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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL RAPPORTO TRA LA POESIA E LA PERFEZIONE …

Lezione N.: 
5

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006 9-10 - 15 (Redi)  novembre  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL RAPPORTO TRA LA POESIA E LA PERFEZIONE …

     Siamo ripartiti dall’isola di Delo con la nave Sidonia che, al comando del capitano Agenore di Tiro, si sta dirigendo verso est-nord est; dobbiamo attraversare il Mar Egeo ed avvicinarci alle costa dell’Anatolia (che, al tempo di Erodoto, si chiamava Ionia). La nostra meta è un’isola, l’isola più vicina al territorio della Ionia (appena due chilometri dalla costa dell’Anatolia): l’isola di Samo. Sull’isola di Samo dobbiamo visitare una Scuola: una delle più importanti Scuole della cultura ionica dell’Età assiale della storia, e dobbiamo incontrare alcuni personaggi. Erodoto (è un po’ emozionato) è lieto di navigare verso Samo perché questa bella isola gli ricorda la sua giovinezza: lì ha certamente frequentato la Scuola di cui stiamo parlando.

     Sull’albero maestro (sull’albero genealogico lessicale) della nostra nave, ben condotta dal capitano Agenore di Tiro, sventola, nel mar Egeo soffia spesso il vento (anemos), la bandiera della poίesis, della poesia, e questo sventolìo è un invito a riflettere. La parola poίesis, la poesia, indica la prima potente parola-chiave della cultura ellenica (orfica, ionica) che Erodoto, nel contesto de Le Storie, mette in evidenza. E quindi, mentre la nostra imbarcazione naviga diretta verso est-nord est, noi ne approfittiamo per fare il punto della situazione, per tirare le fila del nostro ragionamento.

     Il testo de Le Storie di Erodoto, abbiamo studiato, ci permette di dare una forma al nostro albero genealogico lessicale. Il concetto dell’albero genealogico lessicale abbiamo cominciato ad elaborarlo a Turi, accanto alla fonte Thouria, e ora lo troviamo simboleggiato nell’albero maestro della nave Simonia. Sull’albero genealogico lessicale troviamo, sui rami più bassi, le parole-chiave (quattro coppie di parole) della memoria degli albori, poi, al secondo piano, troviamo le parole-chiave (una ventina di parole) che rappresentano l’eredità culturale delle grandi civiltà (sumera, egizia, indiana, cinese, persiana, ebraica) dell’Età assiale della storia. Su questo stesso piano dell’Età assiale della storia cominciamo a intravedere, sulla scia di Erodoto (continuando a viaggiare nel testo e nel contesto della sua opera), i rami che contengono le parole-chiave della cultura greca, a cominciare da quella ionica che, dal X al VII secolo a.C., raccoglie un patrimonio di idee significative, provenienti da un vasto movimento culturale che gli studiosi hanno chiamato: della sapienza poetica.

     Qual è la caratteristica fondamentale, unificante,  di questo movimento? Questo movimento culturale comincia a svilupparsi affrontando il tema delle Origini (come, quando e perché si è formato l’Universo?) occupandosi soprattutto dei modi, delle forme con cui esprimere i fantastici contenuti immaginari (i Racconti sulle Origini) che la tradizione orale delle popolazioni (Achei, Dori, Eoli, Ioni), che si sono avvicendate sul territorio dell’Ellade, aveva creato. Questo movimento culturale si manifesta attraverso una figura, la figura di Orfeo (che abbiamo conosciuto), la quale assume una centralità nella rete dei Racconti sulle Origini.

     Questa mitica figura assume una centralità nel senso che Orfeo è un poeta. Orfeo è “il poeta” (il modello, il prototipo, lo stampo, la maschera primordiale del poeta), il quale ascolta e fa propri i racconti orali della tradizione, poi crea una forma (la forma poetica, il sapere poetico) per contenerli e quindi li diffonde cantandoli in musica, accompagnandosi con la sua arpa eolica. Nella cultura greca degli albori il nome di Orfeo si collega direttamente alla parola-chiave: poeta. Il nome di Orfeo, e  la parola-chiave “poeta”, è quindi da collocarsi in principio.

     Il mitico cantore, il poeta Orfeo, non è il creatore di un contenuto (la trama dei Racconti sulle Origini emerge dalla notte dei tempi, dalla tradizione orale che si è sviluppata intorno alle parole degli albori) ma è da collocarsi in principio per aver plasmato la forma con cui questo contenuto originario ha potuto svilupparsi. Il racconto originario (come l’erba secca) è il contenuto, e la poesia (in quanto l’arte dell’intrecciare) è la forma.

     Perché il racconto originario possa esistere è necessaria la forma poetica, e la forma poetica s’identifica con il principio: il racconto è l’Origine, ma la poesia (la forma poetica) è il Principio.

     Ecco perché la prima importante corrente di pensiero (che non ha mai cessato di esistere) della cultura ellenica si chiama movimento della sapienza poetica orfica, come dire che la dottrina, il sapere, contenuto nei Racconti sulle Origini, si comprende attraverso la poesia, attraverso la forma poetica, attraverso (per usare una metafora) il canto di Orfeo, cioè attraverso l’attività di quegli anonimi cantori (aedi, citaredi, rapsodi) che hanno costruito (prima solo oralmente come canta-autori, poi anche come scrivani) la struttura poetica degli Inni sacri, delle Canzoni di gesta, delle Narrazioni epiche, delle Liriche.

     Il primo elemento che caratterizza la corrente di pensiero della sapienza poetica è che questo movimento intellettuale si sviluppa di pari passo e si confonde con l’evoluzione della dottrina dell’Orfismo. L’Orfismo è un fenomeno riformatore di carattere religioso che regolamenta i rapporti nella società rurale (pone le basi della cultura contadina) attraverso l’imposizione di atti, comportamenti, manifestazioni e l’istituzione di cerimonie che tendono a mitigare e a umanizzare i riti arcaici, piuttosto crudeli e bestiali, codificati nell’età degli albori (prima della Rivoluzione del Neolitico). L’Orfismo, in stretto rapporto con il movimento della sapienza poetica, ridefinisce i riti arcaici attraverso la creazione di una rete di racconti (di una prosopopea) incentrati sulla mitica figura di Dioniso che diventa il protagonista (la maschera) della prima significativa saga orfica: ai riti arcaici, l’Orfismo attribuisce il nome di culti dionisiaci.

     Le avventure di Dioniso – il dio della vegetazione, dell’animalità, dell’ebbrezza, della trasgressione, la maschera della passione (nel greco ionico il termine passione si traduce orgé) – vengono narrate in contrapposizione all’epopea di Orfeo (la maschera della ragione, del logos) per legittimare ed estendere la riforma religiosa, in senso etico, che l’Orfismo tende ad attuare. L’Orfismo ha bisogno di definire bene l’ostacolo (l’antitesi, direbbe il “giovane Hegel”, ma la parola antitesis-antitesi, l’analisi, l’abbiamo trovata l’anno scorso nel vocabolario di Erodoto) che deve superare, e descrive il culto dionisiaco (i riti arcaici, i culti degli albori) per definire se stesso come movimento riformatore e colloca l’età dionisiaca nel territorio dell’oralità (del disordine, della disorganizzazione, nel Caos) in contrasto con l’età orfica che si sviluppa nel territorio della scrittura (nel Cosmos).

     Alla figura di Dioniso, cantato con le strutture dalla poesia orfica, vengono addossati gli attributi (l’istinto, l’animalità, la passionalità, peraltro costitutivi della natura umana) contrari a quelli della figura di Orfeo (la ragione, l’equilibrio, l’armonia, il senso delle proporzioni, l’euritmia). La dottrina dell’Orfismo, in stretta relazione con il movimento della sapienza poetica, crea due figure, Orfeo e Dioniso, alternative ma complementari, così come, nella persona umana, sono complementari gli attributi (la passionalità e la ragionevolezza) che vengono poeticamente distribuiti tra di due personaggi. La dottrina dell’Orfismo, in stretta collaborazione con il movimento della sapienza poetica, crea la figura della dèa Ilizia, la grande levatrice, una delle divinità più antiche, che precede la costruzione della figura (la prosopopea) del personaggio di Latona (“colei che serve”) che da “fanciulla” diventa “dèa”. La dèa Ilizia, e noi la conosciamo, risulta essere la protettrice delle partorienti e quindi anche di chi intreccia (di chi governa) la paglia di grano per costruire le suppellettili necessarie al parto e all’allevamento della prole: indispensabili in funzione dell’origine; ma la dèa Ilizia risulta essere anche la protettrice dei poeti che intrecciano (che governano) le parole per dare una forma ai Racconti sulle Origini. Questo concetto lo troviamo espresso nel nome di Ilizia: se consultiamo il vocabolario ionico constatiamo che la parola Ilizia è formata dall’intreccio dei termini ùle e kratía. Il termine kratía significa il governo, il potere esecutivo, e il termine ùle significa la materia. Dalla parola ùlekratía deriva il nome di Ilizia che significa: colei che governa la materia, che dà forma alle cose (un demiurgo al femminile). Il nome di Ilizia rappresenta, per il movimento della sapienza poetica orfica, l’idea secondo cui la forma governa il contenuto (pensiamo a Platone).

     Al movimento culturale della sapienza poetica orfica si deve la creazione dei fantastici personaggi le cui maschere, a cominciare da Orfeo (la tesi) e da Dioniso (l’antitesi), daranno vita a quella grande rappresentazione che chiamiamo la mitologia greca (la mitosarchis, la rete dei Racconti sulle Origini).

     Muovendoci sulla scia della parola maschera (prósopon in greco, che significa contemporaneamente anche il volto, abbiamo capito che il percorso letterario, l’itinerario poetico, passando attraverso le varie fasi della tradizione orfica (dalla Tracia a Delo), porta alla creazione di nuovi personaggi mitici. Attraverso l’attività poetica avviene, in ambiente rurale, in Tracia, la trasformazione del volto di anonimi cantori nella maschera di Orfeo e poi, a Delo, col prevalere della polis, Orfeo viene nascosto (escluso) sotto la maschera di Apollo.

     Inoltre l’attività poetica orfica crea, in ambiente rurale, in Tracia, la maschera di Dioniso alla quale si sovrappone, a Delo, col prevalere della polis, la maschera di Artemide: questa attività, l’arte di dare la forma ai personaggi mitici, viene chiamata prosopopea …

     La religione e la cultura dell’Orfismo si evolve in nuovi modelli (in nuove maschere) e, anche se il nome di Orfeo scompare gradualmente dalla scena, tuttavia il modo, il metodo, lo stile della prosopopea (l’arte di costruire, di intrecciare in modo poetico, la figura, la maschera di un personaggio in modo che questa immagine possa apparire come quella del suo vero volto) rimane attivo; ed è attraverso questo procedimento letterario che la tradizione orfica perdura come base insostituibile della cultura greca.

     Quando Erodoto scrive la sua opera, nel V secolo a.C., il nome di Orfeo è impronunciabile e la cultura orfica è stata ormai sepolta sotto le nuove strutture che si sono concretizzate in Delo (che abbiamo visitato la scorsa settimana). In Delo le nuove strutture (religiose, civili, culturali) sorgono attorno alle nuove maschere di Apollo e di Artemide ma l’influsso delle figure di Orfeo e di Dioniso continua (e continuerà) a sentirsi sotto traccia: senza l’Orfismo, radicato in profondità, la cultura greca non avrebbe fondamenta (e così quella che chiamiamo la cultura occidentale).

     Si crea, per quanto riguarda l’Orfismo, una situazione simile a quella che si determina tra la letteratura dell’Antico Testamento e la letteratura dei Vangeli e poi la letteratura del Corano. La letteratura dei Vangeli e la letteratura del Corano tendono a superare, a rimuovere, la letteratura dell’Antico Testamento ma senza questa base non avrebbero le fondamenta.

     L’Orfismo è un fenomeno riformatore di carattere religioso nel cui solco si sviluppa il movimento della sapienza poetica il quale dà vita, attraverso lo stile della prosopopea, alla grande stagione dell’epica, della lirica, della tragedia, della storia: compresa l’opera di Erodoto e le opere storiche propriamente dette. I testi epici, lirici, delle tragedie greche, delle opere di storia propriamente dette (Tucidide, Senofonte) e de Le Storie di Erodoto sono intrisi di cultura orfica.

     Il testo dei capitoli 32-33-34-35 del libro IV  de Le Storie di Erodoto, che abbiamo letto e commentato, contiene una riflessione sul concetto della trasmissione della cultura che rappresenta anche  la prima descrizione dello sviluppo della sapienza poetica orfica. Erodoto, con il suo stile allusivo, documenta (utilizzando l’immagine allegorica dell’intreccio della paglia di grano…) come la sapienza poetica orfica sia stata capace di creare un pensiero forte e di trasmetterlo nello spazio e nel tempo. Inoltre, Erodoto allude al fatto di come gli elementi di questo pensiero (li abbiamo studiati nelle scorse settimane) siano stati capaci di propiziare la genesi e la formazione dei generi letterari successivi: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia. Sono soprattutto gli elementi formali del pensiero orfico, in particolare la prosopopea (l’arte di costruire, di intrecciare in modo poetico, le maschere dei personaggi) a determinare la struttura dei generi letterari: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia.

     Il testo de Le Storie di Erodoto può essere considerato come un tramite, come un ponte, attraverso il quale il pensiero orfico, la sapienza poetica orfica, transita per poter proseguire la sua evoluzione costruendo modelli nuovi; e dai nuovi modelli prendono forma l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia (della tragedia ce ne siamo occupati nel 2003, della storia ce ne stiamo occupando, dell’eloquenza e della filosofia ce ne occuperemo strada facendo). Studiando il testo de Le Storie possiamo constatare come Erodoto si perfezioni nell’uso della prosopopea fino a riformarla creando il genere del racconto allegorico: una maniera di scrivere che apre la strada alla definizione della forma del romanzo moderno. Erodoto è un grande costruttore e, nello stesso tempo, de-costruttore (perché va a guardare sotto) di maschere.

     Noi sappiamo già che, dal tempo dei grammatici alessandrini, dal III secolo a.C., Erodoto non viene considerato uno storico, ma qualcosa di diverso che oggi potremmo definire con la parola romanziere, piuttosto che con la parola reporter. La sua opera è mirabile per la vivacità del racconto, per la potenza della descrizione e della narrazione, per la competenza che Erodoto possiede nel creare dialoghi e discorsi, per la capacità che ha di far appello ad aneddoti e curiosità varie, per la maestrìa nell’animare le scene e soprattutto per dare un ruolo ai personaggi.

     Erodoto sembra essere perfettamente cosciente del fatto che la prosopopea orfica ha dato una maschera ai volti; è successo che, dapprima, i cantori anonimi, i poeti sconosciuti, si sono dati loro stessi una maschera con la quale presentare i loro Inni sacri, le loro Canzoni di gesta, le loro Narrazioni epiche: questi anonimi compositori hanno sostenuto che le opere da loro cantate erano state create da mitici poeti che hanno inventato – Orfeo, Museo, Lino, Olimpo, Tamiri – e di cui hanno creato la maschera da mettersi in volto, par dare alle loro opere un valore maggiore, straordinario. In questo modo la prosopopea orfica ha continuato a svilupparsi, ha creato maschere su maschere e, attraverso la poesia Lirica ha costruito, sulla figura di Orfeo, la maschera di Apollo, e sulla figura di Dioniso la maschera di Artemide. Ebbene, consapevole di questa trafila, Erodoto pensa sia venuto il momento di attuare un’inversione di tendenza: la prosopopea, allude Erodoto, deve operare perché dalle maschere si ritorni ai volti.

     Erodoto, nello scrivere la sua opera, cerca i volti che sono nascosti dietro le maschere. Sotto la maschera, con la quale ci si presentano i grandi re, le famose regine, i potenti sacerdoti, gli influenti scribi, i valorosi comandanti, gli avventurosi viaggiatori, i bizzarri teatranti, i venerati artisti, i semplici soldati, gli sfruttati operai, gli affaticati contadini, gli erranti pastori, e via dicendo (questi sono i personaggi di Erodoto): ebbene, sotto la maschera, che la tradizione orfica della prosopopea ha creato per ciascun essere umano, c’è il volto di una persona. L’interesse di Erodoto, in quanto ricercatore, in quanto antropologo, si concentra sulla maschera: vuole trovare uno spiraglio per sbirciare sotto in modo da poter scoprire il volto.

     È in questo contesto che Erodoto comincia a fare una distinzione quando usa la parola: persona. Erodoto usa spesso la parola persona per dire: «Quel re in persona, quella dèa in persona, quel condottiero in persona, quella donna in persona», e in questo caso utilizza il termine ò autós che, nel latino medioevale corrisponde all’espressione «per se unum», da cui deriva la parola persona che, quindi, porta con sé un’idea di individualismo, di egoismo (ci sono “io” prima di tutto).

     Erodoto, in espressioni del tipo: «nell’incontro con l’altro, nel parlare con l’altra …», modi di dire in cui il greco ionico avrebbe usato il termine έteros-éteros, l’altro, étera, l’altra, comincia a usare la parola prosopos che letteralmente significa: colei, colui, che mi sta di fronte. Questa espressione contiene l’idea della necessità, allude Erodoto, di guardare sotto la maschera (prosopon); questa espressione invita, allude Erodoto, a considerare il fatto che di fronte a me ci sia un di più di una generica altra, étera, di un generico altro, éteros.

     Anche se non conosciamo il greco e il greco ionico, in particolare, però il senso del ragionamento lo capiamo lo stesso e l’invito di Erodoto a pensare, in questo caso, in modo greco, risulta molto chiaro. Lo capirà molto bene, circa cinque secoli dopo, Shaul Tarsensis, Paolo di Tarso, scrivendo, negli anni 50 e 60 della nuova era, le sue Lettere (una letteratura che abbiamo studiato a suo tempo) in cui il termine prosopos corrisponde alla parola prossimo, ed è probabile, ci suggeriscono gli esegeti, che Paolo di Tarso  conoscesse Le Storie di Erodoto, in modo particolare i racconti allegorici (le parabole).

     Il testo di Erodoto fa una distinzione tra la persona (ò autós) considerata come «un’altra, un altro, rispetto a me che vengo prima di tutto», e la persona (prosopos) considerata come «colei, colui, che mi sta di fronte». Erodoto introduce nel movimento della sapienza poetica orfica una variazione fondamentale per cui la poesia non serve tanto in funzione della prosopopea, per dare una maschera al volto, quanto in funzione dell’antropologia per liberare il volto dalla maschera. La poesia, per Erodoto la poesia s’identifica con il racconto allegorico, deve servire per intrecciare, per imbastire, per impostare una riflessione, un discorso (logos), sull’essere umano (àntropos). Ecco perché Erodoto è considerato il primo antropologo della storia della cultura.

     L’Orfismo è quindi alla base di tutta la cultura greca: dal movimento della sapienza poetica orfica si sviluppano molti filoni intellettuali (l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia) che tendono, dopo averne assorbito ed elaborato la dottrina, a rimuovere l’Orfismo piuttosto che riconoscerlo. Questo fatto crea una contraddizione di principio, crea un’aporia originaria, un paradosso iniziale. L’Orfismo, il nome di Orfeo, è e sarà sempre l’elemento unificante della cultura greca (e anche oltre la cultura greca perché noi continuiamo a essere orfici dopo 2500 anni). L’Orfismo, il nome di Orfeo, rappresenta e rappresenterà sempre la struttura di base della sapienza poetica greca ma verrà sistematicamente, nel corso dell’evoluzione creativa dei nuovi filoni culturali (l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia), ricacciato sotto traccia, rinchiuso nel sottosuolo. Con l’avvento delle poleis (delle città), con la definitiva supremazia delle città sulla compagna, il nome di Orfeo, dall’VIII secolo a.C., rimane relegato negli ambienti rurali (dove  è stata creata la sua figura dagli albori) e gli ambienti rurali, rispetto alla polis, diventano sempre di più luoghi di emarginazione ritenuti culturalmente subalterni: la figura di Orfeo ne segue la sorte. Il nome di Orfeo diventa, con il trionfo della polis, con l’egemonia della città, l’espressione di qualcosa di negativo: un rifiuto, un’opposizione, uno svantaggio, un’ostilità, qualcosa di inopportuno.

     Ma proprio per queste caratteristiche, che sono insite nel personaggio di Orfeo (ricordiamoci che il nome di Orfeo significa espulso, escluso, colui che è solo), la sapienza poetica greca nel suo sviluppo (sotto l’egida dell’aristocrazia al tramonto e delle nuove classi emergenti) non può e non potrà mai fare a meno del nome di Orfeo e di tutto ciò che rappresenta.   

     Quindi il movimento della sapienza poetica greca nel suo sviluppo (epica, lirica, tragedia, storia, eloquenza, filosofia), soprattutto quando si evolve nella polis, tende a non riconoscere al nome di Orfeo il ruolo fondante che ha, ma non può comunque farne a meno, e allora il nome di Orfeo viene usato ma non viene nominato, viene presupposto ma non viene espresso, viene elaborato senza essere citato come fonte.

     Il movimento della sapienza poetica greca vive sulla memoria del nome di Orfeo e contemporaneamente si sviluppa cercando di obliare, di dimenticare, di cancellare questo nome: è questo il tema del drammatico contrasto tra la campagna, tra la cultura rurale che diventa subalterna, e la città che si sviluppa a spese della campagna. Il modello cittadino prende il sopravvento e cerca di soffocare la memoria della ruralità, ma il Pensiero Umano è radicato nella cultura della ruralità e nella polis la cultura della ruralità continuerà a covare sotto traccia in modo provocatorio.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura questo tema lo si trova sviluppato da molti autori: lo possiamo trovare, per esempio, trattato con la consueta leggerezza (nel senso di levità, di sottigliezza, non di inconsistenza) nel romanzo Marcovaldo di Italo Calvino: un testo molto famoso come tutti quelli di Calvino. Nel personaggio di Marcovaldo, emigrato in città, suo malgrado, e deprivato dei connotati della ruralità che gli appartengono, riemerge in continuazione, nel ritmo delle stagioni, la cultura della campagna la quale, sebbene ricca di valori positivi, risulta, nel contesto urbano, anacronistica e anomala, tale da non conciliarsi con gli innaturali schematismi cittadini i quali, sebbene siano spesso negativi, hanno ormai assunto il carattere della normalità. Forse il romanzo Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, pubblicato nel 1963 lo hanno letto in molti, ma (coltivando un dubbio) mi sono detto: «E se qualcuno non lo avesse ancora letto, o non lo avesse riletto da tempo?».

     Leggiamone un frammento:

LEGERE MULTUM….

Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963)

Gli itinerari che gli uccelli seguono migrando, verso sud o verso nord, d’autunno o a primavera, traversano di rado la città. Gli stormi tagliano il cielo alti sopra le striate groppe dei campi e lungo il margine dei boschi, ed ora sembrano seguire la ricurva linea di un fiume o il solco d’una valle, ora le vie invisibili del vento. Ma girano al largo, appena le catene di tetti d’una città gli si parano davanti.

Pure, una volta, un volo di beccacce autunnali apparve nella fetta di cielo d’una via.

E se ne accorse solo Marcovaldo, che camminava sempre a naso in aria.

... continua la lettura ...

     Questo è uno dei venti racconti che formano il romanzo costruito intorno alla figura, intorno alla maschera orfica, di Marcovaldo: questa è la chiave principale da usare. Si consiglia la lettura degli altri diciannove racconti, uno al giorno, per dieci minuti al giorno: è così che ci si abitua alla lettura. La lettura, e la scrittura, non è un atto estemporaneo ma è un’abitudine, un habitus mentale: è coltivando questa (buona) abitudine che si diventa lettrici, che si diventa lettori.

     L’Orfismo è alla base della sapienza poetica greca, e la sapienza poetica greca, nel corso del suo sviluppo, tende a rimuovere il nome di Orfeo. Il tema della sapienza poetica greca deve essere studiato tenendo conto di questa contraddizione di principio; e il testo de Le Storie di Erodoto, suggeriscono gli studiosi, allude a questa contraddizione: in che modo? L’Orfismo è la religione fondamentale dell’antica Grecia (e questo lo abbiamo capito) ma il fatto è che quando si pensa alla religione dell’antica Grecia non si pensa  all’Orfismo: e infatti questo dato culturale è stato rimosso. Quando pensiamo alla religione dell’antica Grecia pensiamo agli dèi, ma gli dèi non rappresentano la forma religiosa più antica dell’Ellade: sappiamo che c’è un pensiero religioso più arcaico con il quale siamo venuti a contatto.

     Erodoto, nel testo de Le Storie, nel libro IV, nel commentare il fenomeno della trasmissione della sapienza poetica orfica, affronta la questione degli dèi. Erodoto sostiene che gli dèi (gli dèi dell’Olimpo) sono figure (maschere) “nuove” (la deuteroprosopopea…). Gli dèi sono uno dei prodotti mitici che si sviluppano all’interno del vasto e straordinario paesaggio intellettuale dell’Orfismo, ed Erodoto, riflettendo su questo argomento che riguarda il tema delle Origini (una questione sulla quale lo scrittore allude, tra le righe della sua opera, incessantemente), tira in ballo le figure di Esiodo e di Omero (che rappresentano due capisaldi della sua formazione intellettuale). Le figure di Esiodo e di Omero rappresentano i primi due vertici sommi del movimento della sapienza poetica orfica. Erodoto è il primo esegeta (attento commentatore) delle opere di questi due personaggi che, nella storia della letteratura, riempiono il capitolo della poesia epica.

     Gli dèi, per Erodoto, non sono da considerarsi in origine come vorrebbe farci credere la religione dei Santuari, di Delo in particolare, e, sostiene lo scrittore, non lo erano neppure per Esiodo e per Omero. Gli dèi non stanno in principio, non sono in origine, allude Erodoto, e non posseggono la virtù dell’onnipotenza che li possa rendere creatori dell’Universo. Gli dèi, sostiene Erodoto, sono figure simboliche: non sono gli dèi ad aver originato la sapienza poetica, ma è stata la sapienza poetica, è stata la rete dei Racconti originari collegati ai culti orfici, ad aver originato gli dèi e gli eroi. Gli dèi sono il frutto della narrazione allegorica e vengono considerati, attraverso la rete dei Racconti cerimoniali, la rappresentazione dell’idea della perfezione.

     Gli dèi, per la cultura greca, non sono onnipotenti, gli dèi sono perfetti: che significato ha questa affermazione? Gli dèi sono ritenuti perfetti perché si tende a considerare perfetti gli oggetti dell’arte e della cultura che li evocano e li rappresentano: viene considerato perfetto ciò che li celebra e li raffigura. La parola perfezione è una delle parole-chiave in cui si manifesta, in origine, la sapienza poetica greca; ma anche la parola perfezione è in relazione al nome di Orfeo; il personaggio di Orfeo, infatti, richiama qualcosa di compiuto, di iniziatico, di perfetto: il suo canto, cioè la forma in cui inserisce un contenuto

     E ora, prima di proseguire questa riflessione sul tema della perfezione, leggiamo che cosa scrive Erodoto nel libro II de Le Storie in riferimento a Esiodo e a Omero.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Storie  II  53

Di chi fosse figlio ciascuno degli dèi, o se tutti fossero eternamente esistiti, quale aspetto avessero, nulla sapevano i Greci fino a poco fa, fino a ieri, si può dire.

Poiché Esiodo e Omero io ritengo che siano vissuti, quanto a età, 400 anni prima di me, non più; e furono essi a fissare per i Greci una teogonia, ad assegnare agli dèi i vari attributi, ripartendo prerogative e competenze e determinandone i tratti fisionomici, mentre l’opera (pragma citaredou-pragma citaredou) di quei poeti (Orfeo, Museo, Lino, Olimpo) che si dice siano esistiti prima di questi due, a mio giudizio, venne dopo.

Di quanto sopra è detto, la prima parte è quel che raccontano le sacerdotesse di Dodona; la seconda, che si riferisce ad Esiodo e ad Omero, è quanto sostengo io.

     Agli Olimpi, scrive Erodoto, il nome e la figura sono stati attribuiti «solo quattrocento anni prima di lui» con un’operazione di carattere letterario, nell’ambito del movimento culturale che chiamiamo la sapienza poetica.

     Prima di tutto in questo brano dobbiamo rilevare un particolare non facile da capire al di fuori della riflessione alla quale ci siamo dedicati: Erodoto commenta lo sviluppo della sapienza poetica affermando (è un’affermazione ambigua, come spesso avviene in Erodoto) che l’opera (pragma-pragma) attribuita agli antichi poeti (citaredou) di nome Orfeo, Museo, Lino, Olimpo è recente. Questo significa, allude Erodoto, che gli antichi poeti di nome Orfeo, Museo, Lino, Olimpo sono personaggi leggendari (non sono mai esistiti) e le opere attribuite a loro sono state scritte da poeti più recenti vissuti dopo Esiodo e Omero che hanno rielaborato – per ragioni liturgiche, mistiche, di intrattenimento – tematiche orfiche.

     I citaredi Orfeo, Museo, Lino, Olimpo, allude Erodoto, sono figure simboliche,  sono allegorie prodotte nella notte dei tempi (dalla creatività popolare in ambiente rurale) per dare un contenuto, per dare una base narrativa ai riti religiosi (ai culti orfici): è infatti – ed Erodoto dimostra di essere già cosciente di questo fatto – dalle composizioni popolari di carattere religioso (filastrocche, cantilene, inni) che ha avuto origine la letteratura greca e ha cominciato a svilupparsi la sapienza poetica orfica (come succede anche nelle altre civiltà al tempo degli albori). I poeti (i citaredi) Orfeo, Museo, Lino, Olimpo non sono autori di sapienza poetica ma sono oggetti della sapienza poetica (personaggi mitici inventati da poeti reali sconosciuti).

     Erodoto scrive che «l’opera (pragma citaredou) degli antichi poeti (Orfeo, Museo, Lino, Olimpo) viene dopo Esiodo e Omero» perché sa che i cosiddetti Inni orfici (Orfica) sono composizioni liriche (che lui afferma implicitamente di conoscere) formate da materiale liturgico proveniente dalla tradizione orale ma create in tempi recenti da una generazione (antecedente ad Erodoto) di cantori di professione (aedi) che s’inventano l’esistenza di quei mitici poeti (Orfeo, Museo, Lino, Olimpo) per dare un valore straordinario alle loro liriche, per aumentarne il tasso di qualità e soprattutto per poterle divulgare più facilmente nella rete dei riti, nell’ambito delle cerimonie.

     A questo proposito dobbiamo dire che la tradizione degli Inni orfici si è sempre conservata (l’Orfismo non si è mai estinto) e nel corso dei secoli le composizioni di carattere mistico (chiamate Orfica) attribuite ad Orfeo sono periodicamente riemerse. Dobbiamo ricordare che dal IV secolo d.C. c’è, nel bacino del Mediterraneo, un vero e proprio ritorno all’Orfismo come reazione alla scalata al potere da parte del Cristianesimo. Il Cristianesimo, lo abbiamo studiato a suo tempo, s’impone, soprattutto nelle campagne, sovrapponendosi all’Orfismo, facendolo riemergere in una nuova veste e riprendendone i culti: la figura di Cristo sostituisce quella di Orfeo (la narrazione della passione, della morte e della resurrezione di Cristo è costruita come un racconto orfico perché la storia tragica e salvifica di Orfeo, che ha già circa 1000 anni di vita, è simile alla storia tragica e salvifica di Cristo).

     Erodoto sarebbe contento, se il suo sguardo potesse arrivare davvero fino a noi, di poter consultare un libro che s’intitola Frammenti Orfici e che avvalora la tesi che lui coltiva dal V secolo a.C.. Frammenti Orfici è una raccolta di materiali, attribuiti ad Orfeo, ricostruiti in epoca ellenistica nel II e III secolo d.C. schedando soprattutto i testi delle Tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide: ciò che conosciamo sull’Orfismo proviene da questi preziosi frammenti.

     Facciamo ancora un riferimento su un’opera che viene considerata la più significativa della tradizione orfica intitolata Le Dionisiache, uno straordinario poema in 48 canti scritto da Nonno di Panopoli (un personaggio, un intellettuale alessandrino, di cui conosciamo pochissimo) nel V secolo d.C. e di cui molte volte abbiamo parlato.

     Dobbiamo poi constatare che Erodoto, nel brano che abbiamo letto (il capitolo 53 del libro II de Le Storie), cita Esiodo prima di Omero: forse la scelta dipende dal fatto che Esiodo è un personaggio, un poeta (prossimamente lo incontreremo da vicino) realmente vissuto mentre sull’esistenza di Omero, molto probabilmente, Erodoto nutre qualche dubbio. Omero è l’aedo (il cantautore) per eccellenza al quale si attribuisce la stesura dei poemi Iliade e Odissea, ma noi sappiamo, a cominciare dalle ricerche filologiche di Giambattista Vico (1668-1744), che Omero non è mai esistito in quanto persona e che i cosiddetti poemi omerici sono frutto di un’elaborazione collettiva (del movimento della sapienza poetica orfica) che dura decenni. 

     Dobbiamo ricordare (visto che stiamo giocando con la lingua greca di Erodoto) che il temine Omero non è un nome proprio (e non è facile che la figura di Omero corrisponda a una persona reale e questo Erodoto lo sa) ma è una metafora: me oròn significa cieco, non vedente, ma,  siccome il termine oròn è il confine, significa anche colui il quale vede al di là del confine della realtà. La parola Omero definisce una categoria piuttosto che una persona: la categoria dei poeti che sono capaci di vedere al di là del confine della realtà.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Che cosa vedi tu, oggi, al di là del confine della realtà?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Fino a ieri, scrive Erodoto, non si sapeva dove fosse nato ciascuno degli dèi, o se fossero esistiti eternamente, e che aspetto avessero.  Per Erodoto, ieri significa Esiodo e Omero, che sono vissuti, allude Erodoto, in un’era antica, l’era degli albori, l’era dei logografi, l’era degli scrittori di miti, degli inventori dei racconti cerimoniali. E sono questi cantori delle origini. allude Erodoto, che hanno dato i nomi agli dèi, distribuendo gli onori e le arti e descrivendo il loro aspetto. Ad Esiodo, che Erodoto cita per primo rispetto ad Omero e di cui dimostra di conoscere le opere, Erodoto riconosce la fatica (è una parola-chiave in Esiodo…) di cercare le origini del Cosmo, mentre questo non avviene nelle opere di Omero. Erodoto vede in questa operazione culturale di Esiodo un lento ma graduale processo di distacco dai miti (un atteggiamento che condivide e che gli fa preferire Esiodo ad Omero); infatti Esiodo, nella Teogonia, scrive:

LEGERE MULTUM….

Esiodo,  Teogonia

Solo alla fine, dopo che il Cosmo aveva più volte tremato per conto suo, Zeus spartì fra gli dèi gli onori.

     Erodoto conosce sicuramente questo verso molto significativo in cui, in modo evidente sebbene misterioso, Esiodo proclama che il Cosmo (il Mondo) esiste ben prima degli dèi e il Cosmo (il Mondo) trema (sa tremare) per conto proprio: Zeus e gli dèi vengono dopo la comparsa e la nascita del Cosmo (del Mondo). Invece i testi dei poemi di Omero, allude Erodoto, colpiscono per la loro indifferenza verso il tema delle Origini. Omero, ed Erodoto sembra rimproverare Omero ed approvare Esiodo, pretende di cominciare a raccontare la storia del mondo non dagli inizi ma dalla fine: dall’ultimo  di quei dieci anni disastrosi di guerra sotto le mura di Troia (sappiamo che l’Iliade narra gli ultimi cinquantun giorni di questa guerra). La guerra cantata da Omero, allude Erodoto, serve soprattutto a cancellare la stirpe degli eroi (il tema è l’ira) e a ribadire l’immortalità degli dèi che rimangono immobili sull’Olimpo.

     Ma perché, si domanda Erodoto, Omero si disinteressa di ciò che è successo prima dell’Olimpo? E questo prima, per Erodoto, non è l’avverbio di tempo proteron, ma è la preposizione meta nel senso di al di là: l’Olimpo è un monte simbolico, è un luogo mitico, è un palcoscenico dove appaiono delle maschere che recitano i testi approntati dalla prosopopea. In Omero vi sono solo rari accenni e assai fuggevoli sul tema delle Origini, lui, allude Erodoto, non ha voglia di addentrarsi in particolari: perché Omero non vuole interrogarsi sulla questione delle Origini? Perché in Omero, allude Erodoto, all’idea delle Origini si sovrappone l’idea della perfezione. La parola perfezione, sulla quale dobbiamo puntare la nostra attenzione, è una delle parole-chiave fondamentali in cui si manifesta la sapienza poetica orfica, e sulla quale, a commento, si esercita, in chiave antropologica, la sapienza poetica di Erodoto.

     È chiaro che, allude Erodoto, di fronte all’idea della perfezione che cosa resta da dire? Di fronte alla perfezione si rimane a bocca aperta, in adorazione. La perfezione si presenta come una maschera immobile: ci può essere un volto, si domanda Erodoto, sotto la maschera della perfezione? Omero, allude Erodoto, preferisce cantare il destino di un guerriero acheo (di Achille) o parimenti di un guerriero troiano (di Ettore) o raccontare le avventurose peripezie incontrate (o immaginate volutamente) durante il ritorno a casa (il nostos) di Ulisse.

     La perfezione è qualcosa di cui non si parla, di cui non si riesce a parlare: l’idea di perfezione presuppone il silenzio. Ciò che è perfetto, infatti, trova la sua origine in sé stesso e non ama dilungarsi sulla propria formazione: chi è perfetto (per se unum) taglia ogni legame con il mondo circostante, perché basta a se stesso (per se unum: solo per se stesso, solo con se stesso). La perfezione non racconta la propria storia, ma offre il proprio compimento. Gli abitatori dell’Olimpo, gli dèi, allude Erodoto interpretando Omero, più che a essere potenti, tengono ad essere perfetti. Così li percepisce Omero nella sua poesia epica, nella sua prosopopea: facendo calare il silenzio sulla loro origine. Ma Erodoto rompe il silenzio di Omero e, nel suo dire allusivo, fa esercizio di sapienza poetica in chiave antropologica: che cosa sono gli dèi? Gli dèi, allude Erodoto, sono quello che vedo, e quello che vedo di un dio, scrive Erodoto, è la statua che lo rappresenta, che lo raffigura.

     Quante volte l’anno scorso, seguendo Erodoto nei grandi santuari del mondo a caccia di notizie, lo abbiamo sentito dire: «Nei santuari non vedo che statue di dèi che tendono alla compiutezza, che hanno un valore iniziatico, che alludono alla perfezione». Prima degli dèi, riferisce Erodoto, esercitandosi in sapienza poetica in chiave antropologica, ci sono le statue che li rappresentano, ma la statua, allude ancora Erodoto, non è l’ultimo anello: che cosa c’è prima della statua? Prima della statua c’è il suo realizzatore, ma prima ancora del suo realizzatore c’è il racconto, perché la statua è la manifestazione (epifania, in greco ionico) di un racconto: sono i racconti mitici ad avere ispirato i realizzatori di statue.

     Gli dèi Olimpi, allude Erodoto, sono un gruppo di figure immaginate, isolate nell’aria, compiute, iniziatiche, perfette. Ma la compiutezza e la perfezione che noi recepiamo di queste figure è la compiutezza e la perfezione delle statue che realizzano, che esaltano,  la compiutezza e la perfezione di un racconto. In principio, secondo Erodoto, che si esercita in sapienza poetica in chiave antropologica, esiste il racconto: e chi ha dato forma al racconto se non le poetesse e i poeti? Erodoto preferisce le opere di Esiodo (anche se sono meno poetiche) rispetto a quelle di Omero

     Lo scorso anno abbiamo messo in evidenza le famose sette citazioni di Omero che si trovano nel testo de Le Storie: ebbene Erodoto cita sempre Omero per criticarlo, e anche per smentire le cose che dice. Gli esperti dicono che Erodoto non critica tanto Omero (della cui esistenza dubita) ma disapprova l’uso didattico che delle opere di Omero viene fatto nelle Scuole ioniche del suo tempo. Erodoto non condivide che la Scuola esalti il carattere bellicoso e cavalleresco dell’Iliade, non condivide che insegni l’ingenua rappresentazione geografica che i poemi omerici danno del mondo, e soprattutto non condivide che la Scuola imponga senza interrogativi, la visione (la prosopopea) omerica degli dèi. Erodoto non condivide il fatto che la religione nell’universo omerico, popolato di guerrieri, si riduca a rituali, spesso cruenti, e perda il suo carattere di anelito verso la trascendenza. In Omero la religione si confonde con la prosopopea e gli dèi sono tali e quali alle maschere che gli uomini mettono a se stessi per nascondere, in modo ipocrita, il loro vero volto.

     L’Olimpo omerico è solo un riflesso, in una sfera di immortalità, dello stesso ideale di vita incarnato dai guerrieri e dagli eroi: Achille, Agamennone, Diomede, Aiace ed Ettore, ma questi guerrieri, questi eroi, sono maschere.

     Le dodici divinità maggiori, tante sono nel Pantheon omerico, vivono una vita che è, né più né meno, quella dei signori dell’aristocrazia che hanno sempre un elmo sul volto. Gli dèi di Omero non sono più divinità naturalistiche, nel senso che non si identificano con le potenze della Natura, anzi usano la Natura a loro vantaggio, con arbitrio, senza nessun rispetto. Gli dèi di Omero non sono, propriamente parlando, divinità religiose, perché, allude Erodoto, non dicono nulla alla coscienza dell’essere umano. Di fronte agli dèi di Omero (compiuti, iniziatici, perfetti) non si avverte il fascino del mistero e la persona non viene invitata ad interrogarsi sull’enigma delle Origini. Gli dèi di Omero vivono nei loro palazzi eterei (simili alle regge cretesi) e assistono Zeus, il loro re, con riunioni di consiglio e con assemblee (alle quali sono ammesse anche le divinità inferiori), e ingannano il tempo interminabile dell’immortalità con intrighi, tresche, competizioni, in cui è assente ogni idealità morale. Gli dèi di Omero non sono neppure al vertice della gerarchia cosmica: sopra tutto c’è il Fato, una forza (Omero non s’interroga sulla natura di questa forza) da cui dipendono tanto gli umani quanto gli dèi. Il Fato omerico si caratterizza soprattutto per la sua casualità: le cose succedono per caso, il Fato è cieco.

     Erodoto privilegia Esiodo perché nelle sue opere si riscontra un’idealità morale per cui si presume che il Destino corrisponda ad una Giustizia superiore che dà e che toglie a seconda dei modi di comportarsi degli individui. Questo concetto del Destino è simile a quello che troviamo ne Le Storie di Erodoto. L’idea di una Giustizia superiore, che dà a chi si umilia e che toglie a chi si esalta con arroganza, è profondamente radicata nella tradizione orfica.

     Ma i cantori (gli aedi, i citaredi), che hanno creato i versi della poesia epica dell’Iliade e dell’Odissea, hanno già cominciato a ragionare guardando al di là dell’Orfismo. I cantori (gli aedi, i citaredi), che hanno creato i versi della poesia epica dell’Iliade e dell’Odissea, hanno nella memoria i racconti, i personaggi, le maschere della cultura rurale orfica della Tracia e della Tessaglia (la cultura dell’arte dell’intreccio della paglia di grano direttamente legata ai nomi di Orfeo e di Dioniso), ma contemporaneamente hanno lo sguardo rivolto verso Delo dove la nuova ideologia della polis favorisce l’ideazione di nuove maschere (Apollo e Artemide) che si traduce nella creazione delle statue e nella istituzionalizzazione della trafila delle offerte. Le offerte (i cantori offrono la poesia), avvolte nella paglia di grano intrecciata (la tradizione orfica e dionisiaca), vengono prima deposte ai piedi della statua di Ilizia e di Latona, e poi ai piedi delle statue di Apollo e di Artemide: e questa è  la metafora a cui allude Erodoto nel IV libro de Le Storie.

     I testi dell’Iliade e dell’Odissea, ed Erodoto ne è un attento commentatore, sono il classico esempio dello sviluppo della sapienza poetica greca che si dipana dal modello orfico-dionisiaco rappresentato dalla maschera intrecciata con la paglia di grano (dagli Inni sacri, alle Canzoni di gesta eoliche) fino al modello apollineo (ai Poemi epici) dove la maschera si concretizza nella statua: un oggetto a tutto tondo, solido, compiuto, iniziatico, perfetto.

     Erodoto allude al fatto che gli dèi, in particolare gli dèi Olimpi, s’identificano con le statue che li raffigurano. Erodoto, nel testo de Le Storie, cita 25 volte la parola statua e 23 volte la parola statue (diverse volte le due parole – al singolare e al plurale – vengono usate in concomitanza). C’è una considerazione che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo fare sul modo in cui Erodoto usa la parola statua. Quando Erodoto si riferisce alle statue che raffigurano divinità egizie o mesopotamiche usa la parola ágalma che dà alla statua soprattutto il significato di un ornamento, di un oggetto di abbellimento, difatti deriva dal verbo ágállo che traduce i termini: ornare, onorare, e anche gloriarsi. Quando Erodoto si riferisce alle statue che raffigurano divinità olimpiche (gli dèi greci) utilizza la parola ándriás che attribuisce alla statua il significato di un oggetto che mette in evidenza l’essere umano perché la parola andródes traduce (anche) il termine corporeo.

     Erodoto afferma che il mondo greco ha importato gli dèi, rappresentati dalle loro statue, dalla Mesopotamia e soprattutto dall’Egitto, ma vuole specificare che, contrariamente a ciò che succede in Mesopotamia e in Egitto, dove le statue sono soprattutto uno strumento di abbellimento che serve per mascherare gli dèi e per esaltarne la divinità, in Grecia la statua è un oggetto che viene usato per togliere la maschera agli dèi sostituendola con l’immagine del volto umano. E come sempre nel mondo greco le cose funzionano in modo aporetico, contraddittorio: la statua greca, infatti, da una parte perfeziona il mascheramento, la prosopopea degli dèi, dall’altra compie un’operazione di smascheramento della divinità che vorrebbe rappresentare, perché mira a esaltare l’umanità dei volti, dei corpi, dello spirito. Nel mondo greco, allude Erodoto, la statua (ándriás) riduce il valore di ciò che è divino per aumentare l’importanza di ciò che è umano: non sono gli esseri umani ad essere in funzione degli dèi ma sono gli dèi ad essere in funzione degli esseri umani.

     Erodoto ha potuto ammirare, ad Atene, con i propri occhi (facendo l’autopsia: così chiama Erodoto ciò che si constata personalmente) la realizzazione delle statue greche, che raffigurano gli dèi Olimpi, nelle famose botteghe di Fidias, Scopas, Prassiteles. La statua greca è un oggetto culturale speciale: un oggetto a tutto tondo, che riempie lo spazio cosmico con il suo volume, ed è frutto di una sintesi che cerca l’armonia e l’equilibrio delle proporzioni (come il tempio). La statua greca tende ad essere un oggetto compiuto: che cosa significa? Significa che pretende di far coincidere l’inizio (il dio) con la fine (la sua manifestazione, la sua epifania in greco), pretende di creare il compimento delle cose; quindi è un oggetto iniziatico, che presiede a riti di iniziazione e ad atti di culto: dinanzi alla statua si prega, ci si raccomanda, ci si affida, si celebra…

     Nella polis (in un santuario come Delo) la statua più che un valore religioso-sacrale assume un valore laico-istituzionale: sotto la statua si promette di servire le Istituzioni della polis, si giura fedeltà alla Costituzione della polis, e si dichiara di rispettarne le leggi.

     Lo scultore (il vasaio, il demiurgo), con la realizzazione della statua, intende avvicinarsi e raggiungere la perfezione. La statua greca viene considerata, quindi, un oggetto compiuto, iniziatico, perfetto. Queste tre parole, in greco, sono una parola sola: téleios. La parola greca téleios definisce il concetto della perfezione, di ciò che è compiuto, di ciò che è originale. Se la statua rappresenta simbolicamente gli dèi, rappresenta un’idea che c’è già, infatti la statua appare più tardi rispetto agli dèi. La statua rappresenta l’origine, il modo di manifestarsi di quegli esseri nuovi, che sono gli dèi Olimpi, ma viene dopo di loro. La statua contiene, in modo simbolico, in modo sintetico, il racconto in cui gli dèi sono protagonisti; e questo significa che prima della statua, come oggetto compiuto iniziatico perfetto, in principio: c’è il racconto. La parola racconto, in greco, la troviamo espressa da tre termini significativi:  logos, epos e mytos. Questi tre termini significano ciascuno contemporaneamente: la parola, il discorso, il racconto.

     In principio, per il movimento della sapienza poetica orfica, c’è il logos (così inizia, circa 500 anni dopo, il famoso Prologo del Vangelo secondo Giovanni), c’è l’epos, c’è il mytos. Prima della statua, quindi, è il racconto ad essere considerato: compiuto, iniziatici. In principio, quindi, prima della statua e prima degli dèi, è il racconto ad essere téleios, ad essere perfetto. Siccome sappiamo che il racconto non potrebbe esistere senza la forma (Inno sacro, Canzone di gesta, Narrazione epica) data dalla poesia, possiamo dire, ancora una volta, che: in principio è la poesia a identificarsi con le Origini. In origine la poesia è lo strumento con cui si tramandano i racconti, poi sui racconti si codifica il culto, s’intrecciano le maschere (Orfeo e Dioniso), e dallo sviluppo della sapienza poetica nascono gli dèi Olimpi, raffigurati, infine, dalla statua.

     La perfezione, quindi, téleios, in greco, si trova nella statua, ma ha le sue radici più antiche nel racconto e nella poesia: le radici della perfezione sono, quindi, nella poesia. Il termine téleios, la perfezione, insieme al termine poίesis, la poesia, va ad arricchire il catalogo di parole-chiave che il movimento della sapienza poetica greca ha lasciato in eredità alla Storia del Pensiero Umano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è una statua – magari non annoverata tra le statue famose – che fa parte della tua esperienza personale? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Da quel poco che conosciamo della biografia di Erodoto – lo scrittore nel testo de Le Storie non parla mai di se stesso – sappiamo che c’è un momento, nella sua vita, in cui è certamente venuto a contatto con le statue, vale a dire con l’arte di creare le statue, e possiamo capire da dove deriva la riflessione che, a questo proposito, troviamo nel testo della sua opera: le statue greche sono perfette, compiute, iniziatiche perché il loro realizzatore (studia) s’ispira alla perfezione formale, alla poίhsiς-poίesis, alla poesia, con cui è costruita la prosopopea, con cui si evolve l’attività letteraria del movimento della sapienza poetica orfica.

     Dal Percorso precedente noi ricordiamo che Erodoto, ne Le Storie, di sé stesso racconta solo di essere nato ad Alicarnasso, sulla costa occidentale dell’Asia. Alicarnasso oggi corrisponde alla cittadina di Bodrum, sulla costa egea della Turchia. In questo periodo – siamo nell’Età assiale della storia – l’Asia è il centro del mondo. I biografi sono abbastanza concordi nel sostenere che Erodoto è nato tra il 490 e il 480 a.C., forse nel 484. Chi sono i genitori di Erodoto? Chi sono i suoi fratelli e le sue sorelle? Com’è fatta la sua casa? Le risposte a queste domande sono immerse nelle nebbie dell’incertezza.

     Alicarnasso, quando nasce Erodoto, è una polis greca, è una colonia ellenica fondata sul territorio asiatico della Caria, vicino al confine (a nord) con la Ionia. La polis di Alicarnasso è soggetta alla Persia, e l’Impero persiano, in questo momento, sta dominando su gran parte del territorio asiatico di occidente.

     Il padre di Erodoto, secondo le fonti (i grammatici alessandrini) che noi possediamo, si chiama Lyxes: questo nome non è greco e gli antichisti pensano che il padre di Erodoto fosse appunto un caro, un abitante originario della regione della Caria. La madre di Erodoto, invece, secondo le fonti (i grammatici alessandrini), è quasi sicuramente greca.

     Erodoto nasce di sangue misto (euro-asiatico), è quindi un greco di confine: un tipo di persona prodotto da incroci razziali e culturali, la cui visione del mondo è influenzata da concetti quali la frontiera, la distanza, la diversità e la varietà. Nessuno è (nessuno si deve sentire) il nucleo centrale di un Ego che domina il mondo e, a questo proposito, Erodoto ci dà dei ragguagli su quella che è una delle sfide più importanti del ventunesimo secolo: capire le diversità e imparare a gestirle con mezzi pacifici.

     Sappiamo che Erodoto è andato a scuola ma non sappiamo che tipo di studente fosse. Ad Alicarnasso c’è il porto, è uno scalo commerciale dei traffici tra l’Asia, il Medio Oriente e la Grecia vera e propria. Qui attraccano le navi dei mercanti fenici provenienti dalla Sicilia e dall’Italia, le navi greche in arrivo dal Pireo e da Argo, le navi egiziane provenienti dalla Libia e dal delta del Nilo. È probabile che il padre di Erodoto sia stato un mercante, e sarà stato lui, forse, a suscitare nel figlio la curiosità per il mondo e a far sì che diventasse un grande viaggiatore.

     Certamente Erodoto riesce a cogliere e a interiorizzare, fin da bambino, l’idea che l’azione del raccontare è buona, è utile, è bella perché riduce le distanze, perché avvicina le persone.

     Dai pochi dati pervenutici (dai grammatici alessandrini) sappiamo che il piccolo Erodoto aveva uno zio poeta, di nome Paniassi. Lo zio Paniassi ha sicuramente fatto conoscere al nipote, fin da bambino, la cultura ionica: le opere di Callino e di Mimnermo (personaggi che abbiamo incontrato lo scorso anno) e poi naturalmente le opere di Omero e di Esiodo. Il poeta Paniassi lo troviamo nominato nelle Storie della Letteratura greca nei capitoli che riguardano la poesia epica e ha scritto un poema intitolato Eraclea (in cui il protagonista è Eracle o Ercole) poi ha scritto una Storia Ionica. Queste due opere ebbero grande successo e, in quel tempo, divennero molte famose, purtroppo ce ne rimangono solo pochi frammenti.

     Possiamo immaginare che questo zio portasse il piccolo Erodoto a spasso con sé, e gli insegnasse il bello della poesia, i segreti della retorica e l’arte del racconto, perché Le Storie di Erodoto sono certo frutto del talento, ma sono anche un esempio di arte letteraria e di tecnica della scrittura. Noi nasciamo con più o meno talenti ma, se non impariamo l’arte, i talenti non si sviluppano: scrittrici, scrittori non si nasce, si diventa cominciando con l’essere scrivane, scrivani…

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è una zia (o più di una) o uno zio (o più di uno) che ha influito positivamente (o negativamente) sulla tua formazione? 

Scrivi quattro righe in proposito…

Prova a cercare qualche notizia in più – utilizzando l’enciclopedia o la rete – sul poeta epico Paniassi di Alicarnasso, zio di Erodoto…  

     Le fonti (i grammatici alessandrini) c’informano che Erodoto, ancora giovane, viene coinvolto in un’azione politica proprio dal padre Lyxes e dallo zio Paniassi. I due, infatti, partecipano alla rivolta contro Ligdami il tiranno di Alicarnasso, che riesce comunque, con le sue guardie, a domare l’insurrezione. I ribelli devono scappare e si rifugiano a Samo, un’isola montuosa e ospitale a due giorni di navigazione da Alicarnasso verso nord-ovest.

     Lo abbiamo preannunciato la scorsa settimana, e ribadito all’inizio di questo itinerario, che saremmo sbarcati (anche lo scorso anno abbiamo fatto una capatina qui) sull’isola di Samo.

     Il giovane Erodoto, in fuga, trascorre a Samo alcuni anni della sua vita e forse è da qui che parte per i suoi viaggi nel mondo. Che cosa trova il giovane Erodoto a Samo? E noi che cosa troviamo a Samo? C’è da dire che la nostra nave Sidonia, col suo bell’albero maestro (o albero genealogico lessicale) e la figura del capitano Agenore di Tiro suscitano la curiosità dei Samioti o Sami (così chiama Erodoto gli abitanti di Samo) di oggi.

     Siamo sbarcati, dopo una perfetta manovra virtuale di attracco, nel piccolo, ma animato, porto di Sàmos (il Limin Vathéos, il porto di Vathi). La cittadina di Sàmos è il capoluogo dell’isola ed è situata in una profonda insenatura della costa settentrionale. L’isola di Samo è la più grande delle Sporadi meridionali e si trova a soli due chilometri dalla costa dell’Anatolia, dalla costa della Ionia (come si chiamava al tempo di Erodoto). Samo è attraversata da una catena montuosa che culmina, a ovest, nel monte Kerketéas che è alto ben 1433 metri. L’isola ha un clima mite e, in inverno, piove spesso, e questo fatto la rende ricca di vegetazione e soprattutto di corsi d’acqua. Il clima, la vegetazione, i buoni vini (il famoso moscato di Samo), le aree archeologiche, le belle spiagge rendono piacevole un soggiorno a Samo.

     Samo, 2500 anni fa, è stato uno dei principali centri della civiltà ionica: il primo centro dove il movimento della sapienza poetica orfica ha operato una sintesi e ha prodotto un Manifesto culturale. Le idee di questo Manifesto culturale si possono cogliere soprattutto con una visita al Museo archeologico allestito presso il Municipio della cittadina di Sàmos.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la rete e (in particolare) la guida della Grecia puoi fare una visita all’isola di Samo e ai suoi tre principali centri abitati: Sàmos, Kokàri e Karlovàssi … Dobbiamo anche ricordare che a Samo è nato Pitagora, il matematico, (che incontreremo prossimamente), l’astronomo Aristarco ed il filosofo Epicuro

Buone ricerche e, se qualcosa, a Samo, ti colpisce particolarmente, scrivi quattro righe in proposito…

     Appena sbarcati Erodoto, che è un po’ emozionato nel ritrovarsi a Samo (forse non ci tornava da circa 2500 anni), vorrebbe prendere subito la parola per presentarci un primo personaggio, che cita ben 24 volte, nel II e nel III libro de Le Storie, e che è il protagonista di uno dei famosi racconti allegorici che si possono leggere nell’opera di Erodoto. Poi, lo scrittore vorrebbe subito presentarci un secondo personaggio di Samo sul quale è doveroso imbastire un’ampia riflessione.

     Ma ormai è tardi ed Erodoto prende atto che è meglio dar retta al capitano Agenore di Tiro il quale conosce le taverne, oltre che i musei, e sa dove si possono mangiare buoni dolcetti (alla pasta di mandorle) e bere dell’ottimo moscato samiota. Agenore di Tiro ci porta (a sud di Sàmos) in una bella cittadina che si chiamava Tigàni, e che oggi (dal 1955) si chiama Pithagòrio (in onore del grande matematico che è nato qui).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con la guida della Grecia, o utilizzando la rete, fai una visita a Pithagòrio: che cosa c’è di bello, d’interessante (oltre alle taverne)?…

     Sapete chi sono i personaggi che dobbiamo incontrare su questa bella isola? Sapete quali sono le idee contenute nel Manifesto culturale della Scuola di Samo, che è il primo importante documento che codifica la sapienza poetica orfica? Ebbene, sarà Erodoto (se questa sera non beve troppo ) a rispondere la prossima settimana a queste domande significative. La Scuola di Samo può – «finzione vera, paradossale autenticità» (ricordate Fernando Pessoa?) – materializzarsi qui …

     Voi accorrete, perché la Scuola si materializza con la vostra presenza: la Scuola è delle cittadine e dei cittadini che sentono il dovere di studiare per acquisire il diritto all’apprendimento …

 

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Novembre 15, 2006