’antichità, non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo personaggio: il pròsseno, o amico dell’ospite. Il pròsseno era una specie di console che, gratuitamente o dietro un piccolo compenso, si occupava dei viaggiatori provenienti dalla sua stessa città d’origine. Il pròsseno era una persona ben inserita sul posto e si occupava del concittadino giunto di fresco, aiutandolo nel disbrigo di faccende, fornendogli le informazioni necessarie e facilitandogli i contatti. Quello del pròsseno (proskenos, che letteralmente significa: a disposizione dello straniero, oggi diremmo il mediatore culturale) era un ruolo molto importante in un mondo dove gli dèi vivevano tra gli uomini, dai quali spesso era impossibile distinguerli. Nell’area mediterranea il pròsseno aveva un distintivo di riconoscimento che raffigurava: una persona in groppa ad un delfino (il delfino è un mediatore). Arione di Metimna quando è emigrato a Corinto, prima di diventare ricco e famoso,  per guadagnarsi da vivere, faceva il pròsseno per i suoi compaesani di Lesbo che capitavano da quelle parti. Gli stranieri andavano accolti con la massima ospitalità possibile, poiché non si sapeva mai se quel viandante in cerca di cibo e di un tetto fosse un uomo, una donna, o fosse un dio travestito o una dèa sotto mentite spoglie: ecco l’arte di saper mediare tra i miti e i fatti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai avuto, qualche volta, un ruolo di mediazione? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Un’altra inesauribile e preziosa fonte di informazioni sono stati per Erodoto i cantastorie ambulanti (gli eredi degli aedi, dei citaredi, dei rapsodi dei secoli precedenti) che, a quel tempo, tra il VI e il V secolo, nell’ambito del movimento della sapienza poetica orfica, erano molto diffusi. Il materiale di base per l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, è sempre stato fornito dalla tradizione dei cantastorie. I cantastorie orfici sono narratori che girano per le fiere e i villaggi raccontando le leggende, i miti e le storie della tradizione. In cambio di un po’ di cibo, di un po’ da bere, il cantastorie orfico, con grande saggezza e con inesauribile fantasia, narra le storie di un popolo, con tutti gli eventi, i casi e i miti che ne fanno parte. Se siano veri oppure no, questi eventi, questi fatti, nessuno è in grado di dirlo: piuttosto che indagare sulla verità dei fatti, per chi ascolta, è meglio riflettere sulle allegorie (di carattere morale) che queste narrazioni contengono.

     La riflessione sull’importante ruolo che hanno i narratori e le narratrici nella società ci porta ad occuparci (a proposito di eventi…) del caso letterario dello scorso anno. Lo scorso anno è stato pubblicato (prima in Francia poi in  tutta Europa e anche in Italia) un libro che ha suscitato molto interesse per il modo in cui è stato scritto, per la persona che lo ha scritto e per gli avvenimenti che hanno ritardato per più di sessant’anni la pubblicazione di questo libro. Questo libro s’intitola Suite francese ed è l’opera di una scrittrice che si chiama Irène Némirovsky: penso che molti di voi ne abbiano sentito parlare. Chi è Irène Némirovsky?

     Irène Némirovsky nasce nel 1903, a Kiev (la capitale dell’Ucraina), in quello che si chiama yiddishland, il paese in cui si parla la lingua yiddish: un misto di ebraico e di lingue mitteleuropee. In lingua yiddish è fiorita una significativa cultura fatta di opere letterarie (di racconti), di opere musicali e artistiche. Irène Némirovsky nasce in una grande casa sulle alture della città, in una zona tranquilla con viali di tigli e giardini. Suo padre si chiama Arieh, ma si fa chiamare Leon. Leon Némirovsky (classe 1868) è un ricco banchiere ebreo proveniente da una famiglia originaria della città ucraina di Nemirov, che si era arricchita con il commercio delle granaglie. La madre di Irène si chiama Faiga ma si fa chiamare Fanny (nata a Odessa nel 1887, è morta a Parigi nel 1989). Fanny ha concepito Irène controvoglia: solo per compiacere il marito e quindi si disinteressa completamente della figlia che cresce allevata dalle governanti. Irène coverà sempre un odio feroce nei confronti della madre e quest’odio verrà ricambiato pienamente. A questo proposito merita di essere letto Il ballo, il primo racconto che è stato pubblicato in Italia di Irène Némirovsky, dove il tema dell’odio tra una figlia e una madre viene presentato con una finezza e un’ironia sorprendente. Quando nel 1919, dopo la Rivoluzione russa, tutta la famiglia Némirovsky fugge a Parigi, Irène è già come se fosse una perfetta sedicenne parigina, convinta che la civiltà francese sia il modello di qualsiasi civiltà umana: il francese, pensava Irène, era l’unica vera lingua del mondo e in Russia, effettivamente, il francese era quasi la lingua ufficiale. Irène (come molti di voi…) conosce alla perfezione Guerra e pace di Tolstoj: un romanzo scritto in russo ma che inizia in francese e che utilizza regolarmente la lingua francese, durante tutto il suo svolgimento. Irène è certa che i migliori scrittori del mondo siano Montaigne, Madame de Sévigné, Racine, La Fontaine, Chateaubriand, Victor Hugo, e ha letto avidamente, in lingua originale, le opere di questi significativi scrittori francesi. Quindi la sua assimilazione nella società parigina è quasi istantanea, come spesso accadeva agli ebrei orientali emigrati a Parigi i quali diventavano francesi più dei francesi: apprezzavano la lingua, le abitudini, i modi di dire, i formaggi, i vini, i vezzi del paese che li accoglieva.

     Se leggiamo il titolo, Suite francese, titolo che richiama la musica del ‘700 (ma è bene andare oltre il titolo: questo libro merita di essere letto e, per giunta, è costruito apposta per essere letto dieci minuti al giorno) noi ci immaginiamo una signora parigina, benestante, (una di quelle dame che abbiamo incontrato nel Percorso sul romanticismo galante) che sta seduta alla sua piccola scrivania, in una stanza piena di luce, di fiori, di tappeti, e che si diverte a scrivere un romanzo. La immaginiamo mentre prende un tè insieme alle amiche, o passeggia per i Champs-Elysées, o va a una cena o a un ballo, dove sarà ammirata e corteggiata.

     In realtà Irène Némirovsky non è così. Irène Némirovsky non si cura di essere russa, di essere ebrea né di essere francese: la sua unica patria, amata con una passione che le costò la vita, è la letteratura. Nel 1940 e nel 1941 tutto sembrava perduto: l’Europa pareva cancellata dalle truppe naziste. Irène Némirovsky va ad abitare in un paese, Issy-l’Èvêque, nel dipartimento della Saône-et-Loire, insieme al marito, Michel Epstein, e alle due figlie, Denise ed Èlisabeth, portando sul petto la stella gialla imposta con le leggi razziali agli ebrei. Non bada alla morte, anche se pensa che la morte possa essere un’eventualità a breve scadenza. Ogni giorno esce di casa, va in campagna, si siede sotto l’ombra di un albero e scrive, scrive ciò che oggi (dopo sessanta, sessantacinque anni) possiamo leggere. Scrive, su un’agenda (con scrittura minuta, per guadagnare spazio), un grande romanzo, in cui sono presenti i ricordi e gli echi degli scrittori che ha più amato. Il vero modello di Irène Némirovsky è Guerra e pace. Leone Tolstoj ha composto il suo libro (non è facile liberarsi da Guerra e pace, ne abbiamo tanto parlato che, tra l’altro – come avrete letto senz’altro – è in preparazione un grande e costosissimo“ sceneggiato internazionale” così aumenterà il numero di quelli che credono di averlo già letto ) sessant’anni dopo gli avvenimenti che racconta: mentre Irène scrive la sua Suite (che avrebbe dovuto comprendere cinque romanzi) tra la fine del 1940 e il luglio del 1942, durante la sconfitta e l’invasione della Francia da parte dell’esercito hitleriano. La storia si svolge sotto i suoi occhi di testimone: lei però, al contrario di Tolstòj,non sa niente (non conosce l’epilogo), non sa chi avrebbe vinto la guerra, né se sarebbe sopravvissuta al suo libro.

     Come un pittore classico, Tolstoj racconta battaglie, generali, incontri di imperatori, incendi di città, fughe disperate di eserciti nell’inverno gelato (qualcuno non ha ancora letto Guerra e pace? Affrettatevi!). Irène Némirovsky prova una specie di avversione per gli eventi storici e pubblici: vuole far rispecchiare, vuole far riflettere gli eventi drammatici del suo tempo nell’animo e nel destino di alcuni personaggi, che, in fuga, attraversano la Francia sconfitta. Irène Némirovsky scrive che con Tolstoj avrebbe voluto avere in comune l’impassibilità, la distanza e l’ironia dello sguardo.

     Facciamo un gioco diacronico (usciamo dell’ordine del tempo, in un Percorso di studio si può fare…): Erodoto, è con lui che stiamo viaggiando, si compiace molto nell’udire questo concetto che esprime Irène; anche lui avrebbe voluto essere come Tolstòj, avrebbe voluto tenere maggiormente le distanze dagli avvenimenti senza lasciarsi coinvolgere troppo. Quasi senza saperlo, Irène Némirovsky possiede i doni del grande romanziere, come se Tolstòj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev, le fossero accanto e le guidassero la mano mentre lei scrive sul suo quaderno. Irène ha un’intuizione straordinaria nel rappresentare tutti gli strati di una società: fa risuonare la voce di un’aristocratica cattolica, come quella di una madre borghese, al pari di quella di una contadina. Con lo stesso istinto coglie sempre il particolare giusto: il solo particolare che definisce un personaggio. È sempre precisa nell’evocare il tintinnio di un coltello su un bicchiere, o il colore di una brocca di porcellana, o le foglie di un’insalata, o un servizio da tè bianco e oro, o un divano rosa, o il discorso tra un esteta e una cameriera: se avesse sbagliato, il suo racconto sarebbe caduto nella banalità. Ma Irène non sbaglia e la superficie del mondo non riesce a nasconderle nessuno dei suoi aspetti, e le lettrici e i lettori vengono pienamente coinvolti.

     Infine, Irène sa costruire mirabilmente il suo libro, raccontando dapprima delle piccole storie parallele, e poi concentrandole in un solo intreccio narrativo.Irène possiede un profondo senso del male: quello umano, non quello che giunge, chissà come, dal profondo del cielo o dall’abisso dell’inferno. La storia terrena, e qui Erodoto annuisce, ha come protagonista soprattutto il male: una sventura che si ripete senza interruzione dall’inizio sino alla fine dei tempi. Nel racconto di Irène l’Europa sembra un cadavere quasi decomposto: la borghesia francese, comprese le intellettuali e compresi gli intellettuali, si comporta in modo vile e pauroso dimostrando non di essere “colta” ma di essere “saccente”. Persino nel cuore dei ragazzi si nasconde una bestialità atroce.

     Eppure Suite francese non è un libro tragico. Qualsiasi cosa rappresenti, Irène Némirovsky non viene mai abbandonata da un fortissimo senso del comico (si sente la tradizione dell’ebraismo, nonostante lei non si senta ebrea, nonostante non abbia avuto un’educazione ebraica): un comico assurdo, lieve e inverosimile, eppure paurosamente reale, che esplode proprio quando la storia terrena sta per soffocarci. La morte è in agguato, ma Irène non dimentica la commedia umana con tutte le sue componenti anche comiche. Quando si finisce di leggere Suite francese rimane in chi legge una strana sensazione di letizia. Non si sa bene da che cosa dipenda: se dalla gioia di vivere che nessuna tragedia riesce a stroncare o dalla felicità fisica che procura l’attività del raccontare per iscritto.

     C’è un tono lirico nella scrittura di Irène Némirovsky e possiamo dire che il suo libro è intriso di cultura orfica e sta, quindi, a pieno titolo sull’itinerario di questo Percorso. La lettura di questo testo ci permette di cogliere l’eco melodiosa della frase, la ricchezza delle sensazioni, la bellezza della natura, gli animali quasi umanizzati, la luce del sole al mezzogiorno o al tramonto, il chiarore onnipresente della luna. Tutti questi elementi lirici si sciolgono e si perdono nella fluidità della vita, nel grande fiume che Irène non avrebbe mai voluto arrestare o dividere.

     La morte di Irène Némirovsky rimane un fatto misterioso come la morte di tante, di troppe persone. Nel luglio 1942, a 39 anni, ha concluso i due primi libri del suo grande romanzo intitolati: Temporale di giugno e Dolce. In quei giorni, un’amica la prega, la supplica di fuggire in Svizzera. Lei risponde: «Ma perché dovremmo fuggire? Non abbiamo fatto nulla di male». Irène Némirovsky è ebrea, e questo costituisce il peccato supremo, anche se per lei (che non è cresciuta, né è stata educata nella tradizione dell’ebraismo) esiste solo l’identità umana. Capisce benissimo, però, quale sarebbe stato il destino suo e dei suoi, se non avesse raggiunto la Svizzera. Perché, allora, non è fuggita? Voleva finire il romanzo che, per lei, contava più della vita? Era stanca di fuggire, come avevano fatto gli ebrei da duemilacinquecento anni, e voleva liberarsi, con la morte, dal destino del suo popolo?

     Ma ora leggiamo l’incipit, l’inizio di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Suite francese  (1940-1942)

Sarà dura, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra, l’allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che non dormivano, i malati nei loro letti, le madri con un figlio al fronte, le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto, sentivano il primo soffio della sirena, ancora solo un ansito profondo simile al sospiro che esce da un petto oppresso. In pochi istanti il cielo tutto si sarebbe riempito di clamori. Che venivano da lontano, dall’estrema linea dell’orizzonte – senza fretta si sarebbe detto. Quelli che dormivano sognavano il mare che spinge davanti a sé i ciottoli e le onde, la tempesta di marzo che scuote la foresta, una mandria di buoi che galoppano pesanti facendo tremare il suolo con gli zoccoli; ma il sogno finiva e socchiudendo appena gli occhi gli uomini mormoravano:

«È l’allarme?».

Le donne, più ansiose, più pronte, erano già in piedi. Alcune, dopo aver chiuso imposte e finestre, tornavano a letto. Il giorno precedente, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall’inizio della guerra, Parigi era stata bombardata; ma la popolazione non si era fatta prendere dal panico, benché le notizie fossero tutt’altro che buone. Nessuno riusciva a crederci. Così come nessuno avrebbe creduto all’annuncio di una vittoria. «Chi ci capisce qualcosa è bravo» diceva la gente. Le madri vestivano i bambini facendo luce con una pila. Poi alzavano di peso i piccoli corpi inerti e tiepidi: «Vieni, non aver paura, non piangere». È l’allarme. Si spegnevano tutte le luci, ma sotto quel cielo di giugno dorato e trasparente ogni casa, ogni strada era visibile. Mentre la Senna pareva concentrare in sé ogni sparso chiarore per poi rifletterlo, centuplicato, come uno specchio sfaccettato: le finestre non oscurate a sufficienza, i tetti che luccicavano nell’ombra leggera, le guarnizioni di ferro delle porte su cui ogni sporgenza brillava debolmente, qualche semaforo rosso che, chissà perché, durava più a lungo degli altri – la Senna li attirava, li catturava e li faceva danzare nei suoi flutti. Dall’alto, doveva sembrare un fiume di latte. Guida gli aerei nemici, pensavano alcuni. Altri affermavano che era impossibile. In realtà nessuno sapeva niente. «Me ne resto a letto,» mormoravano voci assonnate «non ho paura». «Basta una volta e siamo fritti» rispondevano voci più sagge.

Nei palazzi nuovi, attraverso le vetrate che proteggevano le scale di servizio, si vedevano scendere una, due, tre fiammelle: gli inquilini del sesto piano fuggivano da quelle altezze puntando davanti a sé le pile tenute accese in barba ai regolamenti. «Preferisco non rompermi il collo sulle scale, vieni, Émile?». Tutti, istintivamente, abbassavano la voce come se lo spazio si fosse d’un tratto popolato di sguardi e di orecchie nemici. Si sentivano sbattere le porte, che venivano richiuse una dopo l’altra. Nei quartieri popolari metropolitane e rifugi – nei quali stagnava ormai un gran lezzo di sporcizia – erano sempre affollati, mentre i ricchi si limitavano a fermarsi nelle portinerie dei loro palazzi tendendo l’orecchio agli scoppi e alle detonazioni che avrebbero annunciato la caduta delle bombe, attenti, tesi come animali trepidanti acquattati nei boschi quando scende la notte della caccia. Non è che i poveri fossero più impauriti dei ricchi o più attaccati alla vita, ma avevano, più di loro, la tendenza a vivere in gruppo, avevano bisogno gli uni degli altri e di sostenersi a vicenda, di piangere o di ridere insieme. Stava per spuntare il giorno; un riflesso pervinca e argento sfiorava le strade, i parapetti dei lungosenna, le torri di Notre-Dame. Sacchi di sabbia coprivano fino a metà altezza gli edifici più importanti, nascondevano le danzatrici di Carpeaux sulla facciata dell’Opéra, spegnevano il grido della Marsigliese sull’Arco di Trionfo.

In lontananza, echeggiavano colpi di cannone che via via si facevano più vicini, e i vetri tremavano, in risposta. Bambini nascevano dentro camere afose in cui le fessure delle finestre erano state sigillate per non lasciar trapelare la luce, e i loro pianti facevano dimenticare alle donne il fragore delle sirene e la guerra. Alle orecchie dei morenti le cannonate sembravano deboli e insignificanti, un rumore in più nel sinistro e vago brusio che accoglie l’agonizzante come un’onda. I piccoli, appiccicati al fianco caldo della madre, dormivano placidamente, le boccucce aperte in uno schiocco leggero, simile a quello dell’agnellino che succhia il latte. Abbandonati durante l’allarme, carrettini di frutta e verdura rimanevano in strada con il loro carico di fiori freschi.

Il sole, ancora tutto rosso, saliva in un cielo senza nuvole. Partì una cannonata così vicina a Parigi che tutti gli uccelli volarono via dalla sommità dei monumenti. Più in alto si libravano grandi uccelli neri, di solito invisibili, spiegavano sotto il sole le ali di un rosa argenteo, poi venivano i bei piccioni grassi che tubavano e le rondini, i passeri che saltellavano tranquillamente nelle strade deserte. Su ogni pioppo dei lungosenna c’era un nugolo di uccelletti scuri che cantavano frenetici. Nelle profondità dei rifugi arrivò infine un segnale remoto, attutito dalla distanza, sorta di fanfara a tre toni: il cessato allarme.

     Irène e suo marito Michel, un ingegnere laureatosi a San Pietroburgo e impiegato come procuratore alla Banque des Pays du Nord, decidono di affidare le due figlie, Denise ed Èlisabeth, alla bambinaia, la signora Cécile Michaud che è una persona (lei e la sua famiglia) di cui fidarsi. In un secondo momento, Irène affida alle figlie e alla signora Michaud una valigia nella quale ci sono fotografie, piccoli oggetti e soprattutto l’agenda con il testo del suo romanzo e con una serie di appunti che troviamo pubblicati con il romanzo. Il cognome Michaud viene usato da Irène, in Suite francese, per rappresentare una coppia di impiegati: incontriamoli in questa pagina:

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Suite francese  (1940-1942)

I Michaud si erano alzati alle cinque del mattino per avere il tempo di riordinare e pulire a fondo l’appartamento, prima di abbandonarlo. Certo, era un po’ strano prendersi tanta cura di cose senza valore e destinate con ogni probabilità a finire in pezzi sotto le prime bombe che sarebbero cadute su Parigi. Ma, pensava la signora Michaud, forse che non si lavano e si vestono i morti, che marciranno poi sottoterra?

È un ultimo omaggio, un’estrema prova d’amore a ciò che fu caro. E quel piccolo appartamento era loro molto caro. Ci vivevano da sedici anni e non avrebbero potuto trasportare altrove tutti i loro ricordi. Per quanto facessero, i più belli sarebbero rimasti lì, fra quelle pareti modeste. In fondo a un armadio sistemarono i libri e quelle piccole fotografie da dilettanti che ci si ripromette sempre di incollare su un album e che restano poi accartocciate, sbiadite, incastrate nella scanalatura di un cassetto. La foto di Jean-Marie bambino l’avevano già messa in fondo alla valigia, fra le pieghe di un vestito di ricambio; la banca aveva raccomandato caldamente di prendere solo lo stretto necessario: qualche capo di biancheria e gli oggetti da toilette indispensabili. Finalmente tutto fu pronto. Fecero colazione, poi la signora Michaud coprì il letto con un grande lenzuolo per proteggere dalla polvere la seta rosa un po’ scolorita che lo rivestiva.

«È ora di andare» disse il marito.

«Comincia a scendere, ti raggiungo subito» rispose lei con voce alterata.

Lui obbedì e la lasciò sola. La signora Michaud entrò nella camera di Jean-Marie. Tutto era silenzioso, buio, funebre, dietro le imposte chiuse. Si inginocchiò un attimo vicino al letto, disse a voce alta: «Mio Dio, proteggilo», poi chiuse la porta e scese.

Il marito la aspettava sulla scala. L’attirò a sé e, senza una parola, l’abbracciò forte, così forte che lei si lasciò sfuggire un gridolino di dolore.

« Oh! Maurice, mi fai male! ».

«Non importa» mormorò lui con voce roca.

In banca gli impiegati, riuniti nel grande vestibolo, ciascuno con il suo fagottino sulle ginocchia, si scambiavano sottovoce le ultime notizie. Corbin non c’era. Il capo del personale assegnava progressivamente a ognuno un numero, e ognuno, quando sentiva chiamare il proprio, doveva salire sull’automobile che gli era stata destinata. Fino a mezzogiorno, le partenze si svolsero in buon ordine e quasi in silenzio. Alle dodici in punto entrò Corbin: andava di fretta e aveva un’aria imbronciata. Scese nel caveau e risalì con un pacchetto tenuto seminascosto sotto un soprabito. La signora Michaud sussurrò all’orecchio del marito:

«Sono i gioielli di Ariette. Quelli di sua moglie li ha presi l’altro ieri».                                       

«Speriamo che non si dimentichi di noi» sospiro Maurice, ironico e preoccupato a un tempo.

La signora Michaud si piazzò risolutamente sulla traiettoria di Corbin.

«È inteso che noi partiamo in macchina con lei, vero, signor direttore?».

Lui fece segno di sì e li invitò a seguirlo. Il signor Michaud afferrò la valigia e tutti e tre uscirono. La macchina di Corbin era pronta, ma quando le si accostarono Michaud, strizzando gli occhi miopi, disse con la sua voce dolce e un po’ strascicata:

«A quel che vedo il nostro posto è già occupato».

Ariette Corail, il suo cane e le sue valigie occupavano il sedile posteriore. La donna aprì la portiera e gridò furente:

«Pensavi forse di lasciarmi in mezzo alla strada? ».

Scoppiò una bella lite di coppia. I Michaud, che si erano allontanati di qualche passo, ne colsero tuttavia ogni parola.

«Ma a Tours devo raggiungere mia moglie» gridò alla fine Corbin allungando una pedata al cane.

Il cane lanciò un ululato e si rifugiò tra le gonne di Ariette.

«Bruto!».

«Ma taci, per favore! Se l’altro ieri tu non fossi andata a zonzo con quegli aviatori inglesi altri due che vorrei vedere annegati ».

Lei continuava a ripetere: «Bruto! Bruto! » con voce sempre più stridula. Poi, di colpo, annunciò con la massima calma:

«A Tours ho un amico. Di te non avrò più bisogno».

Corbin le scoccò un’occhiataccia ma sembrò decidersi. Si girò verso i Michaud.

«Mi dispiace ma, come vedete, non ho posto per voi. La macchina della signora Corail ha avuto un incidente e la signora mi prega di darle un passaggio fino a Tours. Non posso rifiutare. Avete un treno fra un’ora. Ci sarà ressa ma è un viaggio così breve Comunque, fate in modo di raggiungerci al più presto. Conto su di lei, signora Michaud, che è più energica di suo marito. E lei, Michaud, dovrà mostrarsi più dinamico» sillabò con forza la parola di-na-mi-co «di quanto lo è stato negli ultimi tempi. Non tollererò più alcuna negligenza. Se lo tenga per detto, se vuole conservare il posto. Trovatevi tutti e due a Tours dopodomani al più tardi. Ho bisogno di avere il personale al completo».

Fece loro un piccolo cenno con la mano, salì vicino alla ballerina e la macchina partì. I Michaud, fermi sul marciapiede, si guardarono in faccia.

«Ha trovato la formula giusta» disse Michaud con la sua voce un po’ indolente e alzando appena le spalle. «Strapazzare chi ha motivo di lamentarsi di voi è sempre una buona tattica!».

Nonostante tutto, si misero a ridere.

«E adesso che facciamo?».

«Torniamo a casa a mangiare» disse la moglie con rabbia.                                         

Il loro appartamento era fresco, trovarono la cucina con le tapparelle abbassate, i mobili coperti da fodere. Tutto aveva un’aria intima, amichevole e gentile, come se una voce sussurrasse nell’ombra: «Vi aspettavamo. È tutto in ordine».

«Rimaniamo a Parigi» propose Maurice.

Erano seduti sul divano del salotto e lei, con gesto familiare, gli accarezzava le tempie con le sue mani magre e delicate.

«È impossibile, mio povero caro, dobbiamo vivere, e sai bene che non ci è rimasto un soldo da parte dopo la mia operazione. Mi restano solo centosettantacinque franchi alla Cassa di Risparmio, e Corbin coglierà al volo questa occasione per metterci alla porta. Vista la situazione, tutte le aziende ridurranno il personale. Dobbiamo arrivare a Tours a ogni costo».

«Credo che sarà impossibile».

«Dobbiamo» ripeté lei.

Ed era già in piedi, si rimetteva il cappello e afferrava di nuovo la valigia. Uscirono e si diressero alla volta della stazione.

Non riuscirono a entrare neanche nel grande atrio: le porte erano chiuse, sprangate, e piantonate dall’esercito che teneva a bada la folla pigiata contro le sbarre. Rimasero lì fino a sera lottando invano. Intorno a loro tutti dicevano:

«Pazienza. Andremo a piedi».

Lo dicevano con una sorta di desolato stupore. Era chiaro che non ci credevano. Si guardavano intorno e aspettavano il miracolo: una macchina, un camion, un mezzo qualsiasi che li avrebbe presi a bordo. Ma niente di tutto questo si presentava al loro sguardo. Allora si avviarono verso le porte di Parigi, le varcarono trascinandosi dietro i bagagli nella polvere; camminavano, si inoltravano nei sobborghi, poi nella campagna e pensavano: «È un sogno! ».

Come gli altri, anche i Michaud si erano messi in cammino. Era una calda notte di giugno. Davanti a loro una donna con l’acconciatura da lutto tutta di traverso sui capelli bianchi incespicava sulle pietre della strada e gesticolando come una pazza borbottava:

«Ringraziate il Cielo che la nostra fuga non avviene d’inverno Pregate Pregate!».

     Il 13 luglio 1942 Irène Némirovsky viene arrestata e il 17 luglio sale su un convoglio che la conduce ad Auschwitz: il 17 agosto viene eliminata e di lei (come di moltissime, di troppe persone) non abbiamo altre notizie. Suo marito Michel, dopo essersi battuto ed essersi esposto presso il governo collaborazionista di Vichy chiedendo di prendere il posto della moglie nel campo di lavoro, ottiene il risultato di essere arrestato anche lui e, anche lui finisce ad Auschwitz: il suo treno arriva il 6 novembre 1942 e, nel giro di poche ore, viene subito avviato alla camera a gas. Dopo l’arresto di Michel Epstein la polizia si presenta alla scuola comunale di Issy-l’Èvêque per catturare la piccola Denise, ma la maestra riesce a farla nascondere in uno spazio ricavato tra il suo letto e il muro. Le due bambine – Denise, che ha tredici anni ed Elisabeth, che ne ha cinque – vengono ricercate con accanimento dai gendarmi per essere deportate ma la signora Julie Dumont, a cui vengono affidate, rischiando la vita, le nasconde in vari rifugi: ha un fratello nella resistenza che la informa sulle condizioni di sicurezza dei vari rifugi e sulla necessità di cambiare nascondiglio. Le due bambine, trascinate per la Francia dalla signora Dumont, con continui spostamenti (da prima in un pensionato di suore a Bordeaux e poi in cantine, in grotte, in case di contadini, riescono a salvarsi. Denise non si stacca mai dalla valigia che il padre, nell’ultima telefonata dal posto di polizia al momento dell’arresto, le aveva ordinato di prendere e di portare sempre con sé, di non abbandonarla mai per nessun motivo. Denise ha ubbidito: sapeva che quella valigia conteneva l’agenda di mamma, non sapeva che sulle pagine di quell’agenda c’era scritto il testo di un capolavoro della letteratura.

     Questo libro lo dobbiamo, oltre che alla scrittrice, a tante persone sconosciute, se dovessimo usare una metafora potremmo dire che questo libro è stato salvato, in un mare tempestoso, da tanti delfini che, sulla loro groppa, lo hanno portato a terra.

     La storia della pubblicazione di Suite francese ha del miracoloso, possiamo affermare che ha dei connotati orfici, e merita di essere conosciuta meglio: questa storia (noi, ora, non abbiamo il tempo per narrarla nei suoi particolari) la si può leggere, raccontata dalla scrittrice Myriam Anassimov (un’altra persona alla quale dobbiamo la pubblicazione di questo testo), nella Postfazione collocata nelle ultime pagine del libro. Irène non desidererebbe, nonostante tutto, che si parli di lei con mestizia: ha amato l’ironia, e l’ironia dona sempre un tono di umorismo agli avvenimenti, anche se sono tragici. Seguiamo una traccia che possiamo cogliere nel brano d’inizio del suo romanzo, che abbiamo letto poco fa. Scrive Irène Némirovsky: «Quelli che dormivano sognavano il mare che spinge davanti a sé i ciottoli e le onde …». Questa frase, soprattutto se  letta in lingua originale, è come un verso che ci fa sentire il rumore e l’odore del mare.

     Difatti per concludere dobbiamo tornare al mare, dobbiamo tornare alla figura del mitico delfino da salvataggio che soccorre Arione di Metimna «trasportato – scrive Erodoto – al capo Ténaro, all’estremità meridionale della Laconia, sulla groppa di un delfino». Dove ci troviamo in questo momento? Abbiamo lasciato Ascra in Beozia, dove siamo stati ospitati da Esiodo, e strada facendo abbiamo visitato il santuario di Delfi dove abbiamo ricordato il mito di Apollo delfino. Poi il capitano Agenore di Tiro, a bordo dello scené (del carro da trasporto degli attori), ci ha condotto a Kirra, sulla costa settentrionale del golfo di Corinto. Kirra è il porto di Delfi e oggi questa località si chiama Itéa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Puoi andare a far visita a Itéa utilizzando l’atlante, la guida della Grecia, la rete … e se trovi qualche notizia interessante scrivi quattro righe in proposito …

     Nel porto di Kirra il capitano Agenore di Tiro soffia, come se fosse una tromba, in una conchiglia e al suono della conchiglia appare un grosso branco di delfini. È sulla groppa di questi delfini che il nostro viaggio continua …

     Usciti dal golfo di Patrasso i delfini punteranno verso sud, nuotando lungo la costa ionica del Peloponneso per raggiungere il capo Ténaro e la penisola di Máni. Da questo punto strategico, dove c’è il simulacro di Arione sulla groppa del delfino, dobbiamo osservare il mare. Sapete per quale motivo, allude Erodoto, il mare va osservato proprio da questo punto di osservazione?  Erodoto, a proposito di punti di osservazione, ha il suo punto di vista e ce lo spiegherà nel prossimo itinerario.

     La Scuola è qui e (con lo spirito orfico che Erodoto ci trasmette) coltiva il gioco delle mitiche finzioni. Non è però finzione il fatto che la prossima lezione è l’ultima dell’anno 2006.

     Non perdete il prossimo itinerario, non perdete i doni del mare che ci propone Erodoto, anche se «i doni del mare, come scrivono Arione di Metimna e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sono pericolosi perché il mare dona la morte insieme all’immortalità». I doni del mare ci pongono di fronte, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, a significativi argomenti di riflessione: correte a Scuola a celebrare la fine di un altro anno, il 23° di questa esperienza didattica…

 

 

 

 

Lezione del: 
Giovedì, Dicembre 7, 2006