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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE LA SCANSIONE DEL TEMPO AVVIENE SULLA SCIA DI DIONIGI AREOPAGITA, IL DIO DIÒNISO E DIONISIOS Ò MICRÒS...

Lezione N.: 
9

Prof. Giuseppe Nibbi      La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale     11-12-13  dicembre  2013

La natività - Giotto

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

LA SCANSIONE DEL TEMPO AVVIENE SULLA SCIA

DI DIONIGI AREOPAGITA, IL DIO DIÒNISO E DIONISIOS Ò MICRÒS...

   Il nono itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” è l’ultimo dell’anno 2013 e, dopo la vacanza natalizia, il nostro Percorso continuerà nell’anno che verrà: il 14° di un nuovo secolo e, ormai, a questo punto, ci siamo abituate ed abituati anche all’idea che stiamo vivendo nel terzo millennio e abbiamo ormai interiorizzato questa nuova categoria del “tempo”.

   Il nostro viaggio – per quanto riguarda la categoria del tempo – procede in un periodo [l’Alto-medioevo] che, ad un certo punto [proprio durante il cammino che stiamo facendo], cessa di avere, come punto di partenza nel computo degli anni, la fondazione di Roma [ab Urbe còndita, dalla fondazione di Roma] ma viene identificato come il primo millennio di una nuova era: un’epoca caratterizzata dall’imporsi della “cristianità”, per cui, anche l’idea del “tempo che passa [il  chrnos chrònos, il tempo del Calendario e dell’orologio]” si cristianizza a discapito dell’idea paolina [vedi la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso] del “tempo che resta ” [il  kairos kairòs, il tempo della Salvezza]. Quando e come avviene la “cristianizzazione” del “tempo che passa ” [del chrònos] per cui, in un determinato momento, il Calendario comincia a segnare la metà di un nuovo millennio, il primo della nostra era? Ce ne occuperemo più tardi – alla fine di questo itinerario – perché è importante capire come è andato configurandosi l’aspetto del “tempo che passa”: noi segniamo il tempo con un metodo che prende il via all’inizio dell’Età alto-medioevale.

   Noi ora ci troviamo [come sapete] di fronte ad un vasto scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini” e, strada facendo, abbiamo incontrato una serie di personaggi [Gerolamo, Cassiodoro, Severino Boezio, Amalasunta, Proclo] che, a vario titolo, hanno operato per conservare i prodotti della cultura e della tradizione antica e tardo-antica: molte Opere classiche hanno rischiato di perdersi nel corso del lungo periodo di crisi dovuto al fenomeno dell’implosione che ha avuto il suo epicentro in quella che viene chiamata la “caduta” dell’Impero romano d’Occidente le cui fibrillazioni, come sappiamo, si sono prolungate – provocando ripercussioni su tutto il territorio dell’Ecumene – con le successive dominazioni degli Eruli di Odoacre, degli Ostrogoti di Teodorico, dei Bizantini di Giustiniano.

   A proposito di Giustiniano – colui che viene considerato il più grande tra gli imperatori bizantini [dell’Impero romano d’Oriente] al quale va attribuito il merito di aver contribuito a salvaguardare la giurisprudenza romana [con il Corpus juris civilis Justinianei] – sappiamo però che compie anche [ai fini della gestione del potere] un gesto deprecabile a scapito della cultura “classica” perché, nel 529, con un editto, impone la chiusura della Scuola filosofica di Atene [e sappiamo anche che c’è un’accreditata corrente di pensiero che pone questa data come l’inizio del Medioevo].

   Da circa un secolo e mezzo [dall’Editto di Tessalonica di Teodosio contro il paganesimo che è del 380] gli imperatori romani perseguitavano quelli che chiamavano gli “ellenizzanti”, i custodi dell’antica cultura greca di derivazione orfico-dionisiaca; questa tradizione si era evoluta [nel III secolo] nella raffinata corrente filosofica neoplatonica che faceva da supporto alla “dottrina” del Cristianesimo ma, tuttavia, si voleva far dimenticare il fatto che la figura di Gesù Cristo si era sovrapposta a quella di Dioniso acquisendone molte prerogative, per cui, Cristo e Dioniso avevano finito per assomigliarsi talmente che i “culti dionisiaci [e i culti misterici in generale, pensate a quello di Iside che, lo scorso anno, ci ha raccontato Apuleio con L’asino d’oro, o a quello di Mitra, altro personaggio affine a Dioniso, che a Roma andava per la maggiore]” continuavano ad essere celebrati soprattutto nei villaggi di campagna [nei pagi] e questo fatto rallentava il processo di “cristianizzazione” dell’intera società e la società “cristianizzata ” [da Costantino in avanti] prevedeva l’obbligo, per i sudditi “convertiti” al Cristianesimo, di ubbidire alle direttive di un’autorità costituita [il cristiano Imperatore] in possesso del crisma della sacralità.

   L’intervento repressivo di Giustiniano nei confronti dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene [uno dei provvedimenti di natura politica presi in vista della guerra goto-bizantina, dopo che Giustiniano si è auto-nominato Capo della Chiesa d’Oriente e custode dell’ortodossia nicena in chiave anti-ariana] diventa un pericolosissimo attacco alla cultura e alla Storia del Pensiero Umano perché, per affermare il potere temporale della “cristianità”, si è rischiato di perdere un patrimonio intellettuale di inestimabile valore come i Dialoghi di Platone, i Trattati e la Metafisica di Aristotele, le Enneadi di Plotino e molte altre Opere classiche di straordinaria rilevanza.

   Sappiamo che [lo abbiamo già ripetuto più di una volta] l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio di Damasco, i suoi sei collaboratori, tra i quali Simplicio di Cilicia e Prisciano di Lidia, insieme ad un gruppo di studenti [fuggono] partono per la Persia [l’Impero persiano è il tradizionale nemico dell’Impero bizantino] e il monarca persiano sassanide [il re dei re] Khusraw Anòshakrawan [detto Cosroe] li accoglie di buon grado e fornisce anche loro gli strumenti per tradurre le Opere filosofiche greche in lingua persiana: questo nuovo movimento di integrazione tra cultura greca e cultura orientale ha permesso il salvataggio di molti documenti filosofici greci grazie alle traduzioni siriache e poi arabe [a ridosso dell’anno Mille i Trattati e la Metafisica di Aristotele, i Dialoghi di Platone e le Enneadi di Plotino tornano in Occidente in traduzione araba, e questa è - abbiamo detto - un’altra storia interessante che studieremo a suo tempo].

   Giustiniano chiude una Scuola storica [l’Accademia di Atene] ma questo atto non sanziona la fine del Neoplatonismo anche perché la resistenza contro la repressione della cultura greco-ellenistica era già cominciata circa quarant’anni prima, quando i filosofi neoplatonici della Scuola di Atene – rifondata da Proclo di Costantinopoli – hanno iniziato a radunare, e a rendere trasportabile, tutto il materiale che non poteva assolutamente andare perduto [in primo luogo i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino]; difatti i reduci della Scuola di Atene, guidati dallo scolara Damascio di Damasco, fuggono in Persia portando con loro in esilio una ben fornita biblioteca che, metaforicamente, è stata chiamata “la statua di Atena” perché il vero monumento della cultura classica [greca e latina] è la raccolta [il corpus] delle Opere di questa grande stagione [quella antica e tardo-antica della Storia del Pensiero Umano].

   Sappiamo che questa indispensabile “raccolta” era stata preordinata a suo tempo [con mezzo secolo di anticipo] dall’ultimo importante filosofo che ha rifondato e guidato [fino al 485] l’Accademia tardo-neoplatonica ateniese: questo personaggio si chiama Proclo di Costantinopoli e noi lo conosciamo perché abita nel paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte, e abbiamo familiarizzato con lui nel corso dell’itinerario della scorsa settimana. Quindi, sappiamo chi è Proclo di Costantinopoli e sappiamo perché la biblioteca [clandestina, o da viaggio] che Proclo allestisce è stata metaforicamente chiamata “la statua di Atena”, e sappiamo anche che Proclo ci deve raccontare un suo sogno e sappiamo che i sogni hanno un forte valore allegorico.

   La scorsa settimana abbiamo studiato l’importanza che hanno avuto le Opere di Proclo [soprattutto i suoi Commenti ai Dialoghi di Platone e ai Trattati di Aristotele] nel processo di salvaguardia dell’antica cultura classica e poi abbiamo studiato le Opere teologiche in cui Proclo compone una sorta di enciclopedia del Neoplatonismo: questa operazione intellettuale – che offre un’esposizione completa, in chiave neoplatonica, della struttura gerarchica dell’Essere – ha fornito, nei secoli, utili strumenti [parole-chiave, idee-cardine] tanto alla “filosofia scolastica” in Età medioevale quanto alla “dialettica hegeliana” in Età contemporanea.

   Poi sappiamo che Proclo, per salvaguardare ed esaltare la potenza [l’energia intellettuale] del pensiero del Neoplatonismo, ha compiuto una straordinaria azione di depistaggio: ha composto, in termini neoplatonici, quattro trattati di teologia “autenticamente cristiana”, li ha assemblati in un volume [un corpus], e ne ha attribuito la scrittura ad un autore fittizio, “autenticamente cristiano”, al quale ha dato il nome di Dionigi Areopagita, e questo nome corrisponde a quello dell’allegorico personaggio – convertito da Paolo di Tarso dopo la fallimentare conferenza che l’apostolo ha tenuto all’Areopago di Atene – citato nel capitolo 17 al versetto 34 degli Atti degli Apostoli [avete riletto il capitolo 17 degli Atti degli Apostoli?]. La scorsa settimana abbiamo descritto quale straordinaria incidenza abbia avuto quest’opera, il Dionigi Areopagita, tanto nel salvaguardare il pensiero neoplatonico nei secoli, quanto nel favorire l’inserimento nel canone ideologico del Cristianesimo, in modo definitivo, del concetto orfico-dionisiaco dell’immortalità dell’anima: un’idea che è servita a potenziare notevolmente la “dottrina” cristiana e a far sì che s’imponesse anche nelle campagne [nei pagi].

   Sono occorsi circa quattro secoli al Cristianesimo per dare un posto di primo piano nella sua “dottrina” al tema orfico-dionisiaco dell’anima immortale, e l’atto definitivo di questa operazione è avvenuto, all’inizio dell’Alto-medioevo, grazie alla riflessione filosofica di stampo neoplatonico operata da Proclo di Costantinopoli [e dalla sua Scuola: l’Accademia tardo-neoplatonica di Atene]. Questa riflessione risolutiva è contenuta nel testo del Dionigi Areopagita [nel trattato “Nomi divini”] e, a posteriori, questa iniziativa intellettuale, operata da un non-cristiano [da un mistico neoplatonico], va considerata come un atto di salvaguardia perché, probabilmente, l’intenzione di Proclo è proprio quella di contaminare definitivamente la “dottrina cristiana ” [sempre più dominante] con il concetto sostanziale del pensiero neoplatonico: l’idea dell’anima immortale [se il Cristianesimo inserirà questo dogma nella sua dottrina, questa dottrina conserverà per sempre il marchio della mistica neoplatonica]. Proclo teme che l’idea fondamentale dell’anima immortale – sebbene il Cristianesimo la voglia inglobare nel suo pensiero – possa essere svalutata e schiacciata dal messaggio materialista antitetico della “resurrezione del corpo” che costituisce il nòcciolo [il  kerigma kerigma] della “buona notizia” predicata dalle Chiese cristiane. Come si articola questa importante e complessa operazione culturale?

   Il Vangelo delle origini predica e diffonde la “buona notizia” della resurrezione del corpo di Gesù e, con l’idea [decisamente controcorrente] della resurrezione della carne, il Cristianesimo si presenta sulla scena dell’Ellenismo come un “materialismo assoluto” di stampo ebraico, e questo connotato costituisce un limite per la predicazione su un territorio [il territorio dell’Ecumene ellenistica sul quale viaggia Paolo di Tarso] dove il tema orfico-dionisiaco della “liberazione dell’anima immortale prigioniera del corpo marcescibile” domina in modo preponderante: difatti Paolo di Tarso, nelle sue Lettere, scrive soprattutto delle difficoltà che incontra nel predicare la “resurrezione del corpo” in ambiente pagano, fuori dall’ambito dell’Ebraismo, dove è preponderante l’idea dell’anima immortale [l’elemento divino da liberare] prigioniera del corpo [l’elemento avverso da cui liberarsi].

   Con l’Epistolario di Paolo di Tarso [dall’anno 51] ha inizio una lunga riflessione che porterà il Cristianesimo al appropriarsi del concetto di “anima immortale” – un’idea in contrasto con l’affermazione della resurrezione del corpo, della carne, della materia [se esiste l’anima immortale, che necessità c’è che il corpo, depositario di tutti i mali, risorga? È un bene che cessi di esistere, è giusto liberarsene] –: ebbene, il Dionigi Areopagita è l’opera di stampo neoplatonico, con forti connotazioni mistiche, che, a distanza di circa quattro secoli dalle Lettere di Paolo, permette al Cristianesimo di appropriarsi definitivamente del concetto di “anima immortale” collocandolo [per giunta] al primo posto nella scala dei valori in cui credere pur salvaguardando l’idea originaria di “resurrezione della carne”. Come avviene questo passaggio epocale? Il sentiero qui si fa molto impervio [entrare nelle riflessioni di Proclo e nel linguaggio dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene non è cosa semplice, ma perché dobbiamo rinunciare a conoscere almeno qualcosa, se non proprio a capire tutto?].

   Secondo il pensiero di Proclo, contenuto nelle sue Opere teologiche e nel Dionigi Areopagita [in particolare nel trattato “Nomi divini”], dall’Uno – che è la prima e l’ultima fonte [l’Ente ineffabile, la suprema sintesi dell’Essere] – scaturiscono [così come scaturiscono i pensieri dalla nostra mente, scrive Proclo] innumerevoli triadi di Enadi [e ogni Enade è un principio supremo che è contemporaneamente Dio-Intelletto-Anima] e da questa effusione ininterrotta [e simultanea, perché l’Uno trascende il tempo] di triadi, che emanano altre triadi, si sviluppa l’insieme del Mondo creato [prendono forma tutte le cose spirituali, intellettuali e materiali] e questa processione [questa dialettica, come la chiamerà Hegel] avviene con moto circolare a spirale; questo mirabile movimento, che determina lo sviluppo della realtà con i suoi contrasti, riconduce poi, necessariamente, Tutto all’Uno dove si annulla ogni contraddizione, dove ogni antitesi si ricompone nella sintesi, perché l’Uno trascende tutte le triadi.

   E qual è il destino dell’essere umano in questo sistema? Secondo la logica della struttura gerarchica dell’Essere [disegnata da Proclo nel Dionigi Areopagita] ogni persona acquisisce la propria salvezza in comunione con la triade che dà un senso alla sua vita, formata da tre Enadi: “Essere divino [perché la persona è a immagine e somiglianza del Padre] - Esistenza corporea [perché la persona ha lo stesso Corpo di Gesù Cristo, del Figlio, destinato a risorgere] - Essenza spirituale [perché la persona è dotata di un’anima immortale, scintilla dello Spirito Santo]”, ebbene, se è così [se la sostanza dell’essere umano corrisponde a quella di queste tre Enadi], vuol dire che, nell’essenziale unità di questa triade, “il corpo risorto e l’anima immortale” rappresentano lo stesso attributo, uno degli attributi della perfezione [teleion téleion] divina e, quindi, i due concetti contrapposti dell’immortalità dell’anima [l’Essenza spirituale] e della resurrezione del corpo [l’Esistenza corporea], in virtù del concetto neoplatonico dell’Uno [la Suprema Sintesi], finiscono per compenetrarsi.

    E su questa complessa materia [non del tutto incomprensibile] – che riguarda i temi della conciliazione degli “opposti in contraddizione” – si eserciteranno [e dobbiamo cominciare ad esercitarci anche noi su questi termini tipici della sapienza poetica e filosofica medioevale], con abbondanza di riflessioni [a volte semplificatorie, altre volte piuttosto macchinose], i filosofi del movimento della Scolastica che incontreremo strada facendo, i quali traggono dal testo delle Opere teologiche di Proclo e da quello del Dionigi Areopagita il primo catalogo delle cosiddette “[sette] antitesi metafisiche fondamentali”: unità e molteplicità, causa ed effetto, staticità e movimento, trascendenza e immanenza, eternità e tempo, parte e intero, definito e infinito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste “antitesi metafisiche fondamentali” – unità e molteplicità, causa ed effetto, staticità e movimento, trascendenza e immanenza, eternità e tempo, parte e intero, definito e infinito – mettereste per prima in questo catalogo e quale per ultima?

Scrivetele, facendo affidamento, nella scelta, alla vostra esperienza pratica perché queste antitesi sono costitutive del nostro modo di essere ed evocano momenti dell’esistenza…

   E adesso [tanto per complicare un po’ le cose] leggiamo il brano, dal trattato Nomi divini del Dionigi Areopagita, che abbiamo cercato di spiegare e che tratta della conciliazione dell’antinomia più delicata sul piano dottrinale per il Cristianesimo: l’antitesi “immortalità dell’anima - resurrezione del corpo”. Forse, per quanto riguarda il contenuto, capiremo poco [ma non credo]  ma, dal punto di vista formale, una cosa è certa che il Dionigi Areopagita è anche, e soprattutto, una  straordinaria opera poetica scritta in stile allegorico e questo fatto lo si capisce benissimo.

LEGERE MULTUM….

Dionigi Areopagita, Nomi divini

Il corpo risorto e l’anima immortale rappresentano uno stesso attributo della perfezione [téleion] divina.   La persona che torna ad unirsi alla triade che dà un senso alla vita – che è la triade in cui procede l’Enade dal nome di Essere Divino emanato a immagine e somiglianza del Padre e l’Enade dal nome di Esistenza Corporea sgorgata dal Corpo risorto di Cristo e l’Enade dal nome di Essenza Spirituale effusa dall’Anima scintilla immortale dello Spirito –, dicevo, la persona che torna ad unirsi alla triade che dà un senso alla vita acquisisce l’eterna salvezza perché nel moto simultaneo e perenne, che riconduce necessariamente Tutto alla Sintesi Somma, si annulla ogni contrasto, ogni metafisica antitesi si ricompone nell’Uno che trascende il molteplice vortice del mondo creato.   

   Il Dionigi Areopagita, per secoli, tanto nella Chiesa d’Oriente quanto nella Chiesa d’Occidente, è stato considerato un’autorità inattaccabile, e quando i filosofi della Scolastica, nel cuore del Medioevo [dal IX al XIII secolo], vogliono cristianizzare il pensiero di Aristotele, oltre a quello di Platone, trovano nei testi dei trattati del Dionigi Areopagita – dove c’era la chiave per conciliare le contraddizioni – gli elementi adatti per perseguire i loro obiettivi teoretici: abbiamo già ricordato la scorsa settimana che Tommaso d’Aquino [tanto per fare un nome di un certo peso], nelle sue Opere, in cui “cristianizza” il pensiero di Aristotele, cita il Dionigi Areopagita 1170 volte, ma questa è un’altra storia e Tommaso lo incontreremo a suo tempo.

   Perché il Dionigi Areopagita è stato per secoli un’autorità indiscussa? Nei quattro trattati del Dionigi Areopagita emergono tre temi fondamentali che fanno da battistrada non solo alla nascita del movimento della Scolastica ma anche al formarsi di molte esperienze culturali contemporanee: quali sono questi temi? Nei quattro trattati del Corpus dionysianum – intitolati Teologia mistica, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini – emergono tre temi fondamentali: la “via per conoscere Dio”, le “caratteristiche delle cose create” e  il “movimento per ascendere a Dio”.

   Per quanto riguarda il primo tema [la via per conoscere Dio] l’autore s’ispira al dialogo di Platone intitolato Parmenide, e dimostra che le vie per conoscere Dio sono due: attraverso la Filosofia e attraverso la Sacra Scrittura. Il fatto è [spiega il Dionigi Areopagita] che se Dio, in chiave filosofica, s’identifica con l’Uno, che è chiuso nella perfetta identità con se stesso, niente si può dire di lui perché è totalmente ineffabile [“gnophos”, chiuso nell’indicibile ombra della divinità]. Ma siccome tutte le cose partecipano dell’Uno, si possono attribuire a Dio infiniti nomi [e non sono, forse, i nomi - si domanda il Dionigi Areopagita - una fonte di conoscenza?] e, per analogia, questi “nomi divini” si possono attingere , in chiave scritturistica, dalla Bibbia anche se si rivelano sempre inadeguati perché di Dio sappiamo, e possiamo dire “quel che non è”, non “quel che è”. E allora, spiega il Dionigi Areopagita, se è vero che Dio è l’Essere ineffabile, è vero anche che Egli può essere solo detto “Non-essere”, proprio perché Dio sta al di là di tutte le determinazioni, persino, spiega il Dionigi Areopagita, della struttura legata al dogma trinitario e, quindi, se vogliamo garantire il monoteismo [Dio non può essere più dell’Uno], il rapporto tra l’Unità e la Trinità non può che essere superato in una “Sopraunità” che concili in sé “l’esser trino nell’essere Uno”, perché, in definitiva, è l’Uno che trascende tutte le cose, a cominciare dall’immagine intelligibile che l’essere umano si fa di Dio, perché Dio, in quanto Causa che trascende ogni realtà intelligibile, non è a sua volta qualcosa di intelligibile. Il tema del primato teologico della “negazione [del fatto che di Dio si possa solo dire ciò che non è]” nelle Scuole medioevali avrà un successo straordinario e quest’opera, il Dionigi Areopagita, sarà citata infinite volte ma, in realtà, la mistica neoplatonica, a cui quest’opera s’ispira, trova anche molti detrattori e spesso sarà sentita come una minaccia nei confronti del messaggio cristiano che conserva un forte connotato materialista.

   Per quanto riguarda il secondo tema [le caratteristiche delle cose create] l’autore spiega che le cose sono create da Dio secondo “paradigmi eterni” e, quindi, una volta create, le cose sussistono non come semplici emanazioni ma come realtà autonome che hanno per fondamento i modelli divini secondo i quali le creature si dispongono in una “gerarchia scalare [una scala gerarchica]” a ritmi ternari [per triadi]. Le creature più alte sono gli angeli, che sono, spiega il Dionigi Areopagita, di nove tipi, distinti in tre gradi, e Dante Alighieri costruisce su questo schema la pianta del suo Paradiso. Alla gerarchia celeste [spiega il Dionigi Areopagita] corrisponde la gerarchia ecclesiastica, anch’essa scandita in ritmi triadici [con al centro la triade: vescovo-prete-diacono] e si capisce quale consenso abbiano avuto i due trattati sulla Gerarchia celeste del Dionigi Areopagita nella società medioevale: quest’opera ha contribuito a costruire la “struttura feudale” tutta ordinata secondo una gerarchia scalare [Dio-Papa-Imperatore, Vassallo-Valvassore-Valvassino. Prete-Cavaliere-Contadino], e questo è uno dei casi più clamorosi in cui la teologia ha funzionato per legittimare un sistema considerato “sacro” nella sua struttura, quindi, immodificabile [e tutto questo è andato molto al di là delle intenzioni di Proclo]; nel IX secolo [e ci arriveremo strada facendo a raccontare questi avvenimenti], avremo un nuovo “Impero Romano” che, non a caso, si fregerà del titolo di “Sacro” e la fonte di legittimazione più autorevole di questo nuovo Stato [benedetto la notte di Natale dell’anno 800, 1213 anni fa] viene proprio dal Dionigi Areopagita.

   Per quanto riguarda il terzo tema [il movimento per ascendere a Dio] l’autore spiega che, nato da Dio, il mondo creato è in moto verso di Lui, e questo movimento ascensionale investe l’intelligenza della persona e si compie in tre momenti: la purificazione [favorita da uno stile di vita sobrio e solidale], l’illuminazione [favorita da una vita di studio], l’unione contemplativa [favorita da una vita meditativa] che porta alla “mistica inconoscenza data dell’estasi [secondo le Enneadi di Plotino]” che è, spiega il Dionigi Areopagita, il punto culmine della “teologia negativa” perché non è possibile conoscere Dio per quello che è, ma, tuttavia, possiamo contemplare [mediate la lettura, la scrittura, la pratica artistica, l’applicazione intellettuale] i “simboli” che ne richiamano la presenza. La “inconoscenza estatica” è, secondo il Dionigi Areopagita, la più particolare forma di comprensione [di illuminazione] intellettuale [la inconoscenza estatica è l’alternativa a tutto ciò che il sistema ci fa entrare nella mente per cui subiamo il sopruso di avere una testa ben piena spesso di ciarpame, non di conoscenze] fondata sull’intuire, sul captare, sul presentire, sul fiutare, sul presagire, sull’avvertire [«Dio non lo si conosce, lo si avverte» e questo è l’incipit fulminante del Dionigi Areopagita, e un pensiero simile si è sviluppato, dal IV secolo, anche in Cina nell’ambito del Taoismo classico: chissà se, dopo la vacanza, riusciremo a fare una visita al signor Zhuang-zi, detto anche Chuang-tzu?]. Quando si tratta di entrare in contatto con una “realtà indefinibile”, spiega il Dionigi Areopagita, la forma più efficace di conoscenza, di “inconoscenza estatica [o mistica]”, è il “simbolismo”. C’è un simbolismo, spiega il Dionigi Areopagita, della “somiglianza” e uno della “dissomiglianza”: il primo è adatto alla formazione delle persone, neofite della contemplazione, che hanno bisogno di appoggiarsi a delle immagini, l’altro, quello della “dissomiglianza”, è possibile solo alle persone più mature, le quali sanno che la vera parola è il “silenzio” e che la vera conoscenza è la “non-conoscenza”. Questi ragionamenti complicati e macchinosi sulla “conoscenza della non-conoscenza” e sul “silenzio come parola dell’anima” hanno coinvolto i filosofi della Scolastica in Età medioevale [e ne studieremo, a suo tempo, il pensiero perché la “non-conoscenza” ha un suo linguaggio e il silenzio ha una sua voce], ma hanno anche appassionato le intellettuali e gli intellettuali che, in Età contemporanea, hanno partecipato alla nascita e allo sviluppo dei vari movimenti “simbolisti [artistici, letterari, filosofici]” che, a suo tempo, strada facendo, incontreremo senza poter fare a meno di citare il Dionigi Areopagita.

   Il Dionigi Areopagita c’insegna una cosa molto importante: che l’intelligenza umana contiene una specie di supremo sospetto sulla validità dei concetti chiari e distinti, un sospetto che è sicuramente un principio di libertà della ragione e che invita a praticare quel valore che è il “silenzio”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La “mistica neoplatonica” che caratterizza il Dionigi Areopagita presenta il “silenzio” non solo come “assenza di rumore [nel VI secolo non c’era l’inquinamento acustico che ci affligge oggi]” e come “taciturnità” ma come fattore di “quiete, pace, serenità, riposo”…

In quali situazioni, in quali ambienti, trovate e gustate le salutari virtù del “silenzio”     ?… 

Scrivete quattro righe in proposito… 

   E adesso leggiamo l’inizio del trattato del Dionigi Areopagita che s’intitola Teologia mistica dove l’autore – dopo un incipit molto significativo [Dio non lo si conosce, lo si avverte] – scrive il catalogo dei temi che poi sviluppa: non dovrebbe essere incomprensibile per noi questo brano-

LEGERE MULTUM….

Dionigi Areopagita, Teologia mistica

Dio non lo si conosce, lo si avverte. Qui si illustra in che cosa consista l’indicibile tenebra [gnophos] della divinità e come si giunga all’unità con Dio e come si debba onorare il creatore trascendente di tutte le cose. Qui si illustra il significato della teologia affermativa e negativa delle quali la seconda ha la precedenza sulla prima. Qui si illustra che la causa che trascende ogni realtà percepibile non è a sua volta qualcosa di percepibile e che la causa che trascende ogni realtà intelligibile non è a sua volta qualcosa di intelligibile. Scopo della conoscenza mistica di Dio è la comprensione della superiorità divina rispetto a qualsiasi forma di affermazione o negazione nella consapevolezza di non poter attribuire a Dio né essere né non-essere

   E ora leggiamo altri due frammenti dal trattato intitolato Gerarchia celeste.

LEGERE MULTUM….

Dionigi Areopagita, Gerarchia celeste

Il fine della gerarchia è l’assimilazione e l’unione a Dio per quanto è possibile. Il Padre, principio di ogni bene, si rivela per ricondurre tutti gli esseri a sé. Gli uomini, gerarchicamente disposti nella Chiesa, sono chiamati ad elevarsi al Padre imitando gli angeli, anch’essi gerarchicamente disposti. Per rendere possibile questa imitazione, Dio ha rivelato le gerarchie angeliche attraverso simboli materiali. Ogni grazia eccellente, ogni dono perfetto discende dall’alto, dal Padre delle luci; anzi, ogni luminosa processione mossa dal Padre, venendo a noi come dono di bontà, ci rende semplici [aplotes] spingendoci verso l’alto, verso l’unità e la semplicità con cui l’Uno unisce a sé tutte le cose. Infatti, come dice la Sacra Scrittura, tutto esiste da Lui e per Lui [Lettera ai Romani, 11,36].

   Quante siano e quali le disposizioni delle sostanze celesti e come siano costituite le loro gerarchie, dico che lo conosce esattamente solo il loro divino Principio iniziatore: infatti, è impossibile che noi conosciamo i misteri delle intelligenze ultramondane e le loro perfezioni. Dunque, noi non diremo nulla di nostra iniziativa ma, per quanto è possibile, esporremo le visioni angeliche che furono contemplate dagli ispirati scrivani così come ce le hanno rivelate. La Sacra Scrittura ha chiamato con nove nomi tutte le sostanze celesti emanate in tre triplici disposizioni: la prima è quella che sta sempre accanto a Dio e che è unita a Lui strettamente prima di ogni altra e senza intermediari, i santissimi Troni, e gli ordini che hanno molti occhi e molte ali, i cui nomi ebraici sono Cherubini e Serafini. La seconda è quella composta dalle Potestà, dalle Dominazioni e dalle Potenze, e la terza dalle ultime gerarchie celesti, ossia dalla disposizione degli Angeli, Arcangeli e Potestà. I nove nomi delle gerarchie angeliche sono tratti dal Libro di Isaia 6,1-7 (i Serafini); dal Libro della Genesi 4,1 (i Cherubini); dalla Lettera agli Efesini 1,21 (i Principati, le Potestà, le Potenze, le Dominazioni); dalla Lettera ai Colossesi 1,16 (i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà); dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi 4,16 (gli Arcangeli), per gli Angeli le testimonianze sono innumerevoli. La divisione in tre disposizioni è una esatta trasposizione delle tre triadi di Proclo in “Teologia platonica” e nel “Commento al Parmenide” di Platone.

   Abbiamo letto questi brani in chiave propedeutica e secondo la natura del nostro viaggio che procede in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Una delle opere che ci accompagna e che – inevitabilmente [per fortuna] – ci accompagnerà nei nostri Percorsi sul vasto territorio medioevale è la Divina Commedia e il rapporto ideologico tra l’opera dantesca e il Dionigi Areopagita è strettissimo: Dante vuole scrivere un’opera che sia assolutamente in linea con l’ortodossia [vuole l’imprimatur della Chiesa] e, quindi, il continuo riferimento che fa alla teologia del Dionigi Areopagita offre, ai suoi versi, un marchio di garanzia. I temi della “non-conoscenza di Dio [l’inconoscenza estatica]” e la “disposizione della gerarchia celeste” [Troni-Cherubini-Serafini, Potestà-Dominazioni-Potenze, Angeli-Arcangeli-Principati”] in cui si struttura il Paradiso assicurano ai versi di Dante la perfetta identità con la dottrina della Chiesa della quale il Dionigi Areeopagita è stato, dalla sua comparsa pubblica [nella disputa teologica del 533 a Bisanzio], un caposaldo. Ben difficilmente si comprenderebbe la Terza cantica [il Paradiso] della Divina Commedia senza conoscere la concezione dionisiana di “Dio come luce che si riflette nelle diverse gerarchie angeliche e nei cieli, come luce che acceca e accende la conoscenza della non-conoscenza [ricordate, per esempio, la figura dell’anima santa di Severino Boezio che sta dentro, con altri Santi, ad una processione di luci descritta da San Tommaso d’Aquino? Ebbene è parola di Dionigi Areopagita messa in versi da Dante]”. Dante,  come tutti i membri della Scolastica, impara la teologia dal Dionigi Areopagita e mette in versi l’idea che la Verità non si raggiunge con la polemica, contro le non-verità, ma amando la Verità e difendendola per se stessa perché più si sale verso le cose alte, e più i lunghi discorsi umani devono abbreviarsi [tradursi in versi], e il culmine dell’ascesa, l’incontro con la Causa prima, si celebra nel “silenzio metafisico”.

   Il linguaggio per eccellenza che “parla nel silenzio” è il “sogno”. Proclo racconta di aver fatto un sogno simbolico, e il “sogno di Proclo” è la metafora [in chiave neoplatonica] che determina la fine di un’epoca, e anche noi ci domandiamo se finisca qui l’Età tardo-antica e abbia inizio qui, con il “sogno di Proclo”, il Medioevo.

   Per i Neoplatonici la dèa Atena è la protettrice della Filosofia per eccellenza e “La statua di Atena” è stata il simbolo dell’Accademia di Platone e poi della Scuola di Atene fino al tempo del “tardo-neoplatonismo”. Plotino cita spesso la dèa Atena nelle Enneadi come simbolo della Filosofia e Severino Boezio, che ancora ci accompagna, sta pensando che, forse, era la dèa Atena la signora che lo ha soccorso e lo ha consolato. Secondo la Tradizione neoplatonica il “racconto del sogno di Proclo” rappresenta l’atto simbolico della fine della civiltà greca, alla quale ormai la cristianità si è sovrapposta e, su questi temi, si riflette appassionatamente durante l’Umanesimo, sulle soglie del Rinascimento, quando [all’inizio del 1400] si assiste [e lo studieremo ancora, a suo tempo, questo avvenimento] ad uno straordinario ritorno sulla scena culturale del Neoplatonismo e della stagione dei Classici: di quei Classici le cui Opere sono state salvaguardate proprio dai personaggi che stiamo incontrando nel nostro attuale viaggio. Ed è per questo motivo che il “sogno di Proclo” ce lo ha raccontato un grande umanista, che abbiamo già citato e che si chiama Lorenzo Valla, il quale in un suo saggio, nel 1449, è il primo studioso a “sollevare il velo [a svelare]” e a dimostrare che l’autore dei testi del Dionigi Areopagita possiede la stesso identico “stile allegorico” e la stessa precisa “identità di pensiero” di Proclo di Costantinopoli [e dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene]. Nel saggio che s’intitola Del vero e falso bene [De vero falsoque bono] Lorenzo Valla – dopo aver portato una serie di prove, molto attendibili, sull’attribuzione a Proclo dei testi del Dionigi Areopagita – racconta, con emozione, il “sogno di Proclo” presentandolo come la metafora che determina la fine di un’epoca della quale l’Umanesimo tardo-medioevale sta riscoprendo e ristudiando con passione le Opere in modo nuovo [modus hodiernus] e, adesso, lo leggiamo questo significativo brano.

LEGERE MULTUM….

Lorenzo Valla, Del vero e falso bene [De vero falsoque bono]

Proclo di Costantinopoli, come ci riporta la Tradizione neoplatonica, narrava di aver fatto un sogno che rappresenta l’atto simbolico della fine della civiltà greca: «In sogno mi apparve una bellissima signora, e mi disse: Sono la dea che presiede alla Filosofia, vai subito ad Atene, metti in salvo la mia statua ché i cristiani la vogliono distruggere!. Io andai e portai la statua in casa mia, integra, con i suoi simboli: il ramo d’ulivo che rende feconda la polis, la civetta [glaux] che scruta finanche nel buio profondo e lo specchio [glaukopis, dallo sguardo scintillante] che, come afferma il Maestro [Platone] nel Cratilo, riflette la Verità nel nome divino di Atena [Scrive Platone, nel Cratilo, che il nome Atena - A-theo-noa - significa “la mente di Dio, la Verità”].

Tenevo la statua con grande cura ma un giorno, lucidando la sua superficie preziosa, feci cadere lo specchio che si ridusse in frantumi, allora, travolto dalla tristezza, ho rivolto i miei occhi pieni di lacrime verso il volto della dèa e ho pronunciato queste accorate parole: Divina Atena, se ho alterato la verità [con la v minuscola] è stato per salvaguardare la Verità [con la V maiuscola], concedimi, ti prego, il perdono!.

Mi risvegliai nell’angoscia, corsi alla Statua e lo specchio, intatto [téleios], rifletteva la luce e allora capii che la dèa avrebbe protetto chi voleva salvare la Vera sapienza».

   Lorenzo Valla vuole confermare, con questo racconto allegorico, che se Proclo ha “alterato la verità” architettando l’impostura del Dionigi Areopagita, ha però salvaguardato una Verità più grande [con la V maiuscola] perché ha tutelato il patrimonio del pensiero neoplatonico che, non solo non ha fatto danni al Cristianesimo, ma gli ha reso un incomparabile servizio potenziandone la “dottrina”: “dottrina” che ha dominato la Storia del Pensiero Umano nei secoli a venire.

   Nel 529, quando l’imperatore Giustiniano chiude la Scuola di Atene, gli intellettuali neoplatonici, guidati da Damascio, emigrano in Persia e portano con loro “la statua di Atena” cioè la “Biblioteca dei Classici” che Proclo aveva predisposto per una eventuale fuga. Nell’esilio persiano gli intellettuali neoplatonici continuano a studiare e a tradurre le Opere della cultura e della filosofia greca. La figura della dèa Atena diviene, in esilio, il simbolo della resistenza della Filosofia, però, sul territorio dell’Impero bizantino, rimangono i testi dei trattati del Dionigi Areopagita a salvaguardare “in forma di dottrina cristiana” i contenuti della filosofia neoplatonica.

   Abbiamo terminato l’itinerario della scorsa settimana con la lettura [guidati sempre dal cugino Sylvestre, che funge da narratore] del testo di mezza pagina del romanzo Il calore del sangue di Irène Némirovsky [del quale conosciamo i personaggi e la storia avendone letto più di novanta pagine], e sappiamo che la giovane Colette fa finta di aver rotto uno specchietto per potersi allontanare dal paese e  non abbiamo potuto fare a meno di domandarci se la scrittrice sia consapevole dell’intreccio filologico che ha costruito richiamando lo “specchio di Atena che è il simbolo della Verità”.

   E se uno specchio potesse fare una “riflessione col pensiero [lo specchio riflette ma non pensa]” sulla sua condizione metaforica che lega questo oggetto all’idea della “verità”, come gli fa fare Trilussa [il poeta Carlo Alberto Salustri] in questo sonetto, ebbene: che cosa avrebbe da dire in proposito lo specchio? Leggiamo [facendo anche in modo che Proclo si tranquillizzi].

LEGERE MULTUM….

Trilussa, Lo specchio

Uno Specchio diceva alla Credenza:

- Quant’era mejo se restavo un vetro

limpido e puro, senza ‘sta vernice de dietro!

Uno de queli vetri, fatte conto,

incorniciati in certe finestrelle,

che vanno a foco all’ora del tramonto

per aspettà le stelle, e fanno da vetrina

ar Sole che rinasce ogni matina.

Invece, èccome qua! De tanta gente,

sia giovane sia vecchia, che me passa davanti e me se specchia,

che ce rimane? Gnente.

La vita mia nun è che un’illusione:

rifletto, ma nun penso. E se me tocca

de di’ la verità senza aprì bocca

nun trovo un cane che me dà raggione.

   Con queste riflessioni in mente riprendiamo la lettura del romanzo Il calore del sangue di Irène Némirovsky da dove l’abbiamo interrotta la scorsa settimana: sono le ultime pagine che leggiamo insieme perché a questo punto, utilizzando la biblioteca, potete arrivare alla fine per conto vostro [resta una trentina di pagine] e siamo nel momento in cui inizia il disvelamento perché la rete delle relazioni dovute al “calore del sangue” ha cominciato a dipanarsi: sono“relazioni pericolose” quelle che sono intercorse e che intercorrono fra i vari personaggi, i quali, in superficie, pare vivano in un mondo idilliaco [immersi nei fecondi cicli stagionali della campagna] dove la Verità [strettamente legata all’Amore, con la A maiuscola] sembra sempre scritta con la V maiuscola e, invece, la “verità” – allude la scrittrice con il suo sguardo acuminato [molto più acuminato di quello di Trilussa – si presenta sempre con la v minuscola e assoggettata alle finzioni, molto spesso necessarie, che disegnano il quadro apparente della vita degli esseri umani.

   Leggiamo [è il cugino Sylvestre che prende subito la parola].

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

«Credo che Hélène abbia ragione:» dissi a François «per Colette sarà un grosso dolore sottoporre la vita privata sua e del marito alla disamina della giustizia».

«Santo cielo, non avevano niente da nascondere, poveri ragazzi!». … «L’assassino, poi, ammesso che esista e che il ragazzino abbia detto la verità, avrà di certo lasciato il paese da un bel pezzo». Per tutta risposta François scosse la testa. «Questo non gli impedirà di commettere un altro delitto, un giorno, spinto dal bisogno o dall’alcol. Se dovesse uccidere in un altro luogo, su quale base dovrei considerarmi meno responsabile? Io rispondo davanti alla mia coscienza delle azioni che commetterà, poco importa se sarà nel Nord o nel Sud». Guardò la moglie. «Non riesco a credere che se ne possa anche soltanto discutere. Hélène, mi meraviglio di te. Come mai proprio tu, che hai un’anima tanto retta e pura, non ti accorgi di quanto sia turpe l’idea di occultare una cattiva azione, di nascondere la verità, solo perché la nostra pace ne sarebbe turbata?»«Non la nostra, François: quella di nostra figlia».

... continua la lettura ...

   Non a caso ci fermiamo proprio sul nome di “Hélène” perché è un nome fortemente evocativo nel contesto della tradizione mitica orfico-dionisiaca [conosciamo bene Elena di Sparta! E chissà quanti platani ci sono nel paese di campagna descritto da Irène Némirovsky! Sappiamo che il platano è l’albero di Elena].

   Per noi, ora, questo nome è un tramite: serve per farci entrare in relazione – per ora brevemente perché è solo una presentazione – con un personaggio che abita [piuttosto appartato] nel paesaggio intellettuale che continua a fluire sotto i nostri occhi: il paesaggio della “salvaguardia delle Opere dei classici greci e latini”. Il personaggio che stiamo per incontrare – e con il quale entreremo in relazione dopo la vacanza – si chiama Nonno di Panopoli ed è una nostra vecchia conoscenza [lo abbiamo incontrato in diverse occasioni nei nostri viaggi] ma adesso lo siamo venuti a trovare proprio nello scenario intellettuale dove abita.

   Proclo di Costantinopoli e i seguaci dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene non sono gli unici, in questo periodo in cui l’Impero bizantino perseguita la cultura pagana [greca e latina], a volerla salvaguardare ma c’è anche Nonno di Panopoli, il quale compie una straordinaria operazione intellettuale per tutelare l’elemento originario della “sapienza poetica e filosofica greca”: la figura stessa di “Dioniso” e i “simboli” con i quali questa figura è stata rappresentata nel corso dei secoli in Età antica e tardo-antica. Mentre Proclo di Costantinopoli e la sua Scuola [l’Accademia tardo-neoplatonica di Atene] operano per salvaguardare il patrimonio del “pensiero neoplatonico”, Nonno di Panopoli agisce intellettualmente per salvaguardare le parole-chiave e le idee-cardine del “pensiero neopitagorico” [A Panopoli - fiorente città del delta del Nilo non lontana da Alessandria - c’era la più importante Scuola neopitagorica del bacino del Mediterraneo, anch’essa chiusa per decreto] e il Neopitagorismo, che è affine al Neoplatonismo, viene oltremodo perseguitato dal sistema imperiale giustineaneo. Nonno lo incontreremo dopo la vacanza perché ora dobbiamo “celebrare il Natale” insieme  ai personaggi che abbiamo incontrato finora nel nostro viaggio.

   Dobbiamo dire che ci avviamo alla fine di questo itinerario, l’ultimo di quest’anno, sotto l’egida del nome “Dionigi” coniugato in tre modi diversi: il Dionigi Areopagita, il dio Diòniso, e Dionigi il Piccolo. Il Dionigi Areopagita e il dio Diòniso sono due apparati che conosciamo e con i quali avremo ancora a che fare, e Dionigi il Piccolo chi è? Molte e molti di voi conoscono questo personaggio perché lo abbiamo già incontrato in altri contesti ma ora, anche a lui, facciamo visita proprio nel luogo dove abita: in quella che possiamo chiamare la “valle dei Dionigi” del paesaggio intellettuale della “salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”.

   Quest’anno celebriamo il Natale in condizioni molto particolari perché è proprio in questo periodo, nel VI secolo, che la rievocazione liturgica del Natale, così come la celebriamo noi oggi, ha assunto il significato di far entrare, in modo ricorrente, la figura di Gesù nella Storia dell’Umanità, nel “tempo che passa [il chronos]”. Se il Cristianesimo non si era ancora appropriato del “tempo che passa”, è perché c’erano del problemi non risolvibili se non gradualmente.

   Nelle ekklesìe del I secolo si sa pochissimo della vita di Gesù e quel poco che si sa corrisponde alla vita di una “persona qualunque [quel Gesù]”. E, come ogni altra persona qualunque, Gesù – in modo “consequenziale” – è stato un “figlio” [figlio di Maria, figlio di Giuseppe, figlio di David, figlio adottivo di Dio, figlio consustanziale al Padre: quante filiazioni ha avuto!] e questo problema dell’essere “figlio” comporta di doversi interrogare sulla sua nascita nel tempo, nel tempo della Storia dell’Umanità. Nelle ekklesìe del I secolo [e questo particolare lo ricorderete] non si conosce la data di nascita di Gesù, e Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, di questa notizia non se ne occupa: fa solo un accenno alla nascita di Gesù con grande “intelligenza consequenziale [” tipica dello scrivano Paolo di Tarso] e, di questo tema, ce ne siamo occupate ed occupati nel viaggio dell’anno scolastico 2010-2011.

   I racconti della Letteratura dei Vangeli pongono l’avvenimento della nascita di Gesù in primavera inoltrata, e, allora, il 25 dicembre – una data che sta nel cuore dell’inverno – da dove viene fuori a proposito della nascita di Gesù? La Letteratura del Vangeli, soprattutto dagli anni 90, costruisce sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, una serie di testi mitici e leggendari di straordinaria bellezza [che tutte e tutti noi conosciamo attraverso l’immagine del presepe e attraverso le innumerevoli opere create dalla Storia dell’Arte] e, a questo proposito, dobbiamo ancora una volta citare il testo del Vangelo Deuterolucano che comprende [come molte e molti di voi ben sanno] i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca: chi non li avesse letti questi due capitoli faccia questo esercizio, ma lo rifaccia anche chi li ha già letti perché ogni anno [in tempo d’Avvento] si presenta il momento adatto per compiere, in modo rituale, questa lettura che mette in parallelo la nascita di Gesù con quella di Giovanni il Battezzatore [una lettura che si esaurisce in una mezz’oretta].

   I testi della Letteratura dei Vangeli che narrano della nascita e dell’infanzia di Gesù non hanno la caratteristica di essere storici ma sono “apologetici” e, quindi, non fissano date, e i riferimenti storici in essi contenuti sono molto incerti e frammentari utilizzati in funzione della predicazione. La situazione temporale in cui la Letteratura dei Vangeli racconta la nascita di Gesù viene collocata [abbiamo detto] nella primavera inoltrata: infatti ci sono le greggi e i pastori all’aperto, c’è un censimento in corso, la gente doveva muoversi a piedi per farsi registrare, e questo poteva avvenire solo durante la stagione più favorevole, ci sono anche i Magi in viaggio dall’Oriente sulla scia di stelle primaverili. E allora come mai noi celebriamo la nascita di Gesù il 25 dicembre? Come si è arrivati a stabilire questa data? Questo tema non è stato affrontato in relazione alla “Storia della salvezza ” [non si guarda alla Letteratura dei Vangeli nel VI secolo per definire la data di nascita di Gesù] ma in funzione della conquista di quel valore potentissimo che è il “chronos ” [il tempo che passa, il fluire della Storia].

   Noi abbiamo studiato, a suo tempo, che Paolo di Tarso [in particolare nella Lettera ai Romani] svaluta il chronos [il tempo che passa] in nome del kairòs [il tempo che resta], ma con l’andar del tempo [se vogliamo giocare con le parole] la Chiesa – diventata ormai istituzione di potere [con Costantino, con Teodosio, con Giustiniano] – tende ad impossessarsi soprattutto del chronos [del tempo regolato dal calendario, scandito dall’orologio] e, quindi, pretende di governare il tempo della Storia, e così il processo di conquista del “tempo che passa [del chronos, il tempo del Potere]” mette in secondo piano lo sviluppo dell’idea del “tempo che resta [del kairòs, il tempo presente della Salvezza]”.

   Chi ha fissato – e quando è stato fissato – l’anno di nascita di Gesù di Nazareth, o meglio, l’anno di nascita di Gesù Cristo? A fissare l’anno di nascita di Gesù in quanto “Cristo della fede”, perché del Gesù di Nazareth storico non si hanno notizie precise, è stato il monaco Dionigi il Piccolo, nato in Scizia [la regione a nord del mar Nero] e vissuto tra il 500 e il 555. Il monaco Dionigi il Piccolo [detto il “Piccolo”, ò Micròs, perché era basso di statura: Dionisios ò Micròs] è uno scienziato, è un matematico che ha completato un lavoro iniziato ad Alessandria da un gruppo di intellettuali [tra i quali Cirillo di Alessandria] sulle “tavole dei cicli pasquali” costruite secondo il calendario lunare per stabilire la data variabile per la celebrazione della Pasqua cristiana [per distinguere l’anniversario liturgico della risurrezione di Gesù dal calendario ebraico]. È stato papa Giovanni II [papa Giovanni II si chiamava Mercurio ed è stato il primo papa a cambiare nome: non stava bene che un papa si chiamasse come il messaggero degli dèi pagani] a dare a Dionigi il Piccolo questo importante incarico – quello di stabilire la data di nascita di Gesù – e Dionigi basa il suo lavoro di ricerca sui testi dei Vangeli, in particolare sui dati contenuti nel testo del Vangelo secondo Luca che, come sappiamo – e lo sa bene anche Dionigi – non sono dati storici, quindi, è consapevole di costruire un’ipotesi. Oggi sappiamo che questa ipotesi è approssimativa nel senso che dovremmo spostare un po’ indietro l’anno di nascita di Gesù, ma non sappiamo esattamente di quanto [tra i quattro e i sette anni].

   Secondo i calcoli di Dionigi – e, con i mezzi a disposizione che aveva, ha comunque lavorato bene – Gesù di Nazareth sarebbe nato 753 anni dopo la fondazione di Roma, perché gli anni, al tempo di Dionigi, nel VI secolo, si continuavano a contare dalla “mitica data” della fondazione di Roma [ab Urbe condita]. E quindi siamo nell’anno 1285 dalla fondazione di Roma quando Dionigi il Piccolo, dichiara che, secondo i suoi calcoli, Gesù sarebbe nato 753 anni dopo la fondazione dell’Urbe. E allora facciamo i conti così come li ha fatti Dionigi il Piccolo: siccome [afferma Dionigi] oggi siamo nell’anno 1285 dopo la fondazione di Roma, con una semplice sottrazione [1285, che è l’anno in corso dalla fondazione di Roma, meno 753, che è l’anno, dalla fondazione di Roma in cui Gesù di Nazareth può essere nato] otteniamo il numero 532 che, afferma Dionigi, risulta essere l’anno corrente dopo la nascita di Cristo [Post Christum natum]. Di conseguenza, dall’anno 532 [dopo la nascita di Cristo], la data della fondazione di Roma viene affiancata a quella della nascita del “Cristo della fede”. Sarà papa Gregorio Magno [540-604] – che incontreremo prossimamente – a fissare il Calendario dalla nascita di Gesù Cristo abolendo il computo degli anni dalla fondazione di Roma: ormai il Cristianesimo aveva conquistato il tempo storico, e il kairòs, il concetto paolino del “tempo che resta” [il tempo della Salvezza], passa in secondo piano rispetto al chronos, al “tempo che passa” [il tempo della Potenza].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

È interessante andare a conoscere quali avvenimenti storici, culturali o di costume sono concomitanti con il nostro anno di nascita: ce n’è uno in particolare che vi piace ricordare?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

   Nei romanzi “il tempo” tende ad essere un “tempo che resta”: quando ci dedichiamo alla lettura, infatti, entriamo nel “tempo del racconto” dove il “tempo che passa” viene narrato come se fosse un “tempo che resta”. È buffo pensare che, colui il quale, ha operato per spaccare la Storia in due nel nome di Cristo si chiami come Diòniso: Dionisios ò Micròs.

   Ma ci siamo chieste e ci siamo chiesti: come mai celebriamo la nascita di Gesù il 25 dicembre? Anche in questo caso ci dobbiamo rifare all’operato di papa Gregorio Magno [il quale è uno che il soprannome di “Magno-Grande” se lo è guadagnato sul campo]. Nel momento in cui il Mondo creato – in concomitanza con il solstizio d’inverno – è per maggior tempo immerso nelle tenebre ecco che il tema della “luce” emerge con maggior evidenza.

   Papa Gregorio Magno [540-604] nel 555 dopo Cristo [post Christum natum] stabilisce che l’anno solare, per la Chiesa Universale, abbia inizio il 25 dicembre, anche perché era già dal IV secolo che il 25 dicembre era già stato scelto dalla comunità cristiana di Roma come data di nascita di Gesù. Per quale motivo, a Roma, papa Silvestro – ma, ancor prima di lui, l’imperatore Costantino –, dopo il Concilio di Nicea, nel 325, sceglie la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù ? Questa data viene scelta per tre validi motivi.

   Il primo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per creare una coincidenza con il “solstizio d’inverno”. In questo momento dell’anno – dopo il 21 di dicembre – la luce del sole ricomincia a crescere sulla terra e, il tempo della luce dopo essere calato, riprende gradualmente ad allungarsi e a Roma, in questi giorni, si celebrava, così come in tutto il territorio dell’Impero romano, la festa del “Sol invictus”, del sole che non viene vinto dalle tenebre e si rendeva onore all’imperatore che, come il sole, illuminava con la sua presenza tutta la Terra abitata e Costantino questa festa la vuole conservare.

   Il secondo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per metterla in corrispondenza con la festa del dio solare Mitra: dal culto di Mitra [un misto di religione persiana, cultura della dèa Iside e tradizione orfico-dionisiaca: ], la Chiesa romana primitiva assimila molti elementi di carattere rituale.

   Il terzo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per metterla in accordo con le parole del profeta Malachìa. Nel Libro di Malachìa – che è l’ultimo libro del canone dell’Antico Testamento – al capitolo 3 versetto 20 leggiamo: «Ma per quelli che riconoscono la mia autorità, la mia giustizia sorgerà come il sole che non viene vinto dalle tenebre, e i suoi raggi porteranno la guarigione. Voi sarete liberi e salterete di gioia come vitelli che escono dalla stalla».

   Con la scelta del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù, quindi, la Chiesa di Roma assembla – con grande arguzia intellettuale – tre elementi che si compenetrano: uno di natura istituzionale, uno legato ai culti pagani e uno legato alla cultura dell’ebraismo. Il primo elemento è quello della festa dello Stato romano [la festa del “Sol invictus”] e questo è l’elemento di raccordo istituzionale, perché il Cristianesimo – dopo secoli di “disobbedienza civile” – comincia ad avvicinarsi ai rituali di Stato e tende a farsi Stato. Il secondo elemento è di carattere strettamente “religioso” e riguarda la festa di una grande e importante divinità pagana, Mitra, e il Cristianesimo comincia a sovrapporsi a tutti i culti pagani che si celebrano a Roma – soprattutto quelli d’impronta orfico-dionisiaca – e che si celebrano sul territorio dell’Impero. Il terzo elemento, che riguarda una profezia ebraica tratta dal Libro di Malachìa, costituisce il fondamentale raccordo con la Letteratura dell’Antico Testamento: il Cristianesimo, sebbene cominci a presentarsi ormai come una “nuova religione” tuttavia non può, e non potrà mai, fare a meno della cultura dell’ellenismo, né della religioni pagane e, soprattutto, non potrà mai fare a meno della tradizione dell’ebraismo. [Tra parentesi dobbiamo ricordare che questo concetto viene espresso nei grandi affreschi rinascimentali come La Scuola di Atene di Raffaello e quelli della Cappella Sistina di Michelangelo: ma questi sono altri viaggi, già fatti o ancora da fare].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che ricordi avete del “solstizio d’inverno”, delle notti più lunghe dell’anno   , compresa la notte di Natale?  

Scrivete quattro righe in proposito…

   Terminiamo la prima parte del nostro viaggio con una nota sarcastica [e gustosa] proveniente dalla raccolta Er giorno der Giudizzio di Giuseppe Gioacchino Belli. Il Belli lo abbiamo incontrato più volte ed è un poeta che ha scritto soprattutto in dialetto romanesco, è vissuto a Roma tra il 1791 e il 1863 e di lavoro ha fatto l’impiegato nell’amministrazione pontificia, ed è autore della più grandiosa raccolta di sonetti della Letteratura non solo italiana ma mondiale: dal 1830 al 1849 ne ha scritto [scriveva dieci minuti al giorno] ben 2279  e sono “un monumento della plebe di Roma” di cui il poeta si fa portavoce. Nell’opera del Belli l’effetto comico nasconde, senza cancellarla, una visione drammatica dell’esistenza e, in questo caso, nel sonetto che stiamo per leggere, manifesta un’amara riflessione su come il “messaggio del Natale” abbia perduto la sua valenza salvifica per lasciare il posto ad un menù, il menù per un potente che bisogna ingraziarsi: non è questo il modo – dice Giuseppe Gioacchino Belli – in cui deve esistere la “gerarchia”, ma secondo la “dottrina” del Dionigi Areopagita la “gerarchia ecclesiastica” dovrebbe essere a disposizione per dispensare la “grazia”, ma il popolo romano trasforma la “devozione” in servilismo.

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Gioacchino Belli, La viggija de Natale

Eustachio, la viggija de Natale tu mettete de guardia sur portone

de cuarche monziggnore o cardinale, e vederai entrà sta processione.

Mo entra una cassetta de torrone, mo entra un barilozzo de caviale,

mo un porco, mo er pollastro, mo er cappone, e mo er fiasco der vino padronale.

Poi entra er tacchino, poi l’abbacchio, l’oliva dorce, er pesce de Fojjano,

l’ojjio, er tonno, l’anguilla de Comacchio. Inzomma, inzino a notte, a mano a mano,

tu lì t’accorgerai, padron Eustachio, cuant’è devoto er popolo romano.

   Il Dionigi Areopagita sostiene che la nostra nascita “secondo la carne” deve prevedere una crescita secondo lo spirito che sia favorita dallo “studio [studium]”, che è sinonimo di “cura”, e il Natale è proprio una manifestazione [un’epifania] dell’atto del “prendersi cura” di sé e degli altri. La Scuola, quindi, deve augurare un buon Natale di studio [studium et cura]!

   Arrivederci al prossimo anno, quando noi – ancora sulla scia dell’idea della “inconoscenza estatica” faremo anche una rapida escursione in Cina, in India e in Persia: il viaggio continua mercoledì 8 gennaio [a Bagno a Ripoli], giovedì 9 gennaio [ad Imprumeta-Tavarnuzze], e venerdì 10 gennaio [a Firenze], nel 2014.

   Auguri a tutte voi e a tutti voi!…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 13, 2013