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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È IL TEATRO E IL TRIBUNALE, C’È LA TRAGEDIA E IL PROCESSO ...

Lezione N.: 
2

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele  15-16-17  ottobre 2008

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PALTONE E DI ARISTOTELE 

C’È IL TEATRO E IL TRIBUNALE, C’È LA TRAGEDIA E IL PROCESSO  ...

     Siamo partiti la scorsa settimana prendendo il passo su quella che viene chiamata la via del rispetto della legge. Questa via si trova ad Atene sull’Areopago (mi auguro che abbiate completato, con una guida della Grecia, la visita ad Atene); qui sull’Areopago (la collina di Ares e di Atena) c’era il tribunale supremo, il Bouleutérion, dove nella primavera del 399 a.C. si è svolto uno dei più celebri processi che la storia ricordi: il processo a Socrate. Anche in virtù di questo famoso processo (il verdetto, per Socrate, è di condanna a morte), vale a dire in virtù delle opere che sono state composte sulla scia di questo avvenimento, Atene ha assunto una caratteristica particolare. Con il processo e la condanna di Socrate (con le opere che descrivono questo avvenimento) la parola Atene, oltre a definire una città, con tutte le cose materiali che contiene, ha cominciato a definire anche una categoria dello Spirito. E un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura deve occuparsi di questo aspetto.

     Per poterci occupare meglio di Atene come categoria dello Spiritoquesta sera – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana – siamo a Roma, nei Palazzi vaticani: precisamente ci troviamo nella stanza della Segnatura. In questa stanza c’è un’opera che in un viaggio di studio così congegnato non possiamo fare a meno di prendere in considerazione perché è proprio questo oggetto culturale che ha amplificato il concetto di Atene come categoria dello Spirito. Quest’opera è molto famosa ed è anche difficile da leggere senza possedere gli strumenti necessari che si acquisiscono mediante un Percorso di studio.

     Il territorio della sapienza poetica orfica che stiamo per attraversare si configura anche con quest’opera, con questo straordinario oggetto culturale che papa Giulio II (lo abbiamo evocato la scorsa settimana durante il rituale della partenza) ha commissionato e ha fatto eseguire, e noi non possiamo non approfittare di questa occasione e quindi il nostro Percorso, che ha preso le mosse dalla via del rispetto della legge, deve procedere su due corsie: una corsia che attraversa lo spazio di un affresco (l’oggetto culturale con il quale stiamo prendendo contatto è un affresco) e una corsia che passa per il territorio dell’Ellade lastricata, soprattutto, da opere letterarie.

     I personaggi raffigurati sul territorio dell’affresco, al quale ci stiamo avvicinando, hanno un posto d’onore (una corsia preferenziale) nei Palazzi vaticani, vale a dire nel cuore del potere culturale della cristianità, ma hanno operato sul territorio dell’Ellade (su un’altra corsia) e hanno prodotto le loro opere creando un pensiero alternativo a quello del Cristianesimo: tuttavia – attraverso un’efficace e straordinaria operazione intellettuale – il Cristianesimo si è affermato culturalmente, in tutta l’Ecumene,  proprio percorrendo (con mille difficoltà) il cammino della sapienza poetica orfica.

     Il primo passo di questa efficace e straordinaria operazione intellettuale lo abbiamo visto compiere leggendo, nell’itinerario della scorsa settimana, la seconda parte del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli che racconta il fallimento del tentativo compiuto da Paolo di Tarso nel 51 di predicare ad Atene, sull’Areopago, la risurrezione del corpo di Gesù. Gli intellettuali ateniesi lo ascoltano ma non lo prendono sul serio: il corpo materiale è considerato – dalla sapienza orfica, dalla sapienza greca – come la prigione dell’anima e deve morire e decomporsi proprio per lasciare libera l’anima alla sua immortalità, ma il concetto di immortalità dell’anima non è ancora entrato pienamente a far parte del bagaglio dottrinale del Cristianesimo.

     Papa Clemente Romano (che abbiamo incontrato la scorsa settimana, e lo incontriamo spesso nei nostri Percorsi) nello scrivere, intorno all’anno 95, il testo definitivo degli Atti degli Apostoli – che è il primo catechismo cristiano – nel raccontare l’episodio della predicazione di Paolo sull’Areopago fa, dal punto di vista dottrinale, un passo decisivo nella direzione della cultura greca (e c’era già tutto un fermento, a questo proposito, nelle Chiese d’Oriente).     

     Se rileggiamo le ultime righe del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli (che abbiamo già letto la scorsa settimana) siamo in grado di capire bene il valore e l’importanza di questo primo passo compiuto da Clemente Romano che crea un’apertura decisiva della dottrina del Cristianesimo verso l’acquisizione del concetto dionisiaco (che si era imposto da secoli nell’Ecumene) dell’immortalità dell’anima, oltre alla notizia (più ostica da presentare) della risurrezione del corpo: a questo punto questi due elementi, questi due canali culturali (il concetto dionisiaco dell’immortalità dell’anima e il concetto cristiano della risurrezione del corpo) cominciano a convivere e questa idea si dimostra la carta vincente per la nascita della Cristianità.

     Rileggiamo e commentiamo gli ultimi tre versetti (32 33 34) del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli.

LEGERE MULTUM….

Atti degli Apostoli  17, 32-34

Appena sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a ridere. Altri invece gli dissero: «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta» (Clemente Romano vuole mettere in evidenza che l’ostico e materiale concetto della risurrezione del corpo non esclude l’idea ben radicata culturalmente dell’immortalità dell’anima e, quindi, il dibattito non si era concluso ai tempi di Paolo – circa quarant’anni prima – ma era necessario riflettere e rimandare la discussione: Clemente fa un passo decisivo cominciando ad utilizzare concetti orfico-dionisiaci per costruire la dottrina del Cristianesimo). Così Paolo si allontanò da loro. Alcuni però lo seguirono e lo presero sul serio. Fra questi vi era anche un certo Dionigi, uno del consiglio dell’Areopago (questa allegoria è decisamente significativa e contiene uno straordinario stratagemma intellettuale: Paolo, ad Atene, non ha successo ma viene seguito da Dioniso e quindi è bene ascoltare e apprendere le importanti parole-chiave che Dioniso – che la cultura orfico-dionisiaca – ha da insegnarci), una donna di nome Dàmaris (abbiamo già studiato la scorsa settimana che il nome Dàmaris deriva dal verbo greco damazo che significa “seguire una nuova via, intraprendere una nuova strada”, quindi Dàmaris è “colei che segue una nuova via”, ed è – afferma Clemente Romano con previdente abilità intellettuale – l’allegoria della Chiesa che deve incamminarsi sulla via di Dioniso) e alcuni altri.

     Papa Giulio II quando, nel 1508, deve giustificare davanti al Collegio cardinalizio (c’era anche da spendere una bella sommetta di denaro) la sua volontà di far realizzare nel Palazzo vaticano un affresco dal contenuto provocatorio, che descrivesse il movimento della sapienza poetica orfica, scrive: «Si dispone il dipingimento di un a fresco che possa portare nelle venerande stanze, la colonna di Dionigi che fu l’appoggio dell’apostolo Paolo nell’Areopago ateniese, la cui memoria giunge qui attraverso gli Atti degli Apostoli per la saggezza del magistero clementino», e tutti – in questo momento – abbiamo capito che cosa significano queste parole, ma per capire è necessario intraprendere un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Si deve affermare che Giulio II ha una lungimiranza intellettuale eccezionale e non è giusto ricordarlo soprattutto perché, vestita l’armatura, sparava cannonate contro le città dello Stato pontificio (aveva anche le sue ragioni): ma incontreremo più da vicino, a suo tempo, questo personaggio.

     Giulio II è cosciente che l’affresco da lui commissionato – attraversato da una delle due corsie su cui compiremo il viaggio di studio di quest’anno scolastico – è il punto d’arrivo di un itinerario intellettuale durato circa 1450 anni, e ora per noi – che siamo all’inizio di questo viaggio – rappresenta un ulteriore punto di partenza per conoscere e per capire la nostra identità culturale, la nostra identità umana.

     L’affresco commissionato da Giulio II – al quale ci stiamo avvicinando – si colloca all’inizio dell’età moderna e molte e molti di voi ricordano che nell’anno 1999-2000 abbiamo voluto che fosse proprio questa immagine, questa icona straordinaria a traghettarci nel nuovo millennio, in un tempo in cui l’età moderna sembra essersi conclusa per lasciare il posto ad una non ancora ben precisata età della Storia del Pensiero Umano: un’età che è stata denominata, inizialmente (dagli anni ’50 del ‘900), post-moderna, ma questo termine, come sapete, è già passato di moda. Noi apparteniamo ad una generazione che sta vivendo all’interno di un’epoca di transizione e dobbiamo rendercene conto perché se ci sfugge questo dato perdiamo l’orientamento.

     Sono passati, quindi, già quasi dieci anni da quando abbiamo osservato da vicino quest’opera e ora siamo sollecitati a tornare ad osservarla perché il contenuto del Percorso di quest’anno – le parole-chiave e le idee-cardine che formano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – è speculare a questo famoso oggetto culturale dal titolo inequivocabile: La Scuola di Atene.

     Ogni tanto, in questi anni, qualche studentessa o qualche studente mi ha sempre chiesto: perché non si rifà una passeggiata ne La Scuola di Atene? Io ho risposto che sarebbe stato necessario aspettare l’occasione, cioè attendere che un Percorso passasse in prossimità di Atene tra il V e il II secolo a.C.. Questa occasione adesso si presenta.        

     Devo dire la verità, io ho cercato di resistere alla tentazione di passare di qui (ma perché?  direte voi) e difatti quando, ai primi di giugno, ho iniziato ad occuparmi degli itinerari didattici di questo Percorso, mi sono detto: «semplifica le cose, procedi in modo lineare sul catalogo dei Dialoghi di Platone, sul catalogo della Fisica e della Metafisica di Aristotele, tira il fiato, dedica un po’ più di tempo a camminare piuttosto che a stare seduto davanti al computer». Io cerco di resistere sempre a tutte le tentazioni (che pretese!) ma non resisto quasi mai alle tentazioni derivanti dai Percorsi scolastici (a costo di farli diventare più pesanti di quello che sono), e così non ho resistito.

     Ci sono dei motivi per cui ho ceduto alla tentazione. In primo luogo non ho potuto resistere per via di un paradosso: cedere alle tentazioni intellettuali (cioè complicare le forme e i contenuti delle Offerte formative) è un modo per resistere al dilagare dell’ignoranza, quindi non bisogna opporre resistenza alle complicazioni intellettuali se si vuole re-esistere: in questo caso (ed ecco il paradosso) per re-esisterebisogna cedere. Poi ho ceduto alla tentazione anche per disciplina (che cosa significa? che cedere alla tentazione, a volte, può essere una virtù? Questo è un tema che ci spiegheranno, a suo tempo, Abelardo ed Eloisa), perché il Percorso nel territorio de La Scuola di Atene del 1999 era composto da fotocopie provenienti da varie pubblicazioni e poi da scarni elenchi di appunti e da semplici canovacci, quindi ora si è presentata l’opportunità per mettere in ordine una serie di materiali sparsi diventati quasi incomprensibili, e quindi si è presentata l’occasione di scrivere, per intero, il testo delle Lezioni in modo da poterle collocare sul sito della nostra comunità scolastica. Infine era anche opportuno cedere alla tentazione per motivi didattici (in funzione dell’apprendimento, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, secondo la natura del nostro Percorso) perché i personaggi ai quali abbiamo dato appuntamento quest’anno (abbiamo cominciato prendendo contatto con Socrate), e che incontreremo strada facendo, sono raffigurati in evidenza dentro a questa grande icona che viene considerata uno dei più importanti oggetti culturali della Storia del Pensiero Umano.

     De La Scuola di Atene ne avete davanti una rappresentazione, molto artigianale ma indicativa, anche perché non è difficile trovarne una copia più bella (anche a colori) per dilettarsi nell’osservazione, infatti questa immagine è inflazionata – quasi come quella della Gioconda –: è tanto inflazionata quanto è poco conosciuta nella sua forma e nel suo contenuto. Non perdete questo foglio che rappresenta La Scuola di Atene, conservatelo, anche perché non potremo riprodurlo ogni volta che ne parleremo, quindi siete pregate, siete pregati di non perderlo e di portarlo con voi a Scuola: non è pesante.

     Se diamo una rapida occhiata d’insieme a questa immagine vediamo che i personaggi de La Scuola di Atene sono stati collocati ad arte su un grande palcoscenico in modo che ciascuna di queste figure possa, con la sua presenza, rappresentare la sua parte. Questa affermazione ci obbliga, però, a fermarci subito: perché? Perché la parola palcoscenico ci rimanda, inevitabilmente, sull’altra corsia del nostro Percorso: sulla corsia dell’Ellade.

     Infatti ad Atene, la scorsa settimana, sotto lo sperone di nord-est della collina dell’Areopago abbiamo individuato il santuario delle Semnài, o delle Erinni (ricordate?), le mitiche dee della vendetta che, secondo la leggenda, avevano perseguitato Oreste colpevole di aver ucciso la madre Clitennestra. Qui si trova – abbiamo detto – anche una traccia della presunta tomba del mitico personaggio di Edipo: questi sono tutti segnali (la presenza di Oreste, di Edipo) che caratterizzano un importante elemento culturale che riguarda il rapporto che c’è, nella cultura orfica (e questo elemento ci è stato trasmesso), tra il teatro e il tribunale, tra la rappresentazione della tragedia e la celebrazione del processo, e su questo complesso tema (che riguarda il territorio della tragedia che abbiamo attraversato qualche anno fa) dobbiamo – seppur brevemente e per frammenti – riflettere. Non si può capire la figura di Socrate (e anche la figura di Gesù Cristo) se non in rapporto con quel grande apparato culturale che chiamiamo: la tragedia.

     I processi – non solo nell’età antica e non solo sul territorio dell’Ellade – sono avvenimenti molto seguiti dall’opinione pubblica perché sono delle vere e proprie straordinarie rappresentazioni teatrali: c’è un’identità tra il teatro e il tribunale, tra la tragedia e il processo. La Letteratura – e l’arte figurativa in genere – ha sempre riflettuto (e prodotto) su questo concetto elaborato dalla Storia del Pensiero Umano fin dall’Età assiale della storia. Non ci si deve meravigliare che sull’Areopago, su un gradino più in alto rispetto al tribunale, ci sia il tempio delle Erinni che lega indissolubilmente la rappresentazione della tragedia alla celebrazione del processo.

     A questo punto – percorrendo la corsia dell’Ellade – dobbiamo fare una riflessione per capire la dinamica che porta a mettere sullo stesso piano il palcoscenico del teatro e l’aula del tribunale: il processo di Socrate, così come il processo di Gesù di Nazareth, lo conosciamo non attraverso la cronaca diretta dei fatti ma attraverso la Letteratura tragica e, proprio perché passa attraverso il genere letterario della tragedia, questo avvenimento assume tutta la sua valenza salvifica.

     Quindi, per riflettere in proposito, questa sera dobbiamo percorrere un itinerario che ci porti a capire meglio – dal punto di vista culturale – il senso del rapporto che esiste tra il processo (che è un ragionamento, che è espressione della mente) e la tragedia (che è un sentimento, che è espressione del cuore). E sarà poi il genere letterario del romanzo a mettere insieme la ragione e la passione (ma vi rendete conto di quante cose emergano, già in partenza, in questo Percorso!).

     Nel genere letterario della tragedia greca c’è un tema dominante, questo tema s’intitola: la storia dei Pelopidi. Uno scrittore (molto famoso) – che questa sera dobbiamo incontrare (lo abbiamo incontrato altre volte nei nostri Percorsi) – ha chiamato questo tema: la madre di tutte le tragedie.

     Il termine Pelopidi deriva dal nome di Pelope, e Pelope è il mitico personaggio che ha dato il nome al Peloponneso (il Peloponneso è la scapola di Pelope: come mai?). Adesso noi la storia dei Pelopidi la possiamo solo rievocare in minima parte in funzione dell’itinerario di questa sera, ma molte e molti di voi nell’anno 2003-2004 hanno viaggiato nel territorio della tragedia e le Lezioni di questo Percorso sono sul nostro sito – www.inantibagno.it – dove possono essere lette.

     La storia di Pelope è, nel suo complesso abominevole e rappresenta un modello culturale molto significativo e drammatico perché implica (è un mitico racconto di creazione) il racconto della nascita di un terribile fallimento per l’Umanità che continua a manifestarsi. Di che cosa si tratta? La storia di Pelope – l’abominevole madre di tutte le tragedie – è una sequenza di vendette, di maledizioni, di gesti criminali, di inganni disgustosi, di omicidi orribili, di tradimenti vergognosi che, inesorabilmente, ricadono su chi li ha commessi. La storia di Pelope è un modello dal quale non ci siamo più liberati che continua a ripetersi, calco su calco, nella tragedia quotidiana.

     Da che cosa dipende questa situazione fallimentare che pregiudica lo sviluppo spirituale dell’Umanità e che richiama la più drammatica delle domande esistenziali: perché c’è il male?

     Ce lo ha spiegato, con il suo velato pessimismo, Erodoto ne Le Storie e ce lo spiega anche lo scrittore che stiamo per incontrare: l’essere umano ha preferito prevaricare gli altri piuttosto che coltivare lo spirito di servizio, ha preferito rincorrere il potere piuttosto che misurarsi con il senso del dovere e ha preferito – come ci ha insegnato lo scorso anno la sapienza poetica beritica– non rispettare i patti stipulati e trasgredire alla legge uguale per tutti. Questo è il tema esistenziale che emerge dal racconto della madre di tutte le tragedie, ed è per questo motivo che sulla via del rispetto della legge troviamo – come ammonimento – a pochi passi dall’aula del tribunale il palcoscenico del teatro.

     Che cosa racconta la storia di Pelope (è necessario ripassarla a grandi linee, anche perché probabilmente qualcuna o qualcuno di noi non la conosce ancora e ha bisogno di acquisirne i contorni)? La storia di Pelope comincia, nel modo più rassicurante che ci sia, con un invito a pranzo, rivolto da un mortale agli dèi dell’Olimpo. Naturalmente questi avvenimenti sono leggendari (appartengono al grande racconto delle Origini) e non avvennero mai, ma proprio per la potenza del mito, sono sempre.

     Come facciamo a conoscerli questi racconti, chi ce li ha tramandati? C’è un libro: uno di quei testi davvero importanti nella Storia del Pensiero Umano che s’intitola   Ellados peri egesis: peri egesis significa guida, Ellados significa della Grecia: letteralmente, il titolo originale di quest’opera è Guida della Grecia. I curatori delle traduzioni nelle lingue moderne, a cominciare dall’Umanesimo, hanno preferito dare a questo testo un titolo più vicino al genere letterario del romanzo e così lo hanno chiamato Viaggio in Grecia. Chi è l’autore di quest’opera?  L’autore di quest’opera è uno scrittore famoso che si chiama Pausania: di lui conosciamo pochissime cose.

     Pausania è nato all’inizio del II secolo d.C. in Asia Minore (quando questo territorio faceva parte dell’Impero romano) nella regione del Sibilo, probabilmente nella città di Magnesia, come fanno supporre le frequenti citazioni, nella sua opera, di luoghi, di miti e di fenomeni caratteristici di questa regione che Pausania sembra definire come la sua. Pausania è vissuto nel periodo degli imperatori Adriano (abbiamo incontrato le Memorie di Adriano la scorsa settimana), Antonino Pio e Marco Aurelio, quindi sotto quelli che vengono considerati i più illuminati imperatori romani, ed è vissuto (secondo alcuni indizi) almeno fino al 180 d.C.. Quest’epoca – nonostante la crisi (economica, sociale, civile) dell’Impero romano – è caratterizzata da un certo ottimismo da parte degli intellettuali perché gli imperatori che abbiamo citato dimostrano di impegnarsi sul piano culturale, soprattutto nei confronti della cultura greca (un motivo in più per leggere o rileggere Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar).

     Pausania – che probabilmente apparteneva a una famiglia benestante e aveva potuto studiare e viaggiare – possiede una solida cultura basata su Omero, Esiodo, Pindaro: sui depositari della sapienza poetica orfica. Pausania, quindi, studia viaggia riflette ricerca e scrive e l’opera che Pausania compone viene considerata la più antica guida turistica – così la potremmo definire – che ci sia stata conservata e lasciata in eredità.

     Ellados peri egesis, la Guida della Grecia si compone di dieci libri, ma – il decimo libro s’interrompe bruscamente – è probabile che manchi qualche libro, (c’è un indizio che fossero quattordici): sapete che molti testi, di cui conosciamo l’esistenza perché sono citati in altri testi, sono andati perduti, purtroppo. Ellados peri egesis è la guida più completa che uno scrittore della civiltà e della cultura occidentale antica, abbia prodotto.

     Pausania illustra non solo i monumenti, ma anche i luoghi, le strade e i percorsi con le relative distanze, e poi i monti, le isole, i paesaggi, e la flora e la fauna della Grecia. Ma quest’opera è qualcosa di più di una guida: che cosa significa? Pausania filtra tutto ciò che vede attraverso la mitologia. La mitologia – e Pausania ce lo fa cogliere – è inscritta nel paesaggio che descrive attraverso la rete dei racconti delle origini, e a ogni monte, a ogni albero, a ogni fiume, a ogni animale corrisponde un mytos, una leggenda. Camminare in quei luoghi (è significativo, a questo proposito, il libro VIII del Peri egesis che è dedicato alla regione dell’Arcadia) diventa un culto: è cultura, e dimostra come si possa vivere un incontro con lo straordinario e con il meraviglioso. Ecco perché le studiose e gli studiosi di filologia orfica affermano che il libro di Pausania è molto di più di una guida.

     Pausania (anche se è vissuto 1800 anni fa) vede spesso monumenti ridotti a mucchi di pietre, e di queste pietre, per fortuna, ci racconta il mito, la leggenda e ci comunica le impressioni della sua esperienza personale di viaggiatore che si informa sul significato di questi sassi intervistando chi ancora ricorda le antiche tradizioni e le leggendarie narrazioni. Le lettrici e i lettori trovano nella Guida di Pausania uno straordinario repertorio di trame narrative che hanno appassionato gli Umanisti del 1400 e del 1500, i Romantici tra 1700 e 1800, e appassiona anche noi.

     Spesso Pausania non riesce a venire a capo delle sue ricerche perché quello che cerca  già non esiste più, e quando non riesce a constatare di persona la realtà di un fatto, lo scrive: «Ma io non sono riuscito a scovare la tomba di Crocone», «Ma, per ciò che riguarda questo santuario, scrivo quello che ho sentito dire e che altri ha detto facendone menzione», «Ho cercato di informarmi su chi fossero costoro, ma null’altro sono riuscito a sapere, se non che», «Circa questo nome non sono riuscito a sapere nulla dalle guide.».

     Come è generalmente riconosciuto, il modello di Pausania è Erodoto, ma Pusania (che è vissuto circa settecento anni dopo) vorrebbe distinguersi da Erodoto il quale si sforzava di essere imparziale, ma poi, sotto sotto, parteggiava sempre per i Greci, rispetto agli altri popoli: Erodoto non giudica mai il comportamento dei Greci, e si sa che chi tace acconsente...

     Pausania vorrebbe fare un passo in avanti sul problema della formulazione dei giudizi e scrive: «Io sono obbligato a esporre quello che i Greci dicono, ma non ho l’obbligo di credere a tutti e a tutto quello che si dice». Di Pausania colpisce soprattutto la riflessione che fa sulla varietà e sulla contraddittorietà delle leggende greche in rapporto alla stabilità degli stampi, scrive infatti: «La maggior parte delle leggende greche sono in disaccordo tra loro, l’unica cosa certa è che derivano dagli stessi stampi (typoi typoi)». In questo Pausania dimostra davvero di essere moderno perché ha capito che tutti i racconti delle Origini, pur diversificandosi tra le diverse culture, hanno un fondamento comune: oggi questo fondamento comune lo chiamiamo albero genealogico lessicale.

     Per concludere questa nostra doverosa escursione nella vita e nell’opera di Pausania dobbiamo dire che, da Costantinopoli, i dotti bizantini, nel corso del 1400, portarono in Italia molti codici: purtroppo molti di questi sono andati perduti. Tra questi codici ce n’era uno (assai malridotto) che conteneva la Guida della Grecia di Pausania, questo codice fu acquistato dall’umanista fiorentino Niccolò Niccoli che lo copiò, lo studiò e lo tradusse in latino. Alla sua morte, avvenuta nel 1437, il Niccoli lasciò il manoscritto alla Biblioteca di San Marco a Firenze: questo manoscritto è ancora lì e se visitate il Museo di San Marco siete informate e informati in proposito. Questo manoscritto è stato un punto di riferimento per chi abbia voluto studiare e pubblicare l’opera di Pausania: sono venute e venuti da tutto il mondo le studiose e gli studiosi ad occuparsi di Pausania attraverso il lavoro di Niccolò Niccoli (ma queste cose non fanno notizia).

     Infine dobbiamo dire che il titolo dell’opera di Pausania Ellados peri egesis, Viaggio in Grecia, ha creato anche un nuovo vocabolo: periegeta. Che cosa significa periegeta? Il periegeta è quella viaggiatrice, è quel viaggiatore che non si accontenta di fare la turista o il turista, ma vuole far parlare ciò che vede, vuole scoprire l’anima culturale degli oggetti che incontra sul suo cammino. Pausania, il periegeta, cerca di scoprire sempre che cosa hanno da raccontare(quale mito contengono) quei sassi che erano tutto ciò che rimaneva (i resti archeologici) – già ai suoi tempi – dei grandi monumenti del passato. Questo succede anche a noi quando ci avviciniamo ai resti (agli oggetti archeologici) del passato: potremo anche vedere delle forme ben composte ma senza conoscere, senza capire, senza applicarci, non avremo di fronte altro che sassi muti, ed è la rete dei racconti mitici – afferma Pausania, il periegeta – che dà voce ai mucchi di pietre, che dà un significato a ciò che rimane dei grandi monumenti del passato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In quale occasione hai provato la sensazione di essere una o un  “periegeta”, cioè di essere una viaggiatrice o un viaggiatore che è stato capace di fare emergere l’anima culturale degli oggetti incontrati sul suo cammino?… 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Ma adesso ritorniamo sulla corsia del nostro Percorso: stavamo parlando di Pelope e della storia dei Pelopidi, della madre di tutte le tragedie per capire la dinamica dell’identità tra il teatro e il tribunale. Il fatto è che se noi conosciamo la storia di Pelope e dei Pelopidi lo dobbiamo all’opera di Pausania. E che cosa ci racconta Pausania – attraverso una serie di frammenti che devono essere ricostruiti, come in un puzzle – della storia di Pelope e dei Pelopidi?

     Pausania, a questo proposito – nel raccontare la storia di Pelope e dei Pelopidi –, rivolge a se stesso una domanda importante e, con lui, ce la facciamo anche noi questa domanda: è giusto, è lecito, è conveniente raccontare l’abominevole, il riprovevole? Si esorcizza il male raccontando l’abominevole, raccontando l’orrore, oppure lo si sponsorizza ancora di più? È una questione di grande attualità!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A che cosa ti fa pensare, oggi, la parola “abominevole”?

Scrivi quattro righe in proposito, basta una frase per esprimersi…

     Pausania si domanda se i racconti mitici siano stati creati per avere la funzione di un vaccino che possa prevenire il male, in modo da potersi vaccinare nei confronti del male. Pausania pensa che i grandi tragediografi: Eschilo, Sofocle, Euripide abbiano utilizzato l’abominevole, il riprovevole, il senso dell’orrore, per stimolare una riflessione nella società della polis sul problema del male, sul tema della natura del male. Pausania scrive: «In fin dei conti i più grandi monumenti della nostra cultura (greca) sono i testi delle tragedie, la produzione più raffinata della nostra cultura è la tragedia, e alla tragedia, nella polis, era affidato un forte valore etico e formativo». Ed è con questa convinzione che Pausania ci racconta la storia di Pelope e dei Pelopidi.

     Pelope è il figlio di un re della Lidia immensamente ricco, che frequentava gli dèi. Quel re si chiamava Tantalo ed era tanto ricco quanto era chiacchierone: Tantalo parlava molto, forse parlava anche troppo. Nel suo palazzo, ai suoi invitati, raccontava, vantandosi, delle sue visite sull’Olimpo, raccontava quanto fossero buoni il nettare e l’ambrosia (il cibo degli dèi) che aveva assaggiato quando era stato invitato da Zeus. Del nettare e dell’ambrosia ne aveva sottratto anche piccole quantità (e si meravigliava che Zeus non se ne fosse accorto), e le offriva (in modica quantità) ai suoi invitati affascinati. Tantalo parlava anche (troppo) dei segreti divini di cui era venuto a conoscenza. Sull’Olimpo, teneva discorsi sfrenati, che non sempre piacevano agli dèi, ma Zeus continuava a mostrargli favore e a invitarlo. Secondo alcuni, Tantalo era suo figlio: ma neppure Zeus sapeva quanti figli aveva seminato per il mondo.

     Una cosa incuriosiva Tantalo: ma questi dèi dell’Olimpo, erano davvero onniscienti? Sapevano davvero tutto, anche prima che succedesse? È chiaro che lui avrebbe voluto carpire – visto che non era un oggetto che si potesse comprare – la formula che poteva far diventare onniscienti: Tantalo coltivava la pretesa di farsi dio un po’ anche lui. E così Tantalo mise alla prova gli dèi dell’Olimpo.

     Ma lasciamo che sia Pausania a raccontarci l’inizio della madre di tutte le tragedie:

LEGERE MULTUM….

Pausania di Magnesia, Periegesis-Viaggio in Grecia  (II sec.)

Un giorno Tantalo volle invitare a pranzo gli dèi Olimpi, e la madre di tutte le tragedie cominciò proprio con un invito a pranzo Pelope (ed ecco che entra in scena Pelope), il figlio di Tantalo, era allora poco più di un bambino. Vide i preparativi per questo pranzo, vide una grossa pentola di bronzo che venne messa sul fuoco. Poi ricordava qualcuno che lo smembrava, che, con le mani, lo faceva a pezzi (abbiamo preannunciato l’abominevole), ma lui non perdeva la coscienza. Ora gli dèi erano seduti intorno alla pentola di bronzo, dove il piccolo Pelope bolliva, fatto a pezzi.

Tantalo offrì agli dèi quel cibo squisito che aveva preparato per loro: tutti tacevano, la carne rimaneva nel piatto. Solo la dèa Demetra, che era particolarmente assorta, stordita, distratta, in quei giorni, perché sua figlia Core (ma questa è un’altra storia…) era scomparsa, prese un pezzo di quella carne e, soprapensiero, lo mangiò: era la scapola di Pelope.

Subito dopo Zeus rivela la sua furia. Tutti i favori che sino ad allora aveva riservato a Tantalo si capovolsero in atroci punizioni. Gli altri dèi, fortemente innervositi, continuavano a tacere davanti ai loro piatti. Zeus ordinò a Hermes di raccogliere i pezzi del corpo di Pelope, di rimetterli nella pentola e di farli bollire ancora. Poi Cloto, una delle Moire, che era un’esperta artigiana, li tirò fuori a uno a uno e cominciò a cucirli, come se accomodasse una bambola: i pezzi c’erano tutti, meno uno, rimaneva un grosso buco nella schiena. La dèa Demetra, che quel pezzo se l’era mangiato, allora creò una scapola d’avorio. La dèa Rea insufflò poi a Pelope il respiro (è uno dei racconti mitici sulla creazione). E così il ragazzo Pelope, vivo, integro, e radioso (dίos-dìos, in greco), tornò a vivere e il dio Pan gli ballava intorno per l’allegria.

     Questo è il primo atto della storia dei Pelopidi, lo abbiamo messo in scena per inquadrare il personaggio di Pelope. La storia di Pelope (non abbiamo il tempo per raccontarla nella sua interezza) è una sequenza di vendette, di maledizioni, di gesti abominevoli, di inganni disgustosi, di omicidi orribili, di tradimenti vergognosi che, inesorabilmente, ricadono su chi li ha commessi. La storia di Pelope è un modello dal quale non ci siamo più liberati e che continua a ripetersi, calco su calco, nella tragedia quotidiana.

     Da che cosa dipende questa situazione fallimentare che pregiudica lo sviluppo spirituale dell’Umanità? Ce lo ha ricordato Pausania sulla scia di Erodoto e sulla scia di Eschilo, di Sofocle, di Euripide (i più importanti scrittori di tragedie): l’essere umano ha preferito prevaricare gli altri piuttosto che coltivare lo spirito di servizio, ha preferito rincorrere il potere piuttosto che misurarsi con il senso del dovere e ha preferito – come ci ha insegnato lo scorso anno la sapienza poetica beritica– non rispettare i patti stipulati e trasgredire alla legge uguale per tutti.

     Adesso noi dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull’ultimo capitolo della storia dei Pelopidi: quello che, nell’itinerario di questa sera, ci riguarda più da vicino.

     L’ultimo capitolo della madre di tutte le tragedie, della storia dei Pelopidi, ha come protagonista il personaggio di Oreste. In questo ultimo capitolo si racconta che Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, si introduce nel palazzo reale di Micene e. per vendicare l’assassinio del padre Agamennone (che lui non amava, ma era suo padre e lo doveva vendicare), uccide la madre, Clitennestra, e il suo amante Egisto, detto l’impeccabile.

     La madre di tutte le tragedie ci racconta che, per questo duplice omicidio, Oreste (insieme alla sorella Elettra), verrà processato: ed era l’ora, finalmente, che intervenisse la Magistratura in tutta questa storia che vede i protagonisti – Pelope, Ippodamia, Emonao, Mirtilo, Atreo, Tieste (tanto per citarne alcuni) – commettere orribili delitti. I racconti delle origini – tutte quelle narrazioni che s’incanalano nel genere letterario della tragedia – finiscono, finalmente, in tribunale perché questa rete di racconti è piena di crimini abominevoli che richiamano altri crimini.

     È chiaro che questi orribili delitti sono avvenimenti che, in quanto tali, così come ci vengono raccontati, non sono mai avvenuti: è la Letteratura che li configura. La Letteratura, con la scrittura, dà forma all’abominevole contenuto nel mito e stimola la nascita dell’istituzione giudiziaria perché fermi la riproduzione dell’abominevole nella realtà. La Letteratura porta la Magistratura, porta il tribunale sul palcoscenico del teatro, per celebrare il processo ai personaggi responsabili di molti delitti, per vagliare gli inganni, le maledizioni, i tradimenti, le vendette contenute nella rete dei racconti che sfociano nel genere letterario della tragedia. E difatti, quando si parlerà di tragedia, si definirà una narrazione drammatica che ha come oggetto l’inganno, la maledizione, il tradimento, la vendetta, con tutte le conseguenze orribili che questi atti comportano. La tragedia è una narrazione fortemente ricca di pathos (di sofferenza), che si orienta verso una catastrofe finale, dalla quale scaturisce un insegnamento, una morale, una purificazione, una catarsi: così scrive Aristotele nella Poetica. La tragedia, come genere letterario, s’identifica con la celebrazione di un processo, in cui c’è un’accusa, c’è una difesa, c’è un giudizio e c’è una condanna, oppure c’è un’assoluzione, e il teatro (ed è qui che volevamo arrivare) s’identifica con il tribunale (dicasterion-dicasterion).

     Il processo ad Oreste si tiene ad Atene, sull’Areopago (non è di qui che parte la via del rispetto della legge?), si tiene nel cuore della polis, nel centro della città ellenica per eccellenza: il processo ad Oreste è un tema famoso nella rete dei racconti mitici, e viene utilizzato in una serie di tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Sono ben sei le tragedie greche che riprendono e sviluppano il tema del processo ad Oreste: il primo grande processo della storia della cultura occidentale, il rito che deve mettere un freno all’abominevole storia dei Pelopidi. Questi grandi scrittori di tragedie – Eschilo, Sofocle, Euripide – non si limitano a raccontare ma vogliono far riflettere le cittadine e i cittadini sulla necessità di dare corso alla giustizia, sulla necessità di restituire e di conservare la legalità in una società civile. Le tragedie greche sono soprattutto una profonda riflessione sul valore della legalità. Per garantire la libertà è necessaria la Legge uguale per tutti: nessuno è libero di ingannare, di maledire, di tradire, di vendicarsi, ci sono delle Leggi sull’Areopago.

     Quali sono le sei tragedie greche che riprendono e sviluppano il tema del processo a Oreste e a sua sorella Elettra complice anch’essa nell’omicidio di Clitennestra ed Egisto? Eschilo scrive, nel 458 a.C., una trilogia intitolata Orestea (o Orestiade) che contiene tre tragedie: Agamennone, Coefore (le donne che fanno un rito), Eumenidi (le Erinni, o le Baccanti che diventano buone). L’Orestea è l’unica trilogia della letteratura greca che ci sia rimasta ed è il capolavoro di Eschilo.  Sofocle scrive Elettra nel 420 a.C.. Ed Euripide scrive Elettra nel 413 a.C. e Oreste nel 408 a.C..

     Potete provare a leggere i testi di queste tragedie, o meglio – se capita – potete andare a seguirne la recitazione a teatro. La Scuola, però, deve essere realista e deve dire le cose come stanno: non è impossibile ma non è facile, né allettante, leggere i testi delle tragedie. Mentre invece è possibile ed è più agevole – come esercizio intellettuale – rinvenire il pathos (la tensione, la sofferenza) e molti temi della tragedia, leggendo i romanzi, soprattutto i grandi romanzi dell’800 e del ‘900.

     Noi, questa sera, non possiamo fare l’esegesi delle sei tragedie che abbiamo elencato: per fare questo ci vorrebbero sei settimane. Adesso noi prendiamo in considerazione l’ultima di queste opere che s’intitola Oreste ed è stata scritta da Euripide e riassume la fase finale della storia dei Pelopidi. Euripide (così come Eschilo, come Sofocle e come tutte e tutti coloro che scrivono tragedie) non intende raccontarci una storia ma utilizza un intreccio narrativo per andare oltre la storia. Gli scrittori di tragedie non hanno come obiettivo quello di raccontare, vogliono far riflettere i cittadini sulla necessità che si dia corso alla giustizia, sulla necessità che si restituisca sempre e si conservi la legalità in una società civile. Le tragedie greche – come abbiamo già detto – sono una profonda riflessione sul valore della legalità: il non rispetto delle Leggi aliena la libertà e lascia il campo all’abominio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La tragedia “Oreste” di Euripide si svolge ad Argo, nel cuore agricolo del Peloponneso: Argo, fu considerata dai Greci la più antica città dell’Ellade, anche se questo primato – secondo le studiose gli studiosi di archeologia – spetta alla piccola polis di Lerni, che si trova a 10 Km. a sud di Argo…

Perché con la guida della Grecia, oppure sulla rete, non fai un giretto da quelle parti: ad Argo e a Lerni?  Buon viaggio…

     Ad Argo – secondo un racconto della rete mitica – si era rifugiata Elena (poteva non apparire Elena? È dallo scorso anno che non la incontriamo!). Ad Argo, dopo la guerra e la distruzione di Troia, Elena viene raggiunta anche da Menelao, suo marito: un marito alquanto sconcertato, perché a Troia, non l’aveva trovata; anzi aveva scoperto che Elena, a Troia, non era mai arrivata insieme a Paride (e noi, a suo tempo, abbiamo studiato lo straordinario racconto di questa storia) e Menelao avrebbe voluto delle spiegazioni. Elena si comporta con molta freddezza nei confronti di Menelao, e tollera appena la sua presenza. Menalo non sa a che cosa pensare, c’è un dubbio atroce che lo turba: è stato tradito o non è stato tradito? Elena non risponde, fa pesare solo il suo silenzio (quanti romanzi descrivono questo tipo di situazione, ed Euripide è un grande artista nel metterla in evidenza!). Elena vuol far pesare a Menalo e a tutti gli altri guerrieri Achei il modo sproporzionato con cui hanno reagito alla sua fuga. Che cosa c’entravano tutti i Greci e tutti i Troiani in questa faccenda? Elena aspetta una risposta a questo interrogativo, a questo inquietante interrogativo.Per il resto non ha nessuna spiegazione da dare: la responsabilità di quella fuga con Paride, Elena se l’è assunta completamente fin dall’inizio.

     Ad Argo – dopo essere stati arrestati – vengono portati Oreste ed Elettra per essere processati, perché hanno ucciso Clitennestra ed Egisto. Nella tragedia di Euripide, Oreste ed Elettra vengono in un primo momento processati ad Argo e condannati a morte, ma Menelao è molto frastornato e temporeggia, non sa decidersi a stabilire il giorno dell’esecuzione. Menelao, veramente, avrebbe voluto difendere Oreste ed Elettra e non solo perché sono i suoi nipoti, ma perché capisce che sono vittime del mancato intervento, a tempo debito, dell’istituzione giudiziaria e capisce anche che quando è fuggita Elena non era necessario scatenare una guerra mondiale: bastava un giudice di pace...

     Ma Menelao non ha avuto il coraggio di difendere Oreste ed Elettra perché avrebbe dovuto ammettere (come nel caso della guerra contro Troia) troppe cose: avrebbe dovuto pubblicamente ammettere tutta la trafila degli inganni, delle maledizioni, dei tradimenti e delle vendette.

     Oreste viene difeso dal suo amico e cugino Pilade che è il figlio di Stròfio, re di Focea, e di Anassibia, sorella di Agamennone e Menelao. Anche Pilade, come Oreste ed Elettra, è nipote di Menelao: il luogo della tragedia è la famiglia. Pilade, dopo la condanna a morte di Oreste ed Elettra, organizza un colpo di mano: libera dal carcere Oreste ed Elettra e i tre penetrano nel palazzo reale e prendono in ostaggio Elena (la loro zia) ed Ermione, la figlia di Menelao e di Elena (che è la loro cugina). Elena, nel corso dell’assalto, tenta di sfuggire, ma riceve una pugnalata da Oreste, e rimane uccisa, ma il suo corpo scompare in modo misterioso. Accorre Menalo con le sue guardie, ma Oreste minaccia di sgozzare Ermione sotto gli occhi di Menelao. La reggia viene circondata dal popolo di Argo. Oreste, Elettra e Pilade sono in trappola ma sono decisi a dar fuoco al palazzo quando, deus ex machina, a risolvere questa situazione atroce, compare (scende dall’alto) Apollo.

     A questo punto la scena è di Apollo e il dio parla e rivela che Elena non è morta ma è stata assunta in cielo per volere di Zeus (Elena è figlia di Zeus e di Leda, la moglie di Tindaro): Elena è diventata una stella (bianca, luminosa, splendente, come la scapola d’avorio di Pelope), diventa addirittura una divinità immortale (i templi di Elena ci sono ancora sul territorio dell’Ellade, e anche qui, e sono degli alberi: i platani).

     Il dio Apollo invita Menelao a riconoscere i propri errori e a darsi pace. Poi ordina a Oreste di presentarsi ad Atene dove verrà processato sull’Areopago, nel più importante tribunale dell’Ellade. Poi ordina che Elettra e Pilade (che si amavano fin da bambini) si sposino, anche se sono cugini. Infine predice che Oreste, in futuro, cercherà e sposerà Ermione, ma dopo incontrerà una donna che per lui sarà come una pietra conficcata nel suo corpo, come un veleno che gela le sue viscere: quella donna potrebbe essere – insinua Euripide, che non ama esplicitamente il lieto fine – l’ultimo anello della catena degli orrori con cui si chiude la storia dei Pelopidi. Apollo ordina a Oreste, a Elettra e a Pilade di allontanarsi, di lasciare la città di Argo e di avviarsi, ubbidienti, verso Atene: la loro ubbidienza alla Legge sarà considerata una delle attenuanti. Apollo, davanti al popolo di Argo – agli spettatori della tragedia – parla e profetizza, racconta quello che succederà, ma che è già successo nella rete dei racconti.

     Prima di leggere un frammento tratto dal testo dell’Oreste di Euripide, un frammento in cui la voce di Apollo – calato sulla scena come un angelo – racconta e profetizza come sarà il destino di Oreste, e ammonisce ricordando a tutti quale insegnamento si può trarre dalla storia dei Pelopidi, ed esorta, quindi, a rispettare la Legge uguale per tutti, dobbiamo riflettere su alcune caratteristiche tipiche di Euripide come scrittore, poeta e compositore, che sono importanti perché rappresentano un modello che influenzerà la storia della letteratura nei secoli, fino al cosiddetto dramma borghese del ‘900 e oltre.

     La tragedia di Euripide (rispetto a Eschilo e a Sofocle) assume un aspetto più veristico, più realistico, più prosaico: che cosa significa? Euripide è completamente laico, non ha più alcuna fede e simpatia per il mito, che guarda con occhio critico e irriverente, e altera i racconti mitici senza scrupolo, e mira unicamente alla realtà. I personaggi di Euripide sono completamente umani e devono fare i conti, non con l’Olimpo, ma con le istituzioni democratiche: scrive Aristotele nella Poetica: «Eschilo rappresenta i personaggi come sono nel mito, Sofocle rappresenta i personaggi come dovrebbero essere, ed Euripide li dipinge come sono». In Euripide, l’analisi psicologica dei personaggi trova uno sviluppo reale, credibile: Euripide è il primo grande indagatore dell’animo femminile (il poeta Ovidio ne sarà fortemente influenzato in tutte le sue opere, a cominciare dalle Metamorfosi).

     Le figure più significative del teatro di Euripide sono appunto quelle femminili: abbiamo citato Elettra ma ci sono Elena, Alcesti, Medea, Ifigenia, Andromaca, Fedra (in Ippolito, e tenete a mente il nome di Fedra). Queste figure sono le meglio riuscite di Euripide ma – secondo gli esperti – sono anche i modelli femminili più importanti che hanno caratterizzato tutta la storia del teatro, la storia della Letteratura e la storia dell’arte in generale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando l’enciclopedia o navigando sulla rete puoi fare conoscenza con le figure di Alcesti, di Medea, di Fedra, di AndromacaQuale di questi personaggi ti colpisce di più e che cosa ti fa venire in mente?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Con Euripide, la tragedia tende a interessarsi delle questioni della vita, e spesso diventa una tribuna, o un tribunale (dicasterion-dicasterion) da cui si proclamano i princìpi politici della democrazia, e i princìpi filosofici (morali, giuridici) della Grecia contemporanea ad Euripide. Spesso il poeta Euripide – e siamo alle origini dell’esistenzialismo – interviene nel testo della tragedia con il suo acuto pessimismo scettico, che concepisce la vita come un male, come un dolore, e che giunge alla desolata conclusione: «esser meglio per l’essere umano non nascere»: e noi sappiamo che questo verso lo riprende Giacomo Leopardi.

     Ma, altrettanto spesso, il filosofo Euripide (sofista e scettico) aggiunge: «meglio esser nati per poter fare la considerazione che forse era meglio non nascere», ma è proprio facendo questa riflessione, che noi, avvaloriamo il fatto che stiamo vivendo e ci stiamo interessando alla vita.  Capite che, per queste ragioni, Euripide – ci dicono le studiose e gli studiosi – si può considerare il precursore del moderno dramma borghese: egli fu apprezzato e gustato, in tutte le epoche, nel periodo alessandrino e romano e poi via via fino ai giorni nostri.

     Per quanto riguarda la forma, con Euripide (rispetto a Eschilo e a Sofocle) la composizione tragica tende a scomporsi, a disorganizzarsi, a mancare di organicità, cioè perde la forma classica, per assumere connotati di modernità, e gli intellettuali rinascimentali troveranno in Euripide un punto di riferimento fondamentale. Il testo di Euripide è formato da una serie di trame che si intersecano in una rete complessa: gli esperti definiscono i drammi di Euripide già barocchi e già ai livelli di una sperimentazione post-moderna. Le innovazioni tecniche apportate da Euripide diventano un modello per il teatro: il prologo della tragedia diventa ridottissimo, gli episodi servono per introdurre il deus ex machina (l’ànghelos, il messaggero), il quale, ad un certo punto scende in mezzo a tutti (agli attori, al coro, al pubblico). Egli, con un lungo epilogo o èsodo – che consiste in un’ampia requisitoria (come se fossimo in tribunale), – narra quello che succederà: gli spettatori devono immaginare l’evento, perché devono prima di tutto partecipare a una riflessione pubblica (non è solo uno spettacolo la tragedia: ma un rito di purificazione).

     Studiare i modelli simbolici delle tragedie (ecco perché ci siamo occupati di Euripide) è utile non solo per leggerle (abbiamo detto che non si tratta di un’impresa facile), ma è utile soprattutto per leggere tanto la letteratura moderna e contemporanea, che continua incessantemente a ricalcare questi modelli, quanto per leggere la letteratura immediatamente successiva: le opere (e le incontreremo a suo tempo) che raccontano il processo di Socrate utilizzano i canoni del genere letterario della tragedia ed è proprio per questo motivo che assumono una potenza straordinaria.

     Ora però leggiamo un frammento dalla tragedia Oreste di Euripide. Ascoltiamo Apollo che, disceso dal cielo, in mezzo a tutti, profetizza, narra, commenta, ammonisce, minaccia, fa riflettere. Questo testo è difficile da leggere e da comprendere (se non si possiedono alcune competenze che abbiamo cercato di acquisire) e sono necessarie ancora alcune istruzioni per l’uso: Apollo comincia a parlare dopo che Oreste, insieme a Elettra e a Pilade, sono usciti di scena per andare ad Atene dove sarà celebrato il loro processo. Apollo racconta a tutti quello che succederà (è lo stile dell’apocalisse, cioè della rivelazione): svela che Oreste verrà assolto sull’Areopago, con il voto determinante della dèa Atena, presidente del tribunale, del dicasterion-dicasterion. (Se oggi si visita l’Areopago senza avere in mente queste forme e questi contenuti che cosa si vede?Il rischio è quello di vedere solo dei sassi e il bel panorama avvolto dallo smog  e dall’inquinamento).

     Apollo svela che questo processo – sotto lo sguardo di Atena – dovrà servire soprattutto agli Ateniesi per riflettere sulle ragioni sociologiche del crimine. Gli Ateniesi dovranno riflettere sul fatto che reprimere il crimine è inutile, senza una decisa, costante ed esemplare attività di prevenzione, di educazione civica. Chi racconterà, dopo il 399 a.C., il processo di Socrate si porrà come obiettivo quello di ribadire questo stesso concetto. Apollo svela che Oreste verrà assolto, ma rimarrà per sempre un disadattato, e dovrà rassegnarsi a bere da solo. Ricordate che cosa significa il nome Oreste?  Significa: colui che beve da solo. (Socrate accetta di buon animo la condanna inflittagli: non fugge, anche se lo avrebbe potuto fare, non si lamenta, perché vuole morire risanato e non vivere da disadattato come Oreste.

     Apollo svela che Oreste sarà un disadattato perché verrà perseguitato dalle Erinni, che sono l’immagine dei suoi ricordi, e i suoi ricordi sono una trafila di inganni, di maledizioni, di tradimenti, di vendette: in qualunque posto vada c’è qualcosa che ricorda ad Oreste la storia della sua famiglia, la madre di tutte le tragedie. E non è casuale che sull’Areopago un gradino più in alto dell’aula del tribunale ci sia il tempio delle Erinni.

     Poi Apollo svela che Oreste sposerà Ermione (la figlia di Elena e di Menelao, sua cugina), quando lei perderà il fidanzato, Neottolemo, figlio di Achille, ucciso da Apollo. Questa situazione sarà insopportabile per Oreste perché lo porterà ad identificarsi con Agamennone, con suo padre che ruba ancora una volta una donna ad Achille. Oreste aveva voluto vendicare suo padre Agamennone, ma lui non lo stimava affatto.

     Infine Apollo svela che Oreste incontrerà una donna che sarà, per lui, come una pietra conficcata nel suo corpo, come un veleno che gela le sue viscere: chi è questa donna che, inevitabilmente, ci fa pensare a Socrate? Questa donna è Erigone, la figlia di Clitennestra ed Egisto, quindi la sua sorellastra.

     Ora leggiamo: è Apollo che parla e che ci svela.

LEGERE MULTUM….

Euripide, Oreste   Èsodo IV   (408 a.C.)

La truce ruota della vendetta dei Pelopidi sembrerà bloccarsi dinanzi al nobile dibattito dell’Areopago per Oreste.

E, quando il voto di Atena provocherà la sua assoluzione,

tutti alzeranno la fronte, che sarà come sciolta da un incubo.

Oreste non sarà mai Oreste se non nella follia pungolata dalle Erinni.

O nei brevi momenti di requie dalla follia, come quando poggerà la testa su una pietra in un’isoletta vicino a Gythion,

e avrà un soprassalto, quando gli diranno che proprio lì, Elena e Paride,

avevano passato la loro prima notte d’amore, e deciderà subito

di rimettersi in viaggio. O in quel soffocante luogo dell’Arcadia, dove si accorgerà

di non riuscire più a sostenere le Erinni, e non tanto loro, di cui non spererà neppure

di liberarsi, ma il loro colore, quel nero denso nella chiarezza meridiana,

e per l’esasperazione, con un morso, si staccherà un dito dalla mano sinistra.

Allora le Erinni diventeranno bianche e si chiameranno le Eumenidi.

Ma quella pace durerà poco, anche bianche, le Erinni, saranno terrorizzanti, forse anche di più,

e lo seguiranno sempre, pur addormentandosi ogni tanto, pur sbagliandosi talvolta

di strada, disordinate ma testarde. Le vedrà piombare su di sé come pezzi di statue

dal cielo. E gli capiterà anche di non reggere al terrore, gli capiterà una volta

sulla lugubre riva della Tauride, e allora si metterà a ululare come un cane

e una mandria di bianchi vitelli gli verrà incontro e Oreste crederà che siano

tutte Erinni, quei vitelli, e gli si stringeranno addosso. Oreste avrà la prova ultima

che tutto ciò che egli farà, mai gli apparterrà, e quando conoscerà Erigone,

sarà per lui come una pietra conficcata nel suo corpo, come un veleno che gela le sue viscere.

Erigone era la figlia di Egisto e Clitennestra, quindi il suo specchio nella discendenza di Tieste,

quindi la sua prima nemica. Insieme a Tindaro, re di Sparta e padre

di Clitennestra, la vedrà presentarsi ad Atene per accusarlo davanti all’Areopago di averle ucciso i genitori,

e Oreste vedrà in lei la fierezza selvatica della dèa Artemis, che gli Atridi non erano mai stati capaci di conquistare,

da quando Atreo le aveva sottratto l’agnello d’oro. Oreste la guarderà e vedrà se stesso come donna,

e al tempo stesso vedrà l’essere più estraneo a lui, più imprendibile.

Quello, capirà finalmente, sarà l’unico essere che potrà desiderare: da uccidere o da amare.

Durante il processo, Oreste si muoverà come una maschera animata dai suggeritori delfici,

e quando sarà assolto, Erigone vorrà impiccarsi, per la rabbia.

Tanti cadaveri si erano ammucchiati fra Oreste ed Erigone  che i due non potevano neppure vedersi.

Oreste si accorgerà un giorno che si sentiva attratto soltanto da lei.

Riuscirà a ritrovarla e si ameranno perché è nel mistero che si svela l’amore

e Oreste ed Erigone avranno un figlio: Pentilo. In quel bastardo

si riuniranno davvero le discendenze di Atreo e di Tieste?

Ci sarà tregua tra i fratelli che avevano lottato,

con ogni mezzo illegittimo per conquistare la legittimità, e per espellere l’uno dall’altro?

Nel sangue di Pentilo quelle discendenze saranno condannate a mescolarsi

per sempre? A meno che il sangue di Pentilo fosse composto

soltanto di purissimo sangue di Tieste e dei suoi figli,

e in questo caso Oreste e Erigone sarebbero stati fratello e sorella e gli Atridi,

un fantasma, un simulacro senza anima e corpo.

Oreste governerà un grande regno e quando si avvicinerà ai settant’anni, qualcosa

lo istigherà a tornare sui luoghi dove aveva patito più acutamente la follia, si ritirerà

in Arcadia. Non avrà il ruolo di potente sovrano, anche se avrà un grande regno.

Rimarrà sempre colui che sarà costretto a bere da solo. Un giorno, non lontano

dal luogo dove si era staccato un dito coi denti perché le Erinni diventassero bianche,

sarà morso a un calcagno da un serpente, e morirà di veleno, così come col veleno,

suo unico compagno oltre Pilade, era sempre vissuto. E un giorno lontano cercheranno

le sue ossa, per ragioni simili  a quelle per cui cercheranno

le ossa di suo nonno Pelope: per far cadere una città.

Questa volta non sarà così grandiosa come Troia,

ma sarà pur sempre importante. Si tratterà di Tegea,

che gli Spartani, da generazioni, tentavano invano di espugnare.

L’oracolo dirà che le ossa di Oreste sarebbero state trovate là dove colpo segue colpo,

dove male giace su male: colpo su colpo, male

su male. Le ossa di Oreste, erano state sepolte nell’officina di un fabbro,

e continueranno a fremere ai colpi del ferro che si abbatterà sul ferro.

Continueranno a fremere perché a colpo segue colpo, a male segue il male.

     Che significato ha la grandiosa metafora racchiusa in questi ultimi versi? Leggere e capire i versi di Euripide non è un’impresa facile ma è senza dubbio un’esperienza affascinante anche perché qualche competenza (sui personaggi e sulla dinamica degli avvenimenti mitici) come lettrici e come lettori l’abbiamo acquisita, questa sera, strada facendo sulla via (impervia) del rispetto della legge. Euripide codifica in questo stupendo dramma (purtroppo non possiamo assaporare la potenza della lingua originale) la fine della storia dei Pelopidi, gli atti conclusivi della madre di tutte le tragedie. Su queste mitiche narrazioni provenienti dai culti di Dioniso e dai riti Orfici, rifletteranno i più importanti pensatori greci, e poi tutte e tutti coloro che sono stati protagonisti di rilievo nella Storia del Pensiero Umano, e anche noi – strada facendo – dovremo ripassare i culti di Dioniso e i riti Orfici: contrariamente non potremmo capire il linguaggio di Socrate e di Platone.

     Euripide – come farà successivamente Pausania (che abbiamo incontrato nella prima parte del nostro itinerario) – ritiene che siamo destinati a vivere in un magazzino di calchi, in un deposito di storie mitiche che continuano a dare forma ai nostri pensieri. In quanto esseri umani siamo vincolati alla forma, e le forme – ve lo ricordate Kant? – sono dei contenitori e senza possedere i contenitori si raccoglie pochino.

     Il mondo greco ci lascia in eredità la consapevolezza della potenza che hanno gli stampi. Gli stampi, i calchi, le forme caratterizzano il pensiero dell’Occidente e grandiosa è la metafora che ci presenta Euripide negli ultimi versi che abbiamo letto: le ossa di Oreste (vale a dire gli affascinanti e terribili racconti delle origini) sono sepolte sotto la bottega di un fabbro (di un demiurgo, di un artigiano) che dà forma al più duro metallo per trasformare la natura in cultura (in questo caso il demiurgo è lui, è Euripide).

     Per conoscere e per capire la realtà non dobbiamo solo guardare le cose come stanno, ma dobbiamo conoscere e capire in quali contenitori (dentro a quali allegorie) stanno le cose. Dobbiamo, come fa Euripide come fa Pausania e come fa Socrate, andare alla ricerca degli stampi: Socrate è il primo – così afferma Platone (e se non ci fosse Platone il pensiero di Socrate non lo potremmo conoscere) – a chiamarli concetti. E sarà proprio Platone che, sulla scia dei riti orfici e dell’insegnamento di Socrate, definirà lo stampo, il calco, la forma, con il nome di aidόs-aidòs, l’idea. Le idee sono stampi e, in quanto tali, hanno un limite preciso e determinano la realtà delle cose. L’esistenza di una cosa – secondo Platone – è determinata dall’idea, dallo stampo, che contiene quella cosa stessa. Se gli stampi sono le idee e se le idee sono la determinazione della realtà significa che le idee sono la realtà, mentre le cose sono solo l’apparenza fugace della realtà. Le cose sono concrete e ciò che è concreto si decompone – stiamo citando Socrate attraverso la testimonianza di Platone –, le idee sono astratte e l’astratto dura. Questo significa che l’astratto – contrariamente a quello che sembra – è la realtà, ed è astratto il racconto mitico e il racconto mitico dura nelle sue allegorie.

     Gli avvenimenti descritti nei racconti che abbiamo narrato questa sera, non sono mai avvenuti in quanto tali: sono astratti e si riproducono in quanto forme, in quanto contenitori, in quanto idee. Gli avvenimenti concreti (spesso orribili) che hanno dato origine alla rete dei racconti allegorici (di conseguenza abominevoli) si sono decomposti e così, in quanto tali, non sono mai avvenuti, ma il modello astratto dura nella sua essenza: lo stampo (della vendetta, della maledizione, del gesto abominevole, dell’inganno, dell’omicidio, del tradimento) è sempre. Le cose esistono nell’astrazione, sono generate da un modello astratto, e se le vendette, le maledizioni, i gesti abominevoli, gli inganni disgustosi, gli omicidi orribili, i tradimenti vergognosi continuano a perpetuarsi, ecco che probabilmente sarebbe necessario rimodellare lo stampo, sarebbe opportuno operare per modificare il modello astratto. «Le cose cambiano – scrive Platone nel dialogo intitolato Repubblica – se siamo capaci di impossessarci dell’essenza della realtà, delle forme, delle idee e quindi dell’astratto».

     Noi siamo in viaggio per avvicinarci alle idee-significative e alle parole-chiave che la Storia del Pensiero Umano ci propone: senza cultura, senza studio, non c’è speranza di riscatto. Perché si investe moltissimo per spettacolarizzare la realtà e per darla in pasto, a pagamento, alle masse dei consumatori? È una domanda retorica: sappiamo infatti che ci sono in ballo grandi interessi e colossali affari in cui la parola concretezza corrisponde alla parola profitto e non all’espressione senso pratico. E perché non si investe quasi nulla per insegnare alle persone a decodificare l’astratto, a conoscere il valore delle idee, che sono l’essenza della realtà, quindi l’autentica concretezza? Sono domande retoriche ma sono belle domande perché sono domande di Socrate che ci sono pervenute attraverso le Opere di Platone. Socrate aveva anche delle risposte in proposito? Lo vedremo strada facendo.

     L’itinerario di questa sera ha seguito la scia di una lunga riflessione che ha avuto origine dalla parola palcoscenico. Infatti, in partenza, abbiamo dato una rapida occhiata d’insieme all’immagine (potete rimettere gli occhi su questa immagine) de La Scuola di Atene e abbiamo osservato che i molti personaggi raffigurati sono stati collocati ad arte su un grande palcoscenico in modo che ciascuna di queste figure possa – con la sua presenza – interpretare la sua parte.

     Questo palcoscenico (se osservate la scena, la scenografia) è collocato dentro una grandiosa basilica, ebbene: esiste da qualche parte una basilica così? C’è chi, tra gli esperti, ci vede una vaga somiglianza con l’arco quadrifronte di Giano a Roma, ma questo paragone è considerato una forzatura perché le esperte e gli esperti contemporanei concordano nel dire che questo non è un edificio reale, è virtuale: è una scenografia, siamo su un palcoscenico.

     Chi è l’autore di questo affresco? Lo sappiamo tutti: è Raffaello, l’inventore dell’Architettura in funzione della Pittura. È possibile che l’architetto Bramante – lo incontreremo, è il sovrintendente di Giulio II – abbia fornito degli spunti e delle indicazioni strutturali; ma non a caso Raffaello raffigura questa grande aula senza attenersi all’esatta prospettiva e si prende questa libertà anche nella composizione figurativa, tanto per ragioni estetiche di carattere squisitamente pittorico ma anche per altre ragioni che diremo in seguito, strada facendo. Raffaello mette l’Architettura virtuale al servizio della Pittura reale e la scena si apre con una grande arcata, a forma di semicerchio e da questa arcata parte, a sua volta, una fuga di archi di grande effetto suggestivo. La base della basilica – il palcoscenico – è formato da due piani, collegati da una scalinata di quattro gradini. All’interno dell’ultimo arco, al centro della composizione, troviamo due figure significative che – come tutti sanno – rappresentano Platone e Aristotele.

     Che cos’è La Scuola di Atene di Raffaello? La Scuola di Atene di Raffaello è molte cose (e lo studieremo): questa sera abbiamo imparato che raffigura anche il palcoscenico di un teatro e quindi – secondo la cultura orfica che vuole rappresentare – anche l’aula di un tribunale. Questa sera  abbiamo studiato gli elementi più evidenti del rapporto esistente tra teatro e tribunale, tra tragedia e processo.

     A questo proposito, per concludere questo itinerario incontriamo un poeta che ha sintetizzato in modo ermetico, con uno stile che è stato chiamato della parola pura, i temi della tragedia (e in particolare il pensiero torna ad Euripide). Questo poeta non ha bisogno di presentazioni, è molto noto perché nel 1959 gli è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura: si chiama Salvatore Quasimodo. Salvatore Quasimodo è un intellettuale della Magna Grecia (della Mega Hellas), è nato a Modica in provincia di Ragusa nel 1901 ed è morto a Napoli nel 1968.

     Leggiamo due liriche tratte dalla raccolta che s’intitola Giorno dopo giorno (1947) in cui lo scrittore sente l’esigenza di denunciare chi scatena le guerre e di comunicare che la guerra non è un’epopea eroica ma una tragedia da evitare modificando (attraverso la cultura) gli abominevoli stampi originari che vengono evocati con fini ingannevoli. Nell’agosto del 1943 Milano viene devastata da un terribile bombardamento.

LEGERE MULTUM….

Salvatore Quasimodo, Giorno dopo giorno (1947)

Milano, Agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta.

È morta: s’è udito l’ultimo rombo sul cuore del Naviglio.

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Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte, - t’ho visto - dentro il carro di fuoco,

alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo.

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     Raffaello ha ricevuto – come sappiamo – l’incarico di dipingere La Scuola di Atene da papa Giulio II. Chi è Giulio II? È un personaggio che merita di essere incontrato, e poi siamo obbligati ad incontrarlo. Molto probabilmente sarà proprio Salvatore Quasimodo a introdurre questo personaggio sulla scena. Sapete perché? Adesso è tardi e non c’è più tempo per rispondere in modo articolato.

     Lo faremo la prossima settimana, il viaggio continua: la Scuola è qui...

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 17, 2008