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LO SGUARDO DI HEGEL SULL’ASSOLUTO “CHE È GIÀ NELLA NOSTRA COSCIENZA” ...

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Hegel  2007     16-17-18   maggio  2007

LO SGUARDO DI HEGEL

SULL’ASSOLUTO “CHE È GIÀ NELLA NOSTRA COSCIENZA” ...

     La scorsa settimana abbiamo letto l’indice di una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano: la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Abbiamo preso atto del fatto che quest’opera è stata scritta da Hegel in mezzo a molte difficoltà di carattere materiale e psicologico,  che hanno lasciato il segno nel testo di quest’opera per cui la lettura della Fenomenologia dello Spirito si presenta come un’esperienza difficoltosa e assai complessa. Hegel – per tutte le ragioni (la guerra, la miseria, l’ambizione, la volontà di emergere, il disappunto perché la sua amante è incinta) che abbiamo illustrato nell’itinerario precedente – ha in testa una gran confusione e non riesce sempre a esprimere bene i contenuti del suo pensiero e non sempre riesce a usare una forma linguistica comprensibile.

     La Fenomenologia dello Spirito, abbiamo detto, nell’intenzione di Hegel rappresenta una premessa: il preambolo ad un trattato che deve occuparsi di Logica e di Metafisica per poi approfondire la filosofia della Natura e dello Spirito. Hegel, in una lettera a Schelling che abbiamo letto la scorsa settimana, fa presente che quanto ha scritto è solo l’introduzione, è solo la prima parte di un vasto saggio e afferma di non essere neppure all’inizio della trattazione. Quindi possiamo presumere che, nel progetto iniziale di Hegel, lui voglia mettere in pratica l’idea – è una delle idee-cardine provenienti dal movimento della sapienza poetica orfica (un argomento su cui siamo edotte/i) – che per capire la parte è necessario conoscere il tutto, è necessario avere il quadro d’insieme: Hegel ha ben chiaro in testa il percorso del suo sistema di pensiero che, alla fine, corrisponde all’indice della Fenomenologia ma, nello scriverla, non sa quanta parte dell’indice, questa sua opera, dovrà comprendere. Infatti l’ultima parte che Hegel scrive della Fenomenologia dello Spirito è la Prefazione nella quale deve dire che, giunto alla fine del suo lavoro, si rende conto di aver scritto qualcosa di diverso (non un tutto) da quello che era nelle sue intenzioni (alcune parti prevalgono, e ogni parte – in questo gioco delle parti – risulta essere un tutto per conto suo). Per questo motivo la Prefazione della Fenomenologia è stata collocata alla fine dell’opera e andrebbe chiamata Postfazione.

    E allora ricapitoliamo e cerchiamo di ripartire su questo terreno accidentato per un breve viaggio, soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura, che possa stimolare in noi delle riflessioni.

     Noi non vogliamo (non siamo neppure all’altezza e, poi, bisogna essere umili per convinzione, non per ipocrisia,) occuparci del problema delle interpretazioni della Fenomenologia (anche perché ce ne dovremo occupare, strada facendo, quando incontreremo pensatrici e pensatori che hanno studiato e interpretato il pensiero di Hegel per costruire i loro sistemi filosofici, o scrittrici e scrittori che hanno interpretato il pensiero di Hegel per costruire i loro testi letterari, i loro romanzi), noi dobbiamo piuttosto riflettere su che cosa – attraverso le significative parole-chiave che contiene – dice a noi, oggi, la Fenomenologia dello Spirito. Infatti, se la Fenomenologia è un viaggio intellettuale all’interno della coscienza (e questo è un fatto appurato che esula dal tema dalle interpretazioni: è un dato di fatto), significa che il primo obiettivo è quello di invitare ciascuna persona ad incamminarsi sul sentiero della propria coscienza: quali figure, quali paesaggi intellettuali, quali spauracchi ci sono all’interno della nostra coscienza? Da questo punto di vista la Fenomenologia dello Spirito continua a rimanere un’opera di grande attualità che serve (diciamo così) per verificare il tasso di percorribilità della nostra coscienza.

     Sappiamo (abbiamo imparato la scorsa settimana) che la Fenomenologia dello Spirito si divide in otto parti: Introduzione, Coscienza, Autocoscienza, Ragione, Spirito, Religione, Sapere assoluto e Prefazione. L’indice di quest’opera (anche i termini Introduzione e Prefazione) ci presenta un bel catalogo di parole-chiave (Coscienza, Autocoscienza, Ragione, Spirito, Religione, Sapere assoluto) che noi utilizziamo quotidianamente.

     La Fenomenologia dello spirito comincia con un’Introduzione, e la scorsa settimana ne abbiamo letto un frammento. La difficoltà di lettura dell’opera si presenta subito dall’Introduzione che contiene alcune ambiguità dovute al fatto – ripetiamo – che Hegel crede di avere chiaro l’indice ma poi non riesce a governarlo per cui il testo dell’opera gli cresce tra le mani senza equilibrio tra le parti. Prima di tutto, nell’Introduzione, Hegel comincia a definire la sua opera affermando  che  si deve intitolare: La scienza dell’esperienza della coscienza. Quindi l’Introduzione si riferisce solo ai primi tre capitoli dell’opera? L’Introduzione prevede che l’opera si occupi esclusivamente dei primi tre temi: la Coscienza, l’Autocoscienza e la Ragione? Questo significa che le altre parti – Spirito, Religione, Sapere assoluto – vanno oltre le intenzioni originarie di Hegel che, durante la difficoltosa stesura del libro, avrebbe sviluppato ulteriormente il suo progetto?

     Questo cambiamento di prospettiva in corso d’opera – per cui la seconda parte della Fenomenologia non corrisponde più a quell’esperienza della coscienza presentata nell’Introduzione – rende più complicato il lavoro dello scrittore (e più complicato l’esercizio di chi legge) e noi sappiamo, per giunta, che Hegel non è un grande scrittore: è un volenteroso scrivano (il giudizio non è mio: io non sono neanche in grado di formulare un giudizio esaustivo in proposito). Queste ambiguità(come sono state definite dalle studiose e dagli studiosi) non hanno, però, arrecato danno all’opera anzi hanno fatto aumentare l’interesse per la ricerca: che cosa vorrà dire Hegel in questa frase complicata?  Si domandano le lettrici e i lettori e formulano delle ipotesi. E siccome le affermazioni di Hegel – sebbene espresse in modo complesso – contengono sempre un’idea (anzi più idee accavallate insieme) ecco che l’esercizio di interpretazione sul testo hegeliano diventa produttivo per stimolare il pensiero personale di chi legge.

     A questo proposito, dobbiamo ancora una volta dire che il testo della Fenomenologia dello Spirito ha creato numerosi impulsi che sono stati tradotti in percorsi culturali (in sistemi filosofici e in letteratura, e questo c’interessa particolarmente perché il nostro percorso è in funzione della didattica della lettura e della scrittura).

     All’inizio dell’Introduzione della Fenomenologia dello Spirito – come abbiamo letto la scorsa settimana – Hegel definisce prima di tutto come si ponga per lui il problema del conoscere: di quale strumento l’essere umano ha bisogno per conoscere l’Assoluto al quale tende? Hegel critica alcune concezioni filosofiche che affrontano questo problema: in particolare critica il sistema di Kant e quello di Cartesio. Questi due filosofi – Kant e Cartesio (e noi abbiamo già avuto modo d’incontrarli) – pongono la questione della conoscenza separando nettamente il soggetto che conosce, dall’oggetto che deve essere conosciuto: da una parte c’è la persona con la sua ragione soggettiva che è lo strumento della conoscenza, e dall’altra c’è l’oggetto da conoscere che è assolutamente separato dal soggetto. Per Hegel – ed è qui la chiave di volta del suo pensiero – questa è una preoccupazione inutile. Perché è una preoccupazione inutile quella di definire lo strumento o il mezzo per conoscere l’Assoluto? Perché l’Assoluto non è, afferma Hegel, un oggetto fuori di noi, ma l’Assoluto è già presso di noi, è già nella nostra coscienza. Questo è il primo concetto fondamentale da mettere a fuoco per cercare di capire il percorso di Hegel. 

     Che cosa intende Hegel per Assoluto? Hegel, per Assoluto, in partenza, intende “ciò che è in verità” vale a dire il Sapere assoluto a cui tutti tendiamo. Ebbene questo Sapere assoluto è già nella nostra coscienza ma, nella maggior parte dei casi, l’essere umano non se ne rende conto, l’essere umano è quasi sempre all’oscuro di questo fatto: non ne ha preso coscienza. Ecco perché, nell’Introduzione, titola la sua opera: La scienza dell’esperienza della coscienza. Hegel ci presenta nella Fenomenologia dello Spirito il personale e travagliato itinerario della sua coscienza verso il Sapere assoluto perché anche noi possiamo trovare il nostro.

     L’idea dell’itinerario dell’anima attraverso l’esperienza della coscienza (del prendere coscienza), è stata probabilmente suggerita ad Hegel (oltre che dalle Enneadi di Plotino e dalla Commedia di Dante, dall’analisi di Kant e dall’Io di Fichte) anche da un genere letterario molto diffuso in quel tempo, quello del romanzo di formazione. A Tubinga,  sotto la guida del professor Fortunius, Hegel (con i suoi compagni di convitto) ha letto l’Emilio di Rousseau, un’opera che abbiamo studiato a suo tempo e che rappresenta una prima storia della coscienza naturale che acquisisce la libertà attraverso la propria esperienza. A Jena, poi, uno dei libri più importanti dell’epoca è considerato il Wilhelm Meister di Goethe: un romanzo di formazione (anche quest’opera l’abbiamo incontrata a suo tempo) che racconta lo sviluppo della coscienza del protagonista. La Fenomenologia dello Spirito si può quindi considerare un romanzo filosofico di formazione, dove il percorso della coscienza si svolge tra le possibilità e i limiti della ragione. Quindi, la prima preoccupazione di Hegel nell’Introduzione della sua opera è quella di ribadire che l’Assoluto non è separato dalla coscienza ma che è già presso di noi, è già nella nostra coscienza e dobbiamo prenderne coscienza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il termine “assolutamente” ricorre spesso nei discorsi, ebbene: che cosa c’è da fare assolutamente e che cosa c’è da non fare assolutamente? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     E ora avventuriamoci (forse questo è il verbo adatto) nella lettura di 56 righe dell’Introduzione. Il testo della Fenomenologia, spezzettato, è stampato in corsivo, mentre in carattere normale viene riportato il testo di un breve commentario tratto dai vasti cataloghi di note interpretative. Siccome le note – nella Fenomenologia – sono spesso di carattere interpretativo (riportano il parere di un’autorevole commentatrice o di un illustre commentatore) il commentario contiene le nozioni essenziali per cercare di capire – almeno a grandi linee – il testo hegeliano. La nostra lettura vuole avere anche un obiettivo contenutistico: dobbiamo imparare il concetto chiave della Fenomenologia dello Spirito. Il concetto-chiave della Fenomenologia dello Spirito è che l’Assoluto è presso di noi, l’Assoluto è nella nostra coscienza (lo Spirito ci pervade) e la persona deve prenderne coscienza. Se la persona vuole dare un senso alla sua vita, deve mettere la propria coscienza nella condizione di intraprendere un viaggio verso il Sapere assoluto.

LEGERE MULTUM….

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito [Introduzione] (1807)

Secondo una rappresentazione naturale, prima di affrontare la Cosa stessa, prima cioè di avviare la conoscenza reale di ciò che è in verità, in filosofia sarebbe necessario chiarire preliminarmente quale tipo di conoscenza va considerata come lo strumento più efficace per impadronirsi dell’Assoluto oppure come il mezzo più adatto per scorgerlo.

In questo senso, sembra giustificata una duplice preoccupazione: a) data l’esistenza di diverse specie di conoscenza, non tutte potrebbero essere idonee in uguale misura al raggiungimento di quell’obiettivo finale, e senza un loro esame preventivo si potrebbe effettuare una scelta sbagliata; b) inoltre, poiché il conoscere è una facoltà d’un certo tipo e dalla portata determinata, se non si definisse più esattamente la sua natura e il suo limite si potrebbe restare avvolti dalle nubi dell’errore piuttosto che raggiungere il cielo della verità.

Ora, tale preoccupazione non può che sfociare nella convinzione secondo cui, dal punto di vista concettuale, sarebbe un controsenso pretendere di far giungere la coscienza, mediante la conoscenza, fino a ciò che è In-sé; in definitiva, quindi, tra la conoscenza e l’Assoluto ci sarebbe un confine in tutto e per tutto invalicabile.

Infatti, se la conoscenza fosse lo strumento per impadronirsi dell’essenza assoluta, si avrebbe il caso dell’applicazione di uno strumento che, invece di lasciare la Cosa così com’ è, vi introduce una forma nuova e un’ alterazione. Se invece la conoscenza fosse non uno strumento della nostra attività, ma una sorta di medium passivo attraverso cui giungerebbe fino a noi la luce della verità, neanche in questo caso riceveremmo questa luce com’ è in sé bensì come essa è in e attraverso quel medium. In entrambi i casi, dunque, noi faremmo uso di un mezzo che produce immediatamente l’effetto contrario a quello desiderato, anzi: il controsenso consiste proprio nel servirsi in generale di un mezzo, qualunque esso sia.

In verità, sembra possibile ovviare a questo inconveniente tramite la conoscenza della modalità d’azione dello strumento. Una volta raggiunta la rappresentazione dell’Assoluto mediante questo strumento, infatti, tale conoscenza potrebbe sottrarre dal risultato finale l’apporto dovuto allo strumento stesso e potrebbe così ottenere la verità nella sua purezza. Un correttivo del genere, tuttavia, ci riporterebbe di fatto al punto di partenza. Se infatti da una cosa formata sottraiamo l’apporto dato dallo strumento che le ha dato forma, allora questa cosa – nel nostro caso l’Assoluto –ridiventa né più né meno quello che era prima della fatica formatrice, la quale perciò risulta superflua.

Si potrebbe dire allora che lo strumento deve servire in generale, quasi come la pania per gli uccelli, soltanto a renderci più vicino l’Assoluto, senza alterarlo minimamente. In realtà, se in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi, l’Assoluto si farebbe beffe di questa astuzia.

     Hegel inizia la Fenomenologia sostenendo la necessità di un’indagine preliminare sul problema della conoscenza e criticando alcune concezioni filosofiche riguardanti questo problema. Prima di tutto egli identifica l’argomento della filosofia, «la Cosa stessa», con «la conoscenza reale di ciò che è in verità». Il termine Cosa (Hegel usa un termine talmente comune che potrebbe prestarsi a molte interpretazioni) ricorre spesso nella Fenomenologia e, in generale, con questo termine Hegel vuole esprimere il contenuto vero di una nozione, di un pensiero, di un concetto, di un discorso e anche di un’azione (come dire il nocciolo). Hegel scrive che «la Cosa stessa è la conoscenza reale di ciò che è in verità» e «Ciò che è in verità» viene equiparato all’Assoluto e quindi Hegel inizia la Fenomenologia scrivendo che prima di affrontare «la Cosa stessa, ciò che è in verità, cioè l’Assoluto», sarebbe necessario chiarire quale tipo di conoscenza è più adatta per giungere all’Assoluto. In proposito si presentano ad Hegel due possibilità: la prima è quella di considerare la conoscenza come «lo strumento» più efficace per giungere all’Assoluto (qui sta pensando al Metodo di Cartesio) e la seconda invece è quella che considera la conoscenza come «il mezzo» più adatto per scorgere il vero (qui sta pensando alle Critichepura, pratica e del giudizio – di Kant).

     Le due possibilità di conoscenza appena indicate sono giustificate da due preoccupazioni sempre inerenti al problema del conoscere, e precisamente dal modo in cui tale problema viene posto da Cartesio (il quale sostiene che: «non tutte le forme di conoscenza potrebbero essere adatte in eguale misura a raggiungere l’obiettivo finale, cioè l’Assoluto») e da Kant (il quale sostiene che: «è necessario definire la natura e il limite del conoscere se non si vuole cadere nell’errore»). Quindi Hegel sostiene che: «se viene trascurata l’indagine critica preliminare del conoscere, si potrebbe seguire un tipo inadeguato di conoscenza e non raggiungere la verità».

     La preoccupazione appena esposta da Hegel non può che sfociare nella convinzione che il pretendere di far giungere la coscienza fino all’In-sé, cioè fino al Vero, sia un controsenso e che tra la conoscenza e l’Assoluto ci sia un confine insuperabile. Hegel si riferisce ancora alla filosofia kantiana: Kant ha posto una netta separazione tra il fenomeno (la cosa) e il noumeno (la cosa-in-sé, l’essenza), sostenendo che la nostra conoscenza è limitata ai fenomeni (alle cose) e per noi l’Assoluto, l’In-sé, rimane irraggiungibile, l’essenza delle cose – sostiene Kant – non la conosceremo mai. (Rinfreschiamoci la memoria sul concetto del noumeno: Kant sostiene che la realtà in sé – l’essenza delle cose – non può essere conosciuta dal nostro intelletto: può essere solo pensata nella sua possibilità. Il nostro intelletto può solo pensare che l’esistenza della realtà in sé sia possibile: non può dimostrare che ci sia. Noi – sostiene Kant – conosciamo il mondo solo come appare al nostro pensiero, per quello che sembra non per quello che è. La realtà in sé, quindi, è solo pensabile che ci sia, ed è soltanto pensabile che esista. E Kant  chiama la realtà in sé,  pensabile che ci sia col nome di noumeno, dal greco noéo/penso. Il noumeno è la realtà pensabile ma sconosciuta, e inconoscibile: noi possiamo conoscere – scrive Kant – solo il mondo fenomenico, le cose, solo il mondo della nostra esperienza. Noi però sentiamo l’esigenza di andare al di là dei fenomeni, oltre l’esperienza ma, per quanto ci possiamo sforzare, questa operazione metafisica, non ci è possibile. Noi non possiamo conoscere i concetti che non fanno parte della nostra esperienza empirica: il mondo noumenico, al di là dell’esperienza, è pensabile ma non conoscibile). Hegel invece pensa che l’Assoluto non sta fuori dalla coscienza ma sta dentro la coscienza.

     Se si considera la conoscenza come «lo strumento» per raggiungere l’Assoluto, potrebbe succedere – sostiene Hegel – che la conoscenza, invece di lasciare la Cosa in sé così come è, potrebbe introdurre, attraverso lo strumento, un’alterazione nella conoscenza della stessa Cosa in sé.

     Nel secondo caso, che riguarda «il mezzo», il conoscere – sostiene Hegel – non è più uno strumento, ma un mezzo passivo attraverso il quale giunge a noi la luce della verità, anche in questo caso, non potremmo ricevere la verità così come è, ma la riceveremmo alterata secondo le caratteristiche di questo mezzo. Hegel rifiuta entrambe le posizioni: «in entrambi i casi noi faremmo uso di un mezzo che produce immediatamente l’effetto contrario a quello desiderato», è quindi un controsenso, per quanto riguarda la conoscenza, servirsi in generale di uno strumento.

     Hegel, quindi, continua la sua critica all’uso di uno strumento in campo conoscitivo e ne sottolinea ulteriormente il controsenso. Sembrerebbe possibile superare l’inconveniente dello strumento nell’attività conoscitiva, infatti, una volta raggiunto l’Assoluto attraverso uno strumento di conoscenza, si potrebbe – scrive Hegel – sottrarre dal risultato finale «l’apporto dovuto allo strumento» e così ottenere la verità nella sua purezza, ma un correttivo del genere – conclude Hegel – ci riporterebbe al punto di partenza: in realtà la nostra conoscenza si ferma allo strumento.

     [Tutto questo discorso complicato, in cui Hegel tira in ballo Cartesio (il Metodo come strumento di conoscenza) e Kant (il Criticismo come mezzo di conoscenza) è, per noi, meno complicato se pensiamo alla televisione (vedete che la televisione serve a qualcosa). La televisione (il discorso lo riprenderà Karl Popper) pretende di farci vedere la realtà ma, in realtà, ci mostra ciò che la televisione ci fa vedere della realtà: in realtà – allude Hegel – la realtà della nostra conoscenza si forma allo strumento].

     Si potrebbe allora dire – scrive Hegel – che lo strumento può servire solo a catturare l’Assoluto, senza alterarlo, come il vischio (la pania) fa per gli uccelli. Ma se l’Assoluto non fosse già in sé e per sé presso di noi, si farebbe una beffa di questa astuzia.

     Hegel ci dice il modo con cui noi possiamo conoscere l’Assoluto: la conoscenza di esso non sarebbe infatti possibile «se in sé e per sé» l’Assoluto «non fosse e non volesse essere già presso di noi». Quindi – sostiene Hegel – non c’è bisogno di uno strumento o di un mezzo per raggiungere l’Assoluto, non c’è – sostiene Hegel – tra noi e l’Assoluto una separazione, un limite invalicabile. Il tema della separazione nella dottrina del conoscere è tipico di tante filosofie della conoscenza in cui il soggetto che conosce sta da una parte e l’oggetto dall’altra, per queste filosofie la conoscenza sta nel mediare il rapporto tra il soggetto e l’oggetto e trovare un punto in comune. Per Hegel l’Assoluto non trascende l’orizzonte della conoscenza. In questo modo il fare filosofia cambia senso: non si tratta più di accedere all’Assoluto, ma di prendere coscienza che esso è presso di noi e noi presso di lui. Noi – sostiene Hegel – siamo insediati da sempre nella dimensione dell’Assoluto, anche se il punto di vista della coscienza che ci domina ci porta a separare il soggetto dall’oggetto, la coscienza dall’Assoluto. Il primo passo verso il Sapere assoluto «consiste nell’abbandono della visione abituale del conoscere». La visione abituale del conoscere presuppone proprio la separazione tra il soggetto che vuole conoscere e l’Assoluto, la visione abituale del conoscere presuppone che da una parte ci sia l’Assoluto e dall’altra parte la conoscenza, la quale, però, se viene a trovarsi fuori del Sapere assoluto, viene a trovarsi fuori anche della verità. Nell’Introduzione della Fenomenologia dello Spirito Hegel, quindi, cambia radicalmente l’impostazione di uno dei problemi fondamentali della filosofia, cioè il problema del conoscere: non si tratta più di accostarsi all’Assoluto posto come oggetto al di là del soggetto, ma di prendere coscienza che l’Assoluto è già nella nostra coscienza e quindi di cambiare il nostro modo di conoscere. In questo senso nella Fenomenologia l’obiettivo non è più l’oggetto, non sono più le cose da conoscere, ma la coscienza: ed ecco che sta per iniziare quella scienza dell’esperienza della coscienza il cui esito finale sarà la comprensione di quell’Assoluto che è già presso di noi e che costituisce il Sapere assoluto: l’oggetto della conoscenza della coscienza è la coscienza stessa.

     Conclusa l’Introduzione, comincia il capitolo sulla Coscienza ed Hegel inizia il viaggio della coscienza alla ricerca del Sapere assoluto. La coscienza, scrive Hegel, si realizza in tre momenti: il momento della certezza sensibile, quello della percezione e quello de l’intelletto.

     La certezza sensibilesi presenta, a prima vista, scrive Hegel, come la forma di conoscenza più ricca e certa, ma poi si rivela invece come la forma più povera di conoscenza. Infatti  la certezza sensibilerende certi di una singola cosaqui e ora, ma il qui, lo spazio e l’ora, il tempo, che dovrebbero indicare l’oggetto particolare, si rivelano, scrive Hegel, come determinazioni assolutamente astratte. Basta, infatti, che io lasci trascorrere del tempo e mi sposti nello spazio, perché il qui e l’ora si trasformino in un altro qui e in un altro ora, togliendo ogni certezza alla mia conoscenza dell’oggetto che io credevo, scrive Hegel, di avere definito con precisione. La certezza sensibile lascia quindi il posto a un gradino superiore che è quello della percezione.

     Con la percezione l’oggetto appare (in greco fénomé) come uno: prendiamo per esempioun libro: con la percezione però, questo oggetto appare contemporaneamente anche come molteplice perché ha un odore, ha un colore, ha un sapore, ha delle dimensioni. Ora, scrive Hegel, è evidente che l’unità (il fatto che questo sia un libro) ci appare come se fosse la forma che ne garantisce la realtà, cioè ci apparecome la forma oggettiva (per tutti noi questo è un libro nella sua realtà), e la molteplicità ci appare come la forma soggettività perché ognuno coglie a modo suo le caratteristiche dell’oggetto (odore, colore, sapore, dimensioni). Ma in realtà, con la percezione, l’unità rappresenta solo un’oggettività apparente perché il fatto che con la percezione questo oggetto (un libro) sia uno non fa altro che arricchire la lista delle caratteristiche della molteplicità (odore, colore, sapore, dimensioni, numero). Il fatto che questo libro sia uno è solo un attributo in più non una forma che ne garantisce la realtà, l’oggettività. Ogni oggetto, scrive Hegel, viene intercettato soggettivamente dalle persone e la “percezione” permette solo una conoscenza frammentaria (non oggettiva, non reale): questo fatto ci fa sentire la necessità di passare a un livello più alto ci conoscenza, al gradino de l’intelletto.

     L’intelletto, scrive Hegel, non si accontenta della distinzione fra unità e molteplicità, che è propria della percezione, ma rileva che la Cosa (questo libro) può manifestare quello che essa è solo nei rapporti che ha con le altre cose. Hegel pensa – e questo concetto lo abbiamo già studiato nel Percorso precedente – che ogni cosa staccata dal Tutto sia frammentaria e quindi sia incapace di esistere senza il contributo dato dal resto del mondo. Sappiamo che questo è “un libro” non per il suo odore, colore, sapore, dimensione, numero, ma per contesto logico nel quale si trova. Quindi l’intelletto sviluppa un’attività logica necessaria (che Hegel chiama noumeno).

     Questo lavorìo dell’intelletto serve per creare i legami tra gli oggetti e il Tutto, tra il molteplice e l’unità. Il lavorio dell’intelletto, scrive Hegel, dipende dal concetto della Necessità. L’idea della Necessità (che equivale all’idea del destino) garantisce tanto l’esistenza del Tutto quanto l’essenza dell’intelletto: noi sappiamo già che la Realtà (questo libro) e la Ragione (il fatto che io lo riconosca), secondo Hegel, necessariamente s’identificano.

     I tre fattori che abbiamo illustrato – la certezza sensibile, la percezione e l’intelletto – costituiscono ciò che Hegel chiama: la coscienza. Questi tre elementi: la certezza sensibile, la percezione e l’intelletto devono essere utilizzati in funzione della conoscenza. Bisogna imparare ad utilizzarli e di conseguenza bisogna imparare a conoscere (questo è il piano della sensazione), bisogna imparare a capire (questo è il piano della percezione) e bisogna imparare ad applicarsi(questo è il piano de l’intelletto). Imparando a conoscere le sensazioni, a capire le percezioni e ad applicarsi con l’intelletto lo spirito individuale impara a prendere coscienza.

     E quando lo spirito della persona, attraverso la certezza sensibile (il conoscere), attraverso la percezione (il capire) e attraverso l’intelletto(l’applicarsi), prende coscienza, scrive Hegel, sale su un gradino superiore in cui può cominciare ad avere coscienza di se stesso, cioè a distinguere se stesso dalla molteplicità delle cose in cui finora era immerso, come in uno stato di alienazione. Attraverso la certezza sensibile (il conoscere), attraverso la percezione (il capire) e attraverso l’intelletto(l’applicarsi) lo spirito prende coscienza ed è portato a riflettere su se stesso e ad avvertire, scrive Hegel, tanto gli oggetti che lo circondano quanto gli altri spiriti che vivono intorno a lui.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole: la responsabilità, il dovere, la competenza, l’impegno, la diligenza, lo scrupolo … metteresti per prima accanto alla parola “coscienza”?…

Usa ancora fare l’esame di coscienza?  Fai un esame di coscienza in quattro righe …

     Quando lo spirito della persona prende coscienza: che cosa succede? Succede che la coscienzaavverte gli oggetti e gli altri spiriti che la circondano come un qualche cosa che la limita, come un ostacolo da superare, e il tema dell’ostacolo, la questione della dialettica della ragione, posta da Fichte e da Schelling (abbiamo affrontato questo problema nel Percorso dello scorso anno), continua a svilupparsi in Hegel.  Naturalmente l’avvertimento dell’ostacolo da parte della coscienza è un fatto necessario e fondamentale perché, scrive Hegel, il superamento di questo ostacolo determina il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza. Il termine Autocoscienza dà il titolo alla terza parte della Fenomenologia dello Spirito nella quale c’inoltreremo la prossima settimana.

     Adesso non possiamo fare a meno di riflettere sulla parola-chiave coscienza in funzione della didattica della lettura e della scrittura. C’è un romanzo che, in questo momento sulla scia di questo itinerario, non può non venirci in mente: s’intitola: La coscienza di Zeno, un romanzo che è stato scritto da uno scrittore che si chiama Italo Svevo. Chi è Italo Svevo il quale viene riconosciuto come uno dei padri della letteratura europea del Novecento insieme a Proust, Joyce, Kafka, Musil, Pirandello? Italo Svevo è uno pseudonimo perché in realtà lo scrittore si chiama Ettore Schmitz, e nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia di origine ebraica e, sulle orme del padre che è un commerciante, si dedica a studiare economia prima in Germania e poi a Trieste. Nel 1880 Italo Svevo viene assunto in banca, a Vienna, e inizia anche a collaborare con un giornale triestino: L’indipendente. Su questo giornale, nel 1892, pubblica a puntate il suo primo romanzo intitolato Una vita, che viene completamente ignorato dal pubblico. Una vita narra l’amore sfortunato di un impiegato di banca per la figlia del suo principale, e si conclude con il suicidio del protagonista. La trama di questo romanzo è banale ma è notevole l’analisi introspettiva del protagonista, nel quale si riconosce l’esperienza personale dell’autore che sa penetrare nei moti della propria coscienza e li descrive. Nel 1896 Svevo sposa Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale, e nel 1898 pubblica il suo secondo romanzo intitolato Senilità: anche questo libro passa inosservato in una stagione nella quale trionfano D’Annunzio e Fogazzaro.

     Licenziatosi dalla banca, Svevo entra nell’azienda del suocero e per qualche anno abbandona la letteratura per dedicarsi agli affari e compie numerosi viaggi di lavoro. Nel 1907 Svevo conosce lo scrittore irlandese James Joyce – l’autore del celebre Ulysse – che dal 1904 insegnava inglese alla Berlitz School di Trieste. Nel 1910 Svevo comincia ad occuparsi della psicoanalisi freudiana. Questi due incontri – con James Joyce e con la psicanalisi – favoriscono il ritorno di Svevo alla letteratura e nel 1919 inizia a scrivere il suo capolavoro: La coscienza di Zeno, che viene pubblicato nel 1923. James Joyce si entusiasma per questo romanzo e lo raccomanda ai critici francesi e inglesi, e anche Eugenio Montale lo recensisce con favore sulla rivista Esame.

     La coscienza di Zeno diventa improvvisamente, nel 1923, un caso letterario europeo. Il romanzo è centrato sul personaggio di Zeno Còsini, che è alter-ego dell’autore, il quale – su suggerimento dello psicoanalista che lo ha in cura, il Dottor S. – registra, sotto forma di diario, la sua quotidianità e riferisce le delusioni, le contraddizioni, i segreti tormenti che la vita gli riserva. Il personaggio di Zeno Còsini rappresenta un uomo oggetto: è un uomo cosa (c’è anche un’assonanza nel cognome che l’autore gli dà), è uno uomo di troppo, il quale quanto più fruga in se stesso e sembra svelarsi, tanto più si nasconde dietro un atteggiamento di ambiguità in contrasto col medico che potrebbe, magari, guarirlo dalla sua nevrosi. Ma lui, in realtà, non vuole guarire: la sua malattia è diventata una specie di vizio che gli permette di dare un senso ai suoi atti mancati, ai continui disguidi, ai sogni gratificanti e consolatori che fa.

     Nel romanzo – che diventa un vero e proprio viaggio nelle figure (nelle allegorie) che si formano nella coscienza dell’autore – Svevo riesce a dare un’immagine ironica e sottilmente comica di se stesso, creando, in forma originale, un romanzo autobiografico che si pone tra le esperienze più nuove della narrativa del Novecento.

     Nel 1928, quando la sua fama è ormai consacrata, lo scrittore, che sta scrivendo il suo quarto romanzo, intitolato Il vecchione, muore in un incidente automobilistico a Motta di Livenza sulla strada che da Trieste va a Treviso. Nel 1929 escono postumi La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, che contiene alcuni racconti di rara finezza, e nel 1949 vengono pubblicati altri racconti e frammenti narrativi con il titolo Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Naturalmente puoi arricchire la tua conoscenza di Italo Svevo e delle sue opere utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca, la rete …

     Che rapporto c’è tra la coscienza di cui parla Hegel nella Fenomenologia (che poi è la sua coscienza personale) e la coscienza di Zeno? La coscienza di Hegel appare come una realtà ben strutturata: è una strada (apparentemente) ben lastricata – di cui abbiamo studiato la struttura poco fa – che permette alla persona di percorrere un cammino intellettuale, verso e attraverso le figure presenti nella coscienza che sono metafore, che sono allegorie culturali, di cui descriveremo la forma la prossima settimana. La coscienza di Zeno (e la coscienza degli altri personaggi di Svevo: Alfonso Nitti protagonista di Una vita ed Emilio Brentani, protagonista di Senilità) appare in tutta la sua natura contraddittoria. Da una parte l’autore ci presenta la coscienza come un labile contenitore di complessi psicologici irrisolti, di dolorose contraddizioni, di improbabili fantasticherie, di riconosciute inadeguatezze ad affrontare la realtà, di paure per la vecchiaia e per la morte; però – contemporaneamente a questa presunta debolezza – lo scrittore fa emergere una coscienza che si manifesta come un solido baluardo dietro al quale poter nascondere la propria codardia, la propria pusillanimità, la propria debolezza d’animo. La coscienza che si manifesta come un baluardo forte – mette bene in evidenza Italo Svevo – è quella che s’identifica con la malattia (con la nevrosi) che, paradossalmente, dovrebbe essere un punto debole e invece diventa un rifugio sicuro (un vizio privato) nel quale nascondere ed elaborare tutte le menzogne che raccontiamo a noi stessi e agli altri.

     Svevo studia i contraddittori moti della coscienza individuale, ma con benevolenza e con grande ironia: è infatti consapevole, con grande amarezza, che questi moti sono il riflesso diretto della crisi di certezze che investe tutta la società all’inizio del ’900. Svevo appartiene a quella categoria di scrittrici e di scrittori che prendono spunto dalla Fenomenologia hegeliana per superarla e per traghettare il concetto del viaggio all’interno della propria coscienza dall’800 al ’900. È questa una grande operazione di carattere letterario che riguarda scrittori come Balzac e Flaubert e filosofi come Schopenhauer e Nietzsche (che dovremo incontrare a suo tempo).

     La scrittura di Svevo si caratterizza per la novità delle strutture e dei temi narrativi, oltre che per la forma stilistica che è lontanissima dai formalismi della prosa d’arte. La lingua di Svevo è singolare, in quanto è poco letteraria, ma risponde bene all’intimità delle riflessioni dei suoi personaggi, oltre che al tono dimesso della loro stessa natura. Svevo rompe la tradizione del dualismo tra la lingua parlata e la lingua scritta e tende alla concretezza: si avvicina al parlato e mescola forme letterarie con strutture del dialetto triestino, costruendo periodi spezzati e spesso deformati.

     Le opere di Italo Svevo sono state ignorate per molto tempo e spesso criticate per presunte improprietà linguistiche, ma l’opera di Svevo – soprattutto La coscienza di Zeno – costituisce uno dei momenti più importanti della letteratura europea del Novecento accanto a Ulysse di Joyce, a Alla ricerca del tempo perduto di Proust, a Il processo di Kafka, a La montagna incantata di Mann e a L’uomo senza qualità di Musil. Queste opere (e ce ne sono molte altre)  hanno in comune l’idea di far sperimentare ai personaggi che vivono in esse l’escursione all’interno della loro coscienza, e l’escursione della coscienza dei personaggi s’identifica con l’itinerario della coscienza delle scrittrici e degli scrittori e, a sua volta, dovrebbe ricalcare il viaggio della coscienza delle lettrici e dei lettori che vengono ad identificarsi con le figure letterarie presentate.

     Italo Svevo (insieme a molte altre scrittrici e scrittori) mette bene in evidenza nelle sue opere ciò che traspare già nella Fenomenologia di Hegel: la coscienza – muovendosi nell’ambito del ricordo, della sincera riflessione, della percezione della tragedia dell’esistenza, della solitudine, della nevrosi – porta allo scoperto la crisi della ragione di fronte ai luoghi più nascosti, più oscuri e incontrollabili dell’animo umano. In queste opere (chiamate opere della crisi del Novecento) si coglie il senso della fine di una lunga tradizione culturale che aveva sempre assegnato all’ambito della ragione e della volontà il compito di caratterizzare il comportamento umano. La coscienza mette sotto osservazione la ragione e la persona deve riconoscere (magari dissimulando la realtà) che la ragione non sempre ha fatto gli interessi della morale. Le scrittrici e gli scrittori della crisi del Novecento – viaggiando nella loro coscienza – cominciano a riflettere sul fatto che la ragione non ha fatto quasi mai gli interessi della morale.

     Nei primi decenni del ’900 le scrittrici e gli scrittori (a cominciare da Italo Svevo) si rendono conto, in coscienza, di quanto sia difficile fare delle scelte morali. Svevo nasconde sotto l’ironia e l’auto-ironia dei propri personaggi questo tragico sentimento di impotenza, che egli chiama inettitudine e che può qualificarsi come un’incapacità di vivere secondo coscienza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Da bambina o da bambino qualcuno ha detto che non avevi attitudine per qualcosa?…  E oggi per che cosa pensi di non avere attitudine? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Zeno Còsini – il protagonista de La coscienza di Zeno – parla della sua vita con svogliatezza, in modo abulico e annoiato: annota una serie di episodi autobiografici su indicazione del Dottor S., lo psicoanalista a cui si è rivolto, per trovare sollievo da una non ben definita malattia che si manifesta in un’eccessiva smania di fumare o in un leggero zoppicare che ogni tanto lo affligge. Spinto dal desiderio di vendicarsi, per l’improvvisa interruzione del trattamento psicoanalitico, il Dottor S. decide di rendere pubblica la storia del suo paziente, con un comportamento talmente scorretto dal punto di vista professionale da suscitare nelle lettrici e nei lettori il sospetto, che, fin dall’inizio, il protagonista in cura, per scarsa fiducia nel medico, abbia potuto deliberatamente raccontargli il falso.

     Ormai anziano, abituatosi a narrare i moti della sua coscienza e a parlare sinceramente e ironicamente di se stesso con se stesso, Zeno decide di scrivere al medico le note richieste sul suo comportamento, e svela tutte le falsità, tutti gli inganni e tutte le piccole menzogne della sua vita. Il rapporto dialettico (di stampo hegeliano) tra la verità e la finzione (viviamo sempre sul confine tra la verità e la finzione) costituisce il fulcro intorno al quale si muove tutta la narrazione che si snoda per temi, attraverso il ricordo di tutti quegli eventi che, dalla prima sigaretta alla morte del padre, dal suo matrimonio con Augusta al problematico rapporto con il cognato, egli considera fondamentali per la sua esistenza.

     Fin da bambino Zeno ruba gli spiccioli dal panciotto del padre per procurarsi le sigarette. Il vizio del fumo si presenta come una malattia dalla quale egli non può o non vuole guarire, infatti tutti i tentativi – ricordati da altrettante date annotate con maniacale precisione – falliscono, compreso l’ultimo tentativo quando evade dalla clinica dove si era fatto rinchiudere per disintossicarsi. Il padre è l’antagonista principale di Zeno il quale soffre di un complesso di Edipo non risolto. La morte del padre, considerata una catastrofe, è inconsciamente desiderata da lui. Il conflitto esplode improvvisamente negli ultimi istanti di vita del vecchio padre quando questi, recuperata la coscienza, muore dando un violento schiaffo al figlio che rimane segnato, psicologicamente, da questo gesto.

     Giovanni Malfenti, conoscente di Zeno, un intelligente uomo d’affari, ha quattro figlie i cui nomi cominciano tutti per A. Zeno s’innamora perdutamente di Ada, che è quella più bella. Ma Ada lo rifiuta e lui finisce per sposare Augusta, che è quella più brutta. Attraverso un amico universitario Zeno conosce Carla la quale diventa ben presto la sua amante. Quando Carla gli chiede di conoscere la moglie, Zeno le presenta, non Augusta, ma Ada che lo aveva rifiutato. Alla fine Carla lo abbandona per sposare il maestro di canto che lui stesso le aveva trovato. Alla morte di Giovanni Malfenti, il suocero, Zeno si scopre abilissimo negli affari. A lui ricorre anche il cognato Guido, l’odiato antagonista che ha sposato l’amata Ada, il quale si trova in difficoltà economiche. Zeno lo consiglia di inscenare un falso suicido che lo conduce, invece, accidentalmente alla morte. Zeno ne resta talmente sconvolto che (senza neppure accorgersene) sbaglia funerale e si reca alle esequie di uno sconosciuto…

     Abbiamo citato alcuni curiosi (e famosi) episodi per incentivare la lettura di questo romanzo. Alla fine del racconto Zeno ha preso coscienza di cosa sia la vita e di che cosa sia l’essere umano, e intuisce – con disperazione – che questo “essere” potrebbe un giorno costruire un mostruoso ordigno esplosivo capace di distruggere tutto il mondo (passeranno pochi anni). La coscienza di Zeno si presenta, dunque, come un’analisi sul filo della memoria, attraverso una tecnica già cara a Proust, che vede nella trascrizione dei ricordi il mezzo più adatto per recuperare i valori fondanti della propria esistenza. Zeno confessa che la scrittura non è un evento chiarificante dell’inconscio che affiora spontaneamente alla memoria, ma soltanto il velleitario tentativo della ragione di fornire scuse che attenuino le sue responsabilità.

     Alla fine del romanzo Zeno sembra aver riacquistato il proprio equilibrio psico-fisico ed essersi perfettamente inserito nella società, in realtà è solo diventato simile agli altri perché si è integrato nella società borghese. E, allude Italo Svevo, l’integrarsi nella società borghese non costituisce una guarigione ma è solo una rassegnazione che ci costringe ad un sofferto rapporto con la realtà. Ma la guarigione per Zeno, allude Italo Svevo, altro non può significare se non l’adattamento a una vita malata, e, paradossalmente, egli pensa di essere guarito solo quando si è integrato in una società completamente malata nella quale – come dice anche Pirandello – non si coglie più la differenza tra la menzogna e la verità.

     Leggiamo alcuni frammenti dal testo de La coscienza di Zeno: la Prefazione che Svevo immagina sia scritta dal medico, il Dottor S., il Preambolo e alcune pagine dai capitoli sul fumo e sul matrimonio.

LEGERE MULTUM….

Italo Svevo, La coscienza di Zeno  Prefazione (1923)

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.

Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza.

Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità.

Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi.

Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate! DOTTOR S.

LEGERE MULTUM….

Italo Svevo, La coscienza di Zeno  Preambolo (1923)

Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psicoanalisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso. Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo.

S’alza, s’abbassa ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.

Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.

Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!

Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla.

Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono. Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

LEGERE MULTUM….

Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923)

Sul frontespizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!».

Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio (recipiente di vetro che si usa nei laboratori di chimica). Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.

Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?

Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.

Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso, e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.

Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più vari ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno del primo mese del 1901». Ancora mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.

Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.

L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!

Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!». Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.

LEGERE MULTUM….

Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923)

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me. Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.

Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s’apre. Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sudicia lasciata all’aria dall’acqua che s’era ritirata; un campanile che si rifletteva nell’acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro.

Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori posto ch’essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m’aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l’intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire; le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.

Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l’umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi che essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.

Fu allora ch’essa mi raccontò di avermi amato prima di avermi conosciuto. M’aveva amato dacché aveva sentito il mio nome, presentato da suo padre in questa forma: Zeno Cosini, un ingenuo, che faceva tanto d’occhi quando sentiva parlare di qualunque accorgimento commerciale e s’affrettava a prenderne nota in un libro di comandamenti, che però smarriva. E se io non m’ero accorto della sua confusione al nostro primo incontro, ciò doveva far credere che fossi stato confuso anch’io.

Mi ricordai che al vedere Augusta ero stato distratto dalla sua bruttezza visto che m’ero atteso di trovare in quella casa le quattro fanciulle dall’iniziale in a tutte bellissime. Apprendevo ora ch’essa m’amava da molto tempo, ma che cosa provava ciò? Non le diedi la soddisfazione di ricredermi. Quando fossi stato morto, essa ne avrebbe preso un altro. Mitigato il pianto, essa s’appoggiò ancora meglio a me e, subito ridendo, mi domandò:

- Dove troverei il tuo successore? Non vedi come sono brutta?

Infatti, probabilmente, mi sarebbe stato concesso qualche tempo di putrefazione tranquilla.

     Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, dopo l’Introduzione e la parte dedicata alla Coscienza ci porta nel capitolo dell’Autocoscienza. E così il viaggio verso il Sapere assoluto continua: la strada è accidentata ma comunque percorribile, basta essere prudenti…

     La Scuola è qui, correte: “ prendetene coscienza”…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 18, 2007